Zerocalcare: l’umorismo nero
“Quando muoio resta a te” è la frase con cui un genitore rassicura un/a figlio/a di lasciargli in eredità qualcosa.
Il patrimonio, come suggerisce la stessa parola, è qualcosa di cui un padre si deve fare carico, è la dimostrazione di un bene che passa per una tenera concretezza, spesso anche di cose inutili come una «riproduzione di catacombe in pasta di pane».
Di toccare i sentimenti non se ne parla, perché forse è difficile trovare le parole? Queste sono giurisdizione del matrimonio che a volte calpesta, con la sacra rota, amori finiti e rimasti nel seme di un figlio… il quale, però, se non ne ha, lascia in sospeso questioni di cui preoccuparsi: a chi andrà quella pietra dopo di lui?
Quando muori resta a me, l’ultimo libro di Zerocalcare (Bao publishing, 2024) condensa, nelle nuvole di un fumetto sopra le montagne del Friuli, la storia di una “vacanza” con un padre e i suoi silenzi, in una “pace” che si trova in una natura talvolta tormentata, quella umana, proprio perché in quel silenzio, dove non c’è campo, si sentono più forti i pensieri e i ricordi di una storia che parla con i muri, che si ergono (e si materializzano nei disegni) in mezzo alle conversazioni di due uomini, un padre e un figlio che fanno fatica ad aprirsi.
È difficile poi, se si è abituati a misurarli, quantificarli con il testosterone e un figlio che non reagisce chimicamente alle gambe di una donna è forse un difetto di fabbrica? Eppure l’amore di Zero, scoppiato come la confezione per una Camilla, che porta il nome della sua merendina d’infanzia, è un bene immobile prezioso che si tiene dentro.
Ecco, adesso è Zerocalcare, l’unigenito 40enne senza figli, a consegnare in eredità a suo padre i silenzi riempiti e scoppiati nei baloon di un fumetto fuori dal clima mite e montanaro di un figlio, invece, fedele al traffico e al nido dei piccioni di Rebibbia.
Zerocalcare ci fa sentire come sia difficile nominare i sentimenti, quello che «non ti spiega nessuno» neanche a scuola, a differenza delle emozioni classiche: «felice-triste-arrabbiato» (quarta di copertina) è il senso di colpa di un figlio con i genitori separati.
E così molte questioni delicate rimangono dentro i componenti di una famiglia, in una storia a rischio valanga che non “regge più” e sente l’urgenza di sapere, di non perdere il filo del racconto, una radice dura e profonda, perché la «montagna non dimentica» come è scritto sulla parete, e come si dice, non perdona, qualora i non detti venissero seppelliti sotto quel macigno.
I suoi si erano lasciati a una porta di distanza da lui, in un giorno casuale della tenera età in cui Zero, estraniato dalle “cose da grandi”, giocava con i cattivi dei personaggi del cartone animato di He-Man.
Ma nella lotta tra mamma e papà, chi vince?
Cosa era successo quel fatidico giorno, quando il padre era tornato a casa zuppo ?
Annunciava a Zero che aveva combattuto con Mer-Man, l’uomo pesce che emerge dagli abissi, una metafora calzante per l’occasione. Il mondo fantasy lo sollevava dall’arduo compito di spiegare la complessità del reale e dei rapporti tra umani. Così, parlando la sua stessa lingua, il padre pennuto poteva rimanere nell’albo degli eroi; aveva combattuto con un mostro. Gli avrebbe mai confessato che quel demone era la paura di perdere il rapporto con suo figlio? Una cosa che Zerocalcare ha poi imparato a leggere e scrivere, nel tempo, con la sua sferzante ironia.
Alla domanda di un figlio che, purtroppo, non può più credere alla fantascienza, i due genitori facevano ancora fatica a dare spiegazioni; dietro al litigio sull’accensione di un termosifone c’erano sbalzi d’umori non regolabili con la manopola.
La realtà fantasiosa di un bambino che passa attraverso i personaggi eroici dei cartoni animati si è trasformata, poi, nelle caricature disegnate delle figure vere, di quei caratteri umani, fragili e sfumati della vita di un Calcare adulto e più calcificato; un pennuto papà-oca, con le sembianze di quello di Po’, il panda di Kung Fu panda, e una mamma chioccia-Lady Cocca di Robin Hood.
L’abilità di Zerocalcare è stata, inoltre, crescere e maturare nell’umorismo un modo salvifico, cinico e tenero di giocare con i “traumi”, compreso quello della separazione dei genitori.
Nella sua lotta non c’era un vincitore, forse un figlio se lo chiede, ma non si risponde.
E come in tutte le famiglie dei figli dei separati, anche la casa si divide in due.
In maniera terribilmente più concreta di un cuore spezzato, che come un muscolo tra gli altri deve allenarsi per far battere bene, tra un orologio biologico e i tempi ordinati dai giorni alternati tra i genitori che lo occupano, le prime extrasistole di un figlio che deve prendere il ritmo con i suoi sensi di colpa e la sua identità da formare.
Come uno yo-yo o un ping pong, rimane tra la sua camera e il suo senato interiore, tra mamma e papà con cui stare «un po’ e un po’» e non sembrava una cosa così sconvolgente.
E tra la teoria di comprendere e legittimare una coppia che si “molla” e quello che interessa a un bambino, ovvero il suo tira e molla nella pratica di futuri venerdì in una casa nuova, c’era quell’abisso da cui proveniva Marman: «padre che rimane solo = orribile infamità», dice con estrema semplicità Zero.
Solo quando il «senso di colpa» viene giustificato dal «culo pesante» di un adolescente che per definizione è «stronzo», Zerocalcare, davanti la play trova la strategia di sopravvivenza; è un bradipo che si attorciglia al bracciolo del divano. Per farlo smuovere il genitore 2, come lo chiama Zero, deve usare un’altra strategia: «peccato che non vieni a dormire da me stasera, avevo comprato i funghi ripieni». Manipolazione? dimostrazione di amore? Insomma, una mossa da maestro verso chi, come Zerocalcare è diventato cintura nera di chi schiva la vita, forse proprio perché a furia di destreggiarsi tra le varie volontà e bisogni di tutti, ha cominciato a sentire il peso enorme del libero arbitrio e della conseguenza delle sue scelte condizionate dall’aria di casa.
L’abilità narrativa e il successo di Zero, che sta proprio nella sua propensione all’auto-giudizio e all’autoironia costruttiva dei suoi disagi, probabilmente deriva da questa personale storia di responsabilità che si impegna anche in politica, come è evidente in altre sue opere.
In quelli che lui chiama non-reportage preferisce la definizione di diari di viaggio come garanzia del filtro autobiografico di un servizio che rimanderebbe, invece, alla sfera giornalistica, più distante.
Pensiamo all’esempio di Kobane Calling (Bao publishing, 2016), che narra la sua esperienza di volontario in Siria a sostegno della resistenza del popolo curdo contro l’oppressione dello Stato Islamico.
Tutto è sempre filtrato dalle voci interiori con cui l’autore mette in discussione la sua personalità in un coro di creature che riproducono le sue fragilità, le sue paure, ma anche i giudizi di sé e degli altri negli “scenari” possibili. Dà voce a tutti: da un maiale ignorante, stereotipo del maschio etero-cis-occidentale-europeo, che non sa cosa sia Kobane, volgare e popolare, alle paranoie del sè fumettista underground che sbarca su Netflix: «molti commentatori ultraortodossi di internet-quotidiani-iperliberisti-che-campano-solo-grazie-al-finanziamento-pubblico mi accuseranno di essermi venduto al capitalismo» (Bao publishing, 2016) che però non minacciano l’autenticità della natura dell’autore solida, ma che si lascia scappare le sue vulnerabilità.
Il senso di colpa strettamente legato alla responsabilità e al forte senso del dovere, adesso impiegato nella testimonianza divulgativa, una cosa buona la fa: acuisce la sensibilità, strofina i neuroni specchio che gli permettono di “guardare dentro” l’altro con cui si forma il sé, prima di scriverci su.
Il suo umorismo “da vittima” non cade mai nel vittimismo, perché «è difficile che dal vittimismo esca un dibattito sano, rischia sempre di scivolare nell’intoccabilità, o nell’impotenza» (Zerocalcare, La dittatura immaginaria, la cancel culture, il politicamente corretto e perché confrontarsi con gli altri è quello che conta veramente, in Internazionale, n 1409, 14/20 maggio 2021).
Zero rivendica la sua vitalità e si sottrae da un atteggiamento depressivo nei confronti di un qualsiasi oppressore astratto o concreto, in modo da acquisire una forza, un “potere umile” che sembra un ossimoro.
Il suo umorismo in contesti di guerra come quelli da lui vissuti, nel senso di “osservati” in Medio Oriente, gli permette di esorcizzare la sua paura, il terrore goffo che si porta in bagaglio un uomo romano che si misura in una terra di guerra e pericoli lontani da una realtà in cui il rischio è «strozzarsi col grasso del prosciutto» (No sleep till Shengal, cit.).
Infatti, in una scena evocativa di Kobane Calling mette in ridicolo anche il suo stesso atteggiamento fifone al pensiero del suo presagio di morte che gli appare in uno scenario che dovrebbe risultare abbastanza inverosimile, in quanto stra-ordinario, per lui, da diventare divertente anche per i lettori.
Si tratta del cosiddetto umorismo da patibolo (gallows humor dall’ inglese antico che rimanda alla galga, la croce) della “vittima giustiziata” che sdrammatizza la sua condizione. L’umorismo di autodifesa, o meglio di autoregolazione emotiva sta nel creare un pensiero paradossale che sminuisce la gravità della situazione. In questa scena immaginata e non reale è evidente: il criterio della messa in punizione di due terroristi che lo rapiscono è quello di una madre che mette in castigo il figlio levandogli motorino e cellulare, non di certo pari alla gravità di due jihadisti dell’ISIS che stanno per sgozzarlo. Con la stessa “logica” di Quando muori resta a me Zero paragona la sconfitta del padre che passa a salutarlo a casa della madre, alla Germania al Patto di Versailles.
Ecco, in questo senso Zerocalcare non censura la sua sofferenza che si prende gioco del trauma, sia che si tratti di guerre vere, sia di quelle combattute “in casa”.