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Quel che ci fa vedere il mondo è anche quel che ci acceca / Immagini dappertutto
Il 15/16 marzo a Torino due giorni di incontri sul tema delle immagini e della violenza: come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un contributo di Vanni Codeluppi per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.
L’immagine ha una storia molto lunga alle spalle, in quanto è nata probabilmente con gli esseri umani. Con la capacità cioè di questi di estrarre dalla realtà che li circonda e di trasformare in simboli gli elementi presenti nell’ambiente di vita. Una capacità che era già presente dunque nei primitivi disegni che venivano tracciati sulle rocce presenti all’interno delle grotte. Disegni che, secondo alcune recenti scoperte fatte dagli archeologi, risalgono a circa 77.000 anni fa.
Ma l’immagine non opera soltanto dando vita a una riproduzione della realtà. Può presentare infatti anche qualcosa che è estremamente dissimile da questa. Qualcosa che appartiene solamente al mondo del visivo. D’altronde, va considerato che, come ha sostenuto lo storico dell’arte Michel Melot nel suo Breve storia dell’immagine (Pagine d’Arte), «Ogni immagine, anche la più realistica, porta in sé una parte di immaginario, quella che le conferisce il suo autore ma anche quella conferitale da ognuno degli spettatori».
Un’immagine è particolarmente efficace quando contiene all’interno di sé un concetto. Quando ha il compito di tradurre efficacemente con le specificità del linguaggio visivo una chiara idea di comunicazione. In questo caso le parole diventano decisamente superflue. L’immagine, infatti, è in grado di raccontare autonomamente delle storie coinvolgenti. In apparenza, sembra non poter sviluppare la narrazione nel tempo, bloccata com’è nell’istante immobile dello scatto fotografico. In realtà, l’istante fissato dall’immagine può essere una storia condensata, un momento proveniente da un flusso narrativo più ampio che il fruitore viene indotto a ricostruire mentalmente. Un momento che può racchiudere in sé delle grandi emozioni e scatenare delle altrettanto grandi passioni.
Il semiologo Roland Barthes, negli anni Sessanta, ha affermato più volte che noi viviamo in una «civiltà della scrittura», perché la nostra interpretazione del linguaggio visivo ha sempre bisogno di parole, come didascalia o in altre forme. Nei messaggi pubblicitari, ad esempio, l’interpretazione dell’immagine ha bisogno dell’headline o della bodycopy, che attribuiscono un senso al visual. Forse, all’epoca di Barthes tutto ciò era pienamente condivisibile, ma è il caso di chiedersi se oggi lo sia ancora. C’è infatti chi, a cominciare da Umberto Eco, ha scritto che viviamo più che mai in una civiltà della scrittura, perché il personal computer, anziché fare scomparire come sembrava il testo verbale dentro il suo schermo, ha stimolato le persone a scrivere in misura ancora maggiore. E si può dire naturalmente lo stesso dello smarphone. Tutto ciò però non comporta che il ruolo delle immagini si sia indebolito. Al contrario, l’immagine oggi è spesso in grado di parlare anche senza il sostegno del testo verbale. Se no, perché la pubblicità avrebbe progressivamente ridotto in questi ultimi anni il ruolo del linguaggio verbale sino quasi a farlo scomparire?
Probabilmente ciò sta avvenendo perché la natura delle immagini si sta progressivamente modificando. Forse dunque ha ragione il filosofo Vilém Flusser, il quale ha sostenuto nel volume Immagini (Fazi Editore) che è in atto un passaggio dalle «immagini tradizionali» alle «immagini tecniche», che sono fotografie, film, video, schermi, televisori, monitor di computer. Le prime sono «visioni di oggetti», le seconde «computazioni di concetti». Queste possono per molti versi ricordare le immagini tradizionali, ma sono profondamente differenti da esse, perché «si fondano sui testi, sono prodotte a partire da quest’ultimi e non rappresentano delle autentiche superfici, ma dei mosaici composti da elementi puntuali».
Va considerato inoltre che per Flusser le immagini tradizionali erano per gli esseri umani delle rappresentazioni che essi potevano solamente guardare e comprendere. Non avevano la capacità di intervenire su di esse, ma avevano invece la possibilità di subire il fascino dell’intensa forza espressiva derivante dalla loro natura magica. Le immagini tecniche invece, essendo basate su dei concetti ed essendo prive di dimensione, possono essere liberamente quantificate, contate e soprattutto manipolate per raggiungere differenti finalità.
Ma oggi le immagini possono essere soprattutto moltiplicate. Tutti gli individui ne producono in continuazione, con il risultato che siamo attualmente immersi in quel gigantesco e ricco universo di immagini che il filosofo Régis Debray ha denominato qualche anno fa «videosfera» all’interno del volume Vita e morte dell’immagine (Il Castoro). Le immagini ci assillano da ogni parte e riproducono tutti i fatti e i gesti relativi agli esseri umani. Esse sono però troppo numerose per poter essere adeguatamente conservate e dunque vengono istantaneamente consumate. Forse è anche per questo che lo stesso Debray ha scritto che «Quel che ci fa vedere il mondo è anche quel che ci acceca, impedendoci di vederlo, di vedere la nostra “ideologia”».