Istruzioni per candidati
La casa editrice Manni pubblica ora, con introduzione di Filippo Ceccarelli, traduzione e cura di Luca Canali e Maria Pellegrini, il Manualetto del candidato (Commentariolum petitionis), tradizionalmente attribuito a Quinto Tullio Cicerone, fratello minore dell'assai più noto Marco Tullio.
Ma già qui cominciano i problemi, perché l'attribuzione non è affatto pacifica.
Anche per questo breve testo, con i suoi quattordici capitoletti suddivisi in cinquantotto paragrafi, siamo in presenza della consueta ridda di ipotesi, che si scatena per varie altre opere del mondo antico.
Secondo alcuni studiosi (Eussner) si tratterebbe in realtà di un falso di epoca imperiale. Opinione condivisa fra gli altri da Mommsen, Henderson, Nisbet.
Secondo altri (Tyrrell e Purser, Constants, Carotenuto, Till, Nardo) invece il testo è autentico, ed è proprio di Quinto Tullio.
Per altri ancora, infine, l'autore non sarebbe il fratello minore, ma il maggiore, e non solo d'età, ossia Marco Tullio in persona. Tesi sostenuta da Tydemann, Ciaceri e, recentemente, confermata dall'analisi computazionale (Reconsidering Authorship in the Ciceronian Corpus throug Computational Authorship Attribution, Raija Vaimio et alii, “Ciceroniana on line” 2019, III, 1).
Ogni testo classico, o quasi, ha la sua piccola questione omerica.
L'operina in esame si presenta comunque come una lettera indirizzata dal fratello a Marco Tullio (Cicerone) in occasione della sua campagna elettorale dell'anno 64 a. C., quella che lo portò a diventare console e a stroncare poi, di lì a poco, la congiura di Catilina.
Quinto Tullio parte dal consiglio fondamentale: ricordati sempre che sei un homo novus. Ossia ricordati che non hai antenati illustri, che nessuno dei tuoi (dei nostri) ha mai rivestito una magistratura curule; nessuno in famiglia che sia stato edile curule, pretore, censore, né tanto meno console.
Cicerone (Marco Tullio) è dunque quello che noi oggi chiameremmo un self-made man, uno che si è fatto da sé, come fu del resto anche Mario, altro celebre arpinate, il quale, ai senatori dubbiosi se affidargli il comando contro Giugurta, mostrò le sue cicatrici, dicendo: questi sono i miei antenati.
È l'annosa questione del merito che affiora qui. Cicerone (il maggiore), in un'orazione di poco successiva, la Pro Murena, rivendicò orgogliosamente di aver “infranto la barriera della nobiltà” (claustra fregisse nobilitatis) e aver conseguito il consolato non per l'appartenenza alla classe senatoria, ma per il valore personale (virtus).
Quindi sappiamo come è andata a finire la competizione. Ma vediamo le strategie che il candidato console si fa suggerire dal suo stretto congiunto, o che finge di farsi suggerire o suggerisce lui a se stesso, attraverso la maschera compiacente del fratello (situazione borgesiana e/o pirandelliana quant'altre mai).
Il principio di fondo è enunciato nel capitolo dodici: “gli esseri umani sono attratti dall'atteggiamento e dalle parole più che dalla realtà e dal giovamento reale” (homines fronte et oratione magis quam ipso beneficio reque capiuntur). Ma già subito, nell'ultima riga del capitolo primo, campeggiava la parola chiave simulatio. E nel corpo del testo altre volte affiorano le parole simili, species, frons, vultus.
Insomma: l'apparire conta molto più dell'essere.
Perciò tu, dice Quinto a Marco, devi apparire. Devi farti vedere nel foro il più possibile e accompagnato dal maggior numero possibile di persone: uno stuolo di amici ti sarà accanto, ti farà corona. E saranno amici di ogni ceto, di qualsivoglia genere. Certo, aggiunge perfidamente Quinto (o Marco spacciandosi per lui) il nome “amici” durante una campagna elettorale ha un valore più esteso che nelle circostanze comuni (nomen amicorum in petitione latius patet quam in cetera vita). Al proposito, come non ricordare che circa vent'anni dopo, Cicerone stesso dedicherà un trattato specifico all'amicizia, alla vera amicizia, la philia greca, quasi a riscattarla da quest'uso strumentale, utilitario e sostanzialmente ipocrita.
Il candidato ha il compito quindi di apparire amico sia dei senatori, sia dei cavalieri, sia degli uomini attivi e industriosi, come pure dei libertini (figli di schiavi liberati), nonché di tutta la città, di tutti i collegi, dei distretti, dei quartieri, dell'Italia tutta, e delle sue tribù.
Meglio ancora se di tutti questi amici sa il nome, come un autentico nomenclator (uno di quegli schiavi che dovevano ricordare al loro padrone il nome di tutti quelli che incontravano) – e qui scatta una delle analogie con l'oggi, o con l'ieri più prossimo: anche Berlusconi esortava i suoi a far ricorso alla musica prediletta da ognuno, quella del suo nome e cognome, come testimonia Ceccarelli nella sua brillante introduzione.
Questo candidato amico di tutti, attento sia alle esigenze dell'ordine senatorio che a quelle dell'ordine equestre e dei pubblicani e degli elettori urbani e di quelli dei municipi, deve avere tra i suoi modelli quello dell'oratore Gaio Cotta. Perché? Ma perché egli non diceva mai di no a nessuno (se nemini negare). Prometteva sempre, anche se sapeva di non poter poi mantenere. Spesso accadeva poi qualcosa d'inatteso, d'inaspettato che lo liberava elegantemente dagli impegni presi. Destino fortunato.
Naturalmente il futuro console, se vuole davvero diventar tale, si deve guardare come dalla peste di una cosa in particolare: non deve “invischiarsi nei problemi dello Stato” (nec tamen in petendo res publica capessenda est). Ossia deve astenersi dal prendere posizione, dall'assumere una posizione netta in uno dei qualsivoglia temi reali della politica attiva. Parrebbe un paradosso bello e buono, ma in effetti non lo è. Anzi è la chiave di volta del sistema di questo candidato che si vuole letteralmente proteiforme e quindi, anche, imprendibile e inclassificabile. Solo così si arriva al consenso generalizzato.
Quanto agli avversari, ai competitori (nella fattispecie Catilina e Antonio Ibrida) non sarà difficile, al candidato Cicerone, gettare del fango, diffamare, alludere, trattandosi di personaggi già di per sé non certo immacolati, come appunto soprattutto Catilina.
La corruzione elettorale era sistemica. Canfora, nel suo libro su Cesare, dedicò un capitolo al “mercato dei voti”. La compravendita dei senatori era usuale, come le leggi ad personam.
Del resto la parola latina ambitus (che indica per l'appunto il broglio elettorale) richiama irresistibilmente la “dazione ambientale” degli anni di Tangentopoli.
Ma al di là di queste correlazioni con l'oggi (o con l'immediato passato) quello che sconcerta in questo trattatello in forma epistolare è un'altra cosa.
Quinto insiste più volte con Marco sui suoi meriti di oratore. Tu, gli dice, ti sei guadagnato la tua fama con il tuo valore di avvocato, con le tue capacità retoriche. Sei un grande della Parola. Quella è la tua nobiltà. La “dicendi gloria”, lo “studium dicendi” e così via.
Eppure esattamente la parola è quella che Marco dovrà letteralmente sacrificare nel corso di questa campagna. Egli dovrà adattarla a chiunque incontri. Accomodare è il verbo usato più volte in questo senso nel testo. Un uomo che ha fatto la sua fortuna con l'uso della parola la dovrà, se si vuole essere sinceri, prostituire nel commercio con chicchessia. Non si tratta solo della ricerca dell'aptum, ossia dell'argomento adatto a qualsivoglia uditorio. Si tratta di un autentico svilimento dello strumento linguistico. Se, come vuole Quinto, Marco dovrà mutare le sue parole e i suoi pensieri per conformarsi a chiunque gli si pari innanzi, ciò significa che tutto il pregevole armamentario oratorio viene di fatto ridotto a mero strumento di contatto, ossia a quella che Jakobson chiamava la funzione fàtica della lingua. Terribile castigo, spaventosa decadenza per un artista della parola. Cosa non si fa in nome del potere!