L’ultima colonia

8 Maggio 2023

Di solito il romanzo giudiziario ha un canone definito: ricostruire una vicenda culminata nel delitto, individuare i responsabili incaricando una figura iconica, sia esso un commissario di polizia o un detective privato. Esistono poi variazioni sul tema, la più nota delle quali è il “court drama” cioè l’ambientazione del racconto nelle aule giudiziarie con i protagonisti classici, giudici e avvocati. Molto meno frequente, anzi assai raro, è il romanzo giudiziario che si sviluppa senza delitto, sempre nelle aule e sempre con i tradizionali attori processuali. Per questo si definisce “atipico” e L’ultima colonia di Philip Sands (Guanda, 2023) è uno di questi. Il suo andamento ondeggia tra i palazzi in cui si discute di giustizia internazionale, tra i protagonisti istituzionali, tra codici e norme da interpretare ed applicare, tra i soggetti che le invocano e quelli che le contestano. Il tutto orchestrato dall’autore, docente, avvocato e nel contempo narratore di ricordi, come fece pur in altro ambito in La strada verso est (Guanda 2017, cfr. Gestire la memoria, doppiozero). La sua voce è quella di un testimone qualificato di una storia giudiziaria non criminale, ma sempre intensamente umana, senza individui colpevoli, ma con Stati che devono comparire avanti alla legge internazionale. Sullo sfondo i grandi temi della decolonizzazione, della resistenza delle grandi potenze, del diffuso tasso di ipocrisia.

Questo l’argomento. Il libro tratta del distacco dall’isola Mauritius, quando fu dichiarata indipendente dalla Gran Bretagna nel 1968, delle isole Chagos invece rimaste nel “Territorio Britannico dell’Oceano Indiano”. Non solo: il libro considera anche il trasferimento coatto ad opera del governo inglese degli abitanti locali per aderire alla proposta USA di installare una base militare per i bombardieri nell’isola Diego Garcia. Per vent’anni i B52 americani, da lì decollati, hanno bombardato Afghanistan e Iraq e l’isola, privata di abitanti civili, è diventata anche un luogo di transito di prigionieri tra i diversi “luoghi segreti” statunitensi. Così circa duemila chagossiani, senza alcun motivo e spiegazione, sono stati radunati, caricati sulle navi e scaricati sul lungomare di Port Louis, la capitale di Mauritius, dove la maggior parte di loro è vissuta nella più assoluta povertà. Sono stati costretti ad abbandonare la propria casa e quanto di più caro per non farvi più ritorno. Qualche anno fa però un gruppo è tornato come visitatore sulle isole a bordo di una nave mauriziana, ma senza potervi rimanere, scortato da un’imbarcazione della “protezione della pesca” britannica che, in modo ironico, ha dichiarato di “collaborare alla ricerca ambientale”. Gli îlois hanno così rivisitato le loro vecchie case, ormai senza tetto e ricoperte dalla vegetazione per poi forzosamente rientrare a Mauritius. Caroline Laurent, professoressa e scrittrice franco-mauriziana, ha pubblicato Le rive della collera (edizioni e/o, 2023) dedicato a questi fatti, alla dominazione britannica nelle isole Chagos, alla loro indipendenza, all’utilizzo di una di esse per basi militari americane, alla deportazione degli abitanti. Di qui la tragedia di quegli abitanti, mantenuti nell’ignoranza, senza istruzione, incapaci di leggere, spostati come oggetti dal loro mondo. 

Significativo è come Sands racconta questa storia immergendola nel giudiziario, scenario ove veder riconosciuti i diritti di un popolo. Egli è uno degli avvocati dei Chagossiani e di Mauritius che hanno conteso alla Gran Bretagna la sovranità sulle isole Chagos, sostenendo la causa davanti agli organismi internazionali con successo essendo stato riconosciuto che si trattò di una condotta illegale. La storia si dipana lungo l’accidentato viaggio verso la decolonizzazione, tra organismi internazionali e decisioni, talora di apertura e talora di chiusura, tra buona volontà e ipocrisie, tra buoni propositi e ataviche resistenze come quelli di cui Churchill è stato alfiere (“Non mi si venga a dire che l’Impero deve finire alla sbarra, all’esame di tutti per verificare se sia adeguato ai loro criteri…ogni fazzoletto di terra su cui sventola la bandiera britannica è immune”). 

Le pagine di Sands mostrano un fitto inanellarsi di enti e proclami ufficiali, dando spesso per scontato quanto il lettore comune non conosce. Il percorso, lungo e tortuoso, parte dalla “Dichiarazione delle Nazioni Unite” del 1942 per consolidarsi nel proprio Statuto del 1945, e poi all’ONU nel 1946, nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” del 1948 nella “Convenzione di Ginevra” del 1949. Particolare significato ha avuto la “Convenzione Europea dei diritti umani” del 1950, primo trattato che consentiva agli individui di farsi valere nei confronti del proprio Stato davanti a un tribunale internazionale. La Gran Bretagna sostenne l’accordo, in vigore dal 1953, ma si impegnò per escluderne l’applicabilità a Mauritius. Altrettanto dicasi per la “Dichiarazione sulla garanzia e indipendenza dei paesi coloniali” del 1960, votata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, anche se all’ultimo momento gli USA si astennero, pare su insistenza del governo inglese. Si discuteva della risoluzione n.1514, breve ma incisiva: “Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione” per cui i diritti umani sono negati a fronte della dominazione e dello sfruttamento di un paese ai danni di un altro. Queste le tappe giuridiche più significative della decolonizzazione con cui si sono misurate le isole Chagos, l’ultima colonia africana rimasta nell’orbita inglese.

n

Per scardinare l’intransigenza della Gran Bretagna gli avvocati di Mauritius, tra cui Sands, avevano tratto ispirazione da precedenti vicende giudiziarie, ad esempio dal contenzioso avviato dalla Liberia e dall’Etiopia contro il Sudafrica nel 1966 avanti la Corte Internazionale dell’Aja. Sempre quella Corte fu richiesta di un parere dalle Nazioni Unite sulla mancata uscita della Namibia dal Sudafrica nel 1971. Nel frattempo era nato un ulteriore ente, il “Tribunale Internazionale per le cause marittime”, a seguito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982. 

La situazione delle Chagos si surriscalda per il trasferimento già ricordato degli abitanti dal 1967 al 1973, diventando un luogo “privo di abitanti indigeni ad eccezione dei gabbiani…anche se rimane qualche Tarzan e qualche Venerdì” (così Lord Greenhill, sottosegretario agli esteri dal governo laburista Wilson, 1966). Non solo: accende gli animi un’altra iniziativa. Il ministro inglese David Miliband nel 2010 pubblicizza il proposito di creare nelle Chagos una riserva naturale, precludendo così di fatto il ritorno degli abitanti, ma escludendo l’isola di Diego Garcia per mantenerla nella disponibilità militare degli USA. Mauritius si oppone proponendo nel 2010 un arbitrato. Dopo discussioni sfinenti sulla sede, Dubai o Istanbul, nel 2015 viene emessa una decisione di valore storico: la riserva è da ritenersi illegale e gli abitanti hanno il diritto di ritornare. Matura così il terreno per affrontare la questione centrale: la mancata decolonizzazione delle Chagos e il ritorno nelle terre natie degli abitanti. Mauritius si rivolge all’ONU per acclarare se il distacco fu legale e viene chiesto, di conseguenza, nel 2017 un parere alla Corte dell’Aja, che il 25.2.2019 si esprime per il reinsediamento entro il 2019. In quell’occasione compare come testimone Liseby Elysé, una giovane donna nata nelle Chagos, semplice, analfabeta che firma con il pollice, che parla davanti alla Corte per tre minuti e quarantasette secondi. Questo tempo, normalmente esiguo, è però sufficiente per cogliere dalle sue parole il dramma suo e del suo popolo: “tutti avevamo un lavoro, una famiglia, una tradizione… non ci mancava niente... alle Chagos vivevamo felici... Un giorno l’amministratore ci disse che dovevamo lasciare l’isola… senza spiegazioni … dovevamo salire sulla nave Nordvaer, lasciare tutto, … ci imbarcammo al buio… eravamo animali o schiavi… dobbiamo però avere speranza, continuare a pensare che un giorno torneremo sulla terra in cui siamo nati”. 

Quei tre minuti e poco più furono seguiti in silenzio profondo, interminabile, accompagnati dalle lacrime che scorrevano sul volto della giovane. Fu una prova di dignità, coraggio, integrità davanti ad un consesso, togato, aulico e tradizionale. La decisione favorevole a Mauritius a tutt’oggi è rimasta sulla carta, inevasa, senza esecuzione.

Sands è stato in grado con abilità di ascoltare le narrazioni, di far lievitare la sua esperienza fornendo una sorta di “atto di giustizia”: far conoscere un’ingiustizia che probabilmente, salvo per gli addetti ai lavori, sarebbe rimasta avvolta nelle ombre del passato.  Il volume, pur nell’incedere faticoso, stimola a riflettere su temi generali e permanenti come la schiavitù, la deportazione, il razzismo, la resistenza nazionalistica degli Stati ancora negli ultimi anni del secolo scorso. 

E suggerisce anche altre riflessioni. Una, in generale, riguarda la giustizia internazionale, innegabile conquista collettiva per dirimere controversie interstatuali. Essa è retta dalla legge, ma in realtà i giuristi che la applicano sono anche uomini, per cui i vari tribunali sono influenzati dalla composizione del collegio, dalla rotazione dei giurati, come peraltro avviene sempre in ogni Tribunale, in ogni materia (“la legge non si applica meccanicamente e gli uomini che si avvicendano possono alterare radicalmente il risultato”). 

Lo sfondo è però intricato. Sorge una pluralità di enti che si affiancano, con formazioni diseguali in quanto non in tutti sono presenti gli stessi Stati. Di qui emerge un problema di operatività per gli Stati che vi hanno aderito e non per gli altri.

Nel raccontare il percorso delle Chagos abbiamo intenzionalmente menzionato anche alcune date per fissare i tempi che sono stati necessari per la decisione. Certamente non sono stati brevi, come peraltro insegnano i vari settori processuali e le polemiche per le lungaggini molto spesso ritenute inaccettabili. Il dato è delicato e meriterebbe di non essere trattato con decisione manichea: la rapidità, che innerva l’aspettativa collettiva, non sempre infatti si accompagna alla ponderazione. Di qui il rischio, antico, mai sopito e da combattere, della giustizia impulsiva ed emotiva, e come tale sommaria.

Il lato debole della giustizia internazionale è però un altro: l’assenza di strumenti per garantire l’eseguibilità delle decisioni, come nel caso delle Chagos in cui si continua ad attendere l’esecuzione della pronuncia da parte della Gran Bretagna. Impegno, discussioni, coinvolgimenti, decisioni che rischiano di rimanere sulla carta senza poter incidere direttamente. Indirettamente però lasciano il segno: si tratta di valori destinati ad essere riconosciuti e come tali idonei a rientrare con pieno titolo nel patrimonio della collettività. Come osservava un intellettuale antifascista troppo dimenticato, Ernesto Rossi, “le discussioni sui valori sono come le cure termali: gli effetti non si sentono subito ma con il tempo” (Sillabo, Parenti, 1957). L’augurio è che riescano a far bene.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Philip Sands