L'attività letteraria come parassitismo / Rileggere oggi il processo Brodskij
«Qui da noi [in Unione Sovietica] tutti lavorano.
Come ha potuto oziare per così tanto tempo?»
«Lei non considera il mio lavoro come tale.
Scrivevo versi, per me è un lavoro.»
La trascrizione del processo a Iosif Brodskij è una piccola miniera di temi su cui riflettere. Oltre alla questione del rapporto tra letteratura e potere, che è sempre stato il punto focale del caso giudiziario che fece scalpore anche in Occidente, un altro aspetto chiave del processo appare attuale: la considerazione dell'attività letteraria da parte della società.
Nel 1964 il ventiquattrenne Iosif Brodskij veniva esiliato da Leningrado per cinque anni con l'accusa di parassitismo e di perniciosa influenza sulla gioventù. Al giovane ebreo, che avrebbe poi scontato solo un anno e mezzo della pena, veniva contestato di aver cambiato tredici mestieri nell'arco di meno di dieci anni e di aver passato lunghi periodi senza lavorare. Della sua inattività, ritenuta addirittura più grave dei versi antisovietici, antipatriottici, decadenti e diseducativi, vennero portate delle prove, accompagnate dalla richiesta di spiegare come egli potesse vivere con i magri guadagni derivanti dall'attività letteraria. Brodskij si difende con pacatezza, a volte provocatoria sia nei toni che nei contenuti, dice di aver cominciato a lavorare a quindici anni e di aver cambiato tanti mestieri per poter conoscere quanto più a fondo possibile le persone e la vita. Spiega che gli basta poco per vivere: l'unico vecchio vestito che possiede, per esempio, gli è più che sufficiente. Su un punto, però, sembra perdere quella pacatezza che contraddistingue le sue risposte, quando sostiene cioè che scrivere versi e tradurre sono un lavoro. «L'ho già detto» risponde all'ennesima domanda sul perché ha lavorato a fasi alterne: «io ho sempre lavorato. Come salariato, e poi ho scritto versi. (Disperato) Scrivere versi è un lavoro!»
A nulla valgono le spiegazioni: il continuo e ossessivo reiterarsi delle stesse domande nelle due udienze del processo dimostra quanto fosse inconcepibile considerare lavoro il mestiere di traduttore e poeta. (Le parole lavoro/lavorare e guadagno/guadagnare, derivate dalla stessa radice di lavoro, ricorrono 112 volte nella trascrizione.) Inutili risultano le dichiarazioni della testimone Natal'ja Grudinina che rimarca quanto sia indispensabile conoscere bene l'opera dell'autore che si traduce per acquisire una voce che gli sia consonante. C'è bisogno di studio, lavoro, tempo; quel tempo che secondo l'accusa Brodskij ha impiegato a parassitare sullo Stato. Anche l'altro difensore, il poeta e traduttore Efim Ètkin, si sofferma sulla questione del tempo, tanto assurda quanto deprecabile per gli astanti. «Tradurre la poesia è un lavoro difficilissimo che richiede impegno, conoscenza, talento» dice. «Su questa strada innumerevoli insuccessi possono attendere il letterato, e i guadagni appartengono a un futuro lontano. Si possono tradurre versi per alcuni anni e non guadagnarci un rublo. Questo lavoro richiede amore incondizionato per la poesia e per la propria fatica». Insomma passione, talento, spirito di sacrificio e tempo sono elementi necessari e imprescindibili per una traduzione di qualità, come quelle che competenti critici – assenti però al processo – riconoscono all'imputato.
Verso un parassita militante come Brodskij bisogna «agire senza pietà», protesta un testimone con parole che suonano esagerate e accanite. Questo accanimento è tuttavia la manifestazione di una precisa realtà culturale, in cui il lavoro deve essere socialmente utile e prevedere la netta corrispondenza lavoro = guadagno. Se al lavoro non segue un guadagno commisurato al lavoro svolto, quest'ultimo non può considerarsi tale. Così l'attività letteraria, se non riconosciuta e consacrata dal denaro, o perlomeno da una quantità di denaro congrua al tempo speso per l'attività stessa, non è un lavoro. Nemmeno il parere favorevole dei critici è sufficiente: «Nel nostro paese ciascuno riceve in base al proprio lavoro e quindi non può essere che, lavorando molto, egli ha ricevuto poco» sentenzia il giudice.
È stato rilevato che il processo si svolse in modo sbrigativo e tendenzioso, si è ipotizzato che il verdetto fosse già stabilito a priori. Infatti nonostante Brodskij non fosse un traduttore, un poeta o un letterato 'di professione', esistevano prove della sua frequentazione, seppure non assidua, di circoli letterari, e della sua collaborazione con case editrici e riviste. È probabile che egli fosse un capro espiatorio o che l'accusa di parassitismo fosse solo di facciata. Bisogna dire, di contro, che Brodskij rimase cristallizzato nel ruolo di poeta avulso dalla realtà, e scelse di interpretarlo fino in fondo. Non mediò la sua posizione né tentò di parlare una lingua più compatibile con quella dei suoi accusatori, come quando alle richieste di chiarimenti sulla sua formazione scolastica rispose che la poesia è un dono di Dio. Ma non è questo il punto. Ciò che importa è che nella logica e nei termini in cui si svolse il processo tutto risulta credibile, anche se si ammette l'ipotesi che si trattò piuttosto di una messinscena. E questa credibilità è data dal fatto che il punto debole di Brodskij era il suo essere un giovane poeta e traduttore.
Nelle sue condizioni e nella stringente logica del lavoro = guadagno il passo da letterato a parassita era più che breve. Non era semplice infatti dimostrare con forza il contrario, non solo perché l'attività del letterato appare spesso fumosa, difficilmente misurabile, apparentemente (e potenzialmente) inconcludente – per di più Brodskij tira in ballo Dio –, ma anche perché di tutte le attività professionali, quella artistico-letteraria è la più soggetta a rimanere schiacciata dall'equazione lavoro = guadagno. Lo sanno bene i padri presenti al processo, che per nulla al mondo vorrebbero dei figli come Brodskij, a cui di certo preferirebbero il «groviglio di vipere» di baudelairiana memoria. Uno di loro, pur ammettendo di non conoscere Brodskij di persona, dice di sapere per esperienza quanto sia difficile avere un figlio come il giovane parassita, un figlio che non lavora. Del resto anche Aleksandr Brodskij, padre del futuro premio Nobel, inizialmente non aveva affatto incoraggiato l'attività letteraria del figlio, di cui solo vari anni dopo avrebbe parlato con fierezza.
Viene ora da chiedersi se questo amaro ma splendido documento sulla brutalità dell'ignoranza sia così inconcepibile per noi, oggi; se la mentalità soggiacente all'accusa di parassitismo mossa a Brodskij ci sia del tutto estranea; se il tempo speso a costruire le impalcature invisibili ma fondamentali all'attività letteraria non sia spesso considerato di poco valore o di minor valore rispetto a quello impiegato ad erigere impalcature più tangibili e più utili. Per quanto non socialmente nociva, sembra infatti che l'attività letteraria sia più che mai considerata non necessaria e quindi più difficilmente accettata come lavoro rispetto ad altre attività. Si potrebbe obiettare che non è solo questione di mentalità poiché l'equazione lavoro = guadagno continua a essere valida, e l'attività letteraria non la soddisfa affatto, anzi la rende piuttosto una disequazione. Ma dato che l'equazione non sarà mai soddisfatta – vista la natura dell'attività letteraria – c'è bisogno che sia proprio la mentalità a cambiare verso un equilibrio tra i termini di lavoro e guadagno. Calibrando il guadagno, dando il giusto valore a quel lavoro, i conti possono tornare. Per ridurre all'osso la complessità della questione, solo quando il lavoro letterario avrà un equo riconoscimento economico, otterrà anche il giusto riconoscimento da parte della società. Allora i tempi del processo a Brodskij sembreranno davvero lontani.
Per ora, più che con astio i giovani 'parassiti' sono guardati con compassione. Non si ritrovano in aule di tribunale ma nessuno si stupisce della loro condizione economica, generalmente considerata la logica conseguenza di scelte poco lungimiranti, a cui si è costretti poi a rimediare con un doppio lavoro. Non a caso, dall'alto del suo utilitaristico senso pratico il giudice chiese espressamente a Brodskij cosa gli impedisse di lavorare in fabbrica e di scrivere versi. Giuseppe Ungaretti diceva di aver fatto il poeta nei ritagli di tempo e di aver svolto sempre un secondo mestiere, più o meno strettamente connesso però all'attività letteraria. In una delle prime lettere che nel 1920 il giovane slavista e traduttore Ettore Lo Gatto scriveva al suo collega Giovanni Maver, veniva elencata una lista di impegnative occupazioni: «La traduzione del Krapótkin […] Prezzolini mi sollecita il manoscritto del Másaryk […], il terzo numero della rivista va in macchina, ho da dar l'ultima scorsa al manoscritto del mio volume di studi di letteratura russa, […] Formiggini mi chiede d'urgenza un profilo di Dostoevskij per la sua collezione e un articolo sulla fortuna di Dante in Russia». Per poi esclamare con una punta di incredulità che tutto il lavoro a cui ha appena accennato non gli dà abbastanza da vivere, tanto che un anno dopo, preoccupato dalle sue condizioni finanziarie, verrà tentato da un posto in banca. Per fortuna la passione letteraria ebbe la meglio, ma si direbbe che nemmeno il nostro passato offra quel conforto derivante dalla nostalgica idea di tempi migliori, se non che ognuno di loro ha avuto i suoi momenti di gloria. Di certo, però, non economica.