Habermas e l’Europa / Senza l’Ue usciamo dalla storia mondiale
Alla fine del V secolo a. C., ad Atene, c’era un filosofo che proponeva di salvare e recuperare la giustizia nella vita della comunità, sostituendo la democrazia con un’aristocrazia di custodi, esperti del bene comune, filosofi da convertire in tecnocrati. Il suo nome era Platone. Oggi, agli inizi del XXI secolo, a Francoforte, sede della Goethe-Universität ma anche di un’istituzione comunitaria nevralgica come la Banca centrale europea, c’è un filosofo che propone di salvare la democrazia in Europa facendole varcare i confini nazionali e di sottrarre l’Unione europea alla spirale tecnocratica, in cui è ricaduta soprattutto nel modo di affrontare la crisi economica e finanziaria dei debiti sovrani dopo il 2008. Il suo nome è Jürgen Habermas. A differenza del malcapitato Platone e delle sue disavventure col tiranno di Siracusa, il filosofo di Francoforte sembra, invece, finalmente aver avuto udienza presso la Bundeskanzlerin Merkel e il suo governo di Grosse Koalition.
La proposta recente della cancelliera tedesca di rivedere i Trattati contemplando la possibilità di un’Europa a due velocità o a geometrie variabili, con ritmi e livelli diversi di integrazione, rilanciano e collimano, infatti, con l’idea che Habermas propugna da almeno dieci anni, di procedere più speditamente con l’integrazione politica di un “nucleo di Europa” (Kerneuropa), da far coincidere con l’area dell’euro o dei Paesi fondatori della Comunità economica europea nel 1957.
Erede principale della storica “Scuola di Francoforte” di Adorno, Horkheimer e Marcuse, ma anche allievo coerente delle intuizioni di Hannah Arendt su potere, politica e spazio pubblico, Habermas ha inteso il lavoro del filosofo politico non come il costruttore a tavolino di una “città ideale”, ma come il ricostruttore dei processi politici reali, a partire da un rapporto riflessivo con la tradizione e le istanze della modernità, e, conseguentemente, alla luce dei mutati scenari internazionali post-guerra fredda, non ha smesso, con saggi, interventi e interviste, di incalzare le élites europee in vista del rilancio del progetto comunitario, denunciandone gli stop and go e l’“incrementalismo” dei piccoli passi. E dell’Unione europea che, attualmente, i nuovi “nazional-populismi”, così definiti da Taguieff, hanno fatto assurgere a loro bersaglio privilegiato, Habermas ha sempre difeso la prospettiva e la funzione civilizzatrice, per un continente dilaniato da rivalità e guerre fino alla prima metà del secolo scorso, intrecciando questa difesa con l’approfondimento teorico della sua concezione normativa di democrazia deliberativa.
Sono la recente crisi economica del 2008 e i suoi effetti di medio periodo che, secondo Habermas, hanno posto l’Ue di fronte ad un bivio cruciale: “O danneggiare in maniera irreparabile, rinunciando all’euro, il progetto dell’Unione europea che abbiamo perseguito nel dopoguerra, oppure approfondire l’Unione politica – a partire dall’eurozona –, in maniera tale da dare legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta e alla messa in comune dei debiti. Non possiamo evitare la prima cosa senza realizzare la seconda” (Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea, Laterza 2014). Percorrere la seconda strada e cioè superare ogni remora verso il progetto europeo, affrontando l’errore di aver costruito una comunità monetaria senza unione politica, significa, d’altronde, per Habermas, sconfessare due mainstream che tendono a indebolire e alla lunga inficiare o pregiudicare la realizzabilità di quel progetto.
La prima è la tesi del “No demos”: senza un “popolo” europeo, senza omogeneità etnica, storica e linguistica, non si può edificare una comunità politica, dal momento che un ordinamento democratico-liberale ed egualitario è possibile, nella sostanza, solo dentro il cerchio dell’appartenenza nazionale. Contro questa tesi che torna a singhiozzo, Habermas ha sempre sostenuto che la coscienza nazionale non è mai stata qualcosa di naturale, anche in presenza di una omogeneità etnico-linguistica, ma il prodotto di una sedimentazione e stratificazione di contributi narrativi di varie fonti (storici, etnologi, giuristi, linguisti e storici letterari) e di vari media (scuola, mezzi di comunicazione di massa, servizio di leva), che ha seguito una duplice declinazione, “patriottica” e “repubblicana” insieme, e non solo la prima. In fondo, in Habermas, troviamo una filosofia della storia ben precisa. Nel giro di un secolo e mezzo di storia europea e mondiale, dalla Rivoluzione francese alla Seconda guerra mondiale, l’idea di nazione ha suscitato, allo stesso tempo, il risveglio e il più tremendo sonno della ragione. Lo Stato-nazione moderno è stato l’impasto dialettico di due correnti: il repubblicanesimo e il nazionalismo. Il repubblicanesimo ha immaginato una nazione di cittadini che si riconoscono liberi ed eguali nella formazione della volontà collettiva; il nazionalismo ha immaginato una nazione come comunità di destino, fondata sulla discendenza dallo stesso ceppo etnico, cioè su legami prepolitici.
Il primo ha incoraggiato il senso civico, il sentimento della libertà e della partecipazione, ha legittimato la democrazia; il secondo ha incoraggiato la disponibilità a combattere e a morire per la patria, ma anche il senso dello Stato e della sua indipendenza. Durante l’Ottocento romantico, come testimoniano anche i movimenti risorgimentali, il nazionalismo è stato un potente vettore del repubblicanesimo e dell’affermazione dei principi universalistici della democrazia. Emblematica di questa convergenza è la figura di Mazzini, ad esempio. Ma questa complementarietà è stata drammaticamente spezzata dalla strumentalizzazione del mito nazionale, messo prima al servizio dell’imperialismo e della politica di potenza dalle élites politiche europee tra il 1871 e il 1914 e, poi, da Mussolini e Hitler, al servizio di un progetto totalitario, completamente incompatibile con i principi repubblicani. Nella seconda metà del Novecento, dopo i disastri del nazionalismo bellicoso e totalitario e con l’avvento di società multiculturali e multietniche, l’idea di democrazia repubblicana si è sganciata da un concetto “romantico” di nazione intesa come entità naturalistica, che ha conosciuto un progressivo declino. Ed è da qui che deve ripartire e alimentarsi l’idea europea.
La seconda tesi è quella che vede il compimento dell’integrazione politica europea solo nella costruzione di un super-Stato, cioè di uno “Stato federale europeo”. Habermas si professa un eurodemocratico, ma non un eurofederalista. A suo avviso, la sfida futura di fronte all’Unione europea è di costruire qualcosa di storicamente inedito. Vale a dire, una democrazia sovranazionale fondata su un doppio binario: i cittadini europei che formano discorsivamente la loro volontà attraverso una sfera pubblica informale e istituzionalizzata, che ha il suo vertice in partiti transnazionali e nel Parlamento europeo; i popoli-di-Stati europei che formano discorsivamente la loro volontà con la mediazione dei rappresentanti di governo e degli Stati nel Consiglio europeo e nella Commissione. La stessa persona partecipa, quindi, a questo nuovo consorzio, secondo procedure democratiche giuridificate, sia come cittadino dell’Ue sia come cittadino dello Stato membro, che continua ad avere il ruolo di garante dei diritti e delle libertà attraverso le costituzioni nazionali. Habermas non trascura di esaminare le implicazioni sul piano dell’architettura istituzionale comunitaria di questo approccio: “Il Parlamento europeo dovrebbe poter varare iniziative di legge. La procedura legislativa cosiddetta ordinaria – richiedente l’accordo di entrambe le camere – dovrebbe potersi estendere a tutti i settori della politica.
Nello stesso tempo il Consiglio europeo (cioè l’assemblea dei capi di governo), dopo aver goduto finora di una posizione semi-costituzionale, dovrebbe essere incorporato nel Consiglio dei ministri. E infine la Commissione dovrebbe assumere i compiti di un vero governo, egualmente responsabile sia verso il Consiglio sia verso Parlamento. Con questa trasformazione dell’Unione in una comunità sovranazionale che risponde a criteri democratici, entrambi i princìpi della eguaglianza-degli-stati e della eguaglianza-dei-cittadini verrebbero soddisfatti in maniera paritetica. Nella simmetrica partecipazione di entrambe le “camere” al processo legislativo, così come nella simmetrica posizione di Parlamento e Consiglio nei riguardi dell’esecutivo, si rifletterebbe la volontà democratica di entrambi i soggetti costituenti.” (“Micromega”, 2014).
Questo modello diventerebbe per Habermas anche pilota rispetto a un’associazione sovranazionale di cittadini e dei popoli su scala mondiale, poiché “la concezione, sviluppatasi sull’esempio dell’Unione europea, di una cooperazione costituente fra cittadini e Stati indica la via lungo la quale l’esistente comunità internazionale di Stati intorno alla comunità dei cittadini del mondo potrebbe essere portata a compimento in una comunità cosmopolitica” (Questa Europa è in crisi, Laterza 2012).
Una strada ancora lunga e impervia, ma questo ci rimane da fare: o approfondire politicamente l’unione e contribuire così alla società mondiale e alle sue strategie per fronteggiare le crisi globali (ecologiche, sanitarie, economiche, sociali e tecnologiche) o, tornando divisi, ridurci a una “piccola Svizzera museificata”.