Vanni Santoni, La verità su tutto 

4 Settembre 2022

Fra i tanti stili possibili per scegliere il titolo di un romanzo, uno dei più suggestivi è quello antifrastico. Casi esemplari, La signora Bovary (il ruolo cui la protagonista rilutta a adattarsi) o L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, illustrazione (come qualcuno disse a suo tempo) dell’insostenibile pesantezza del vivere. Qualcosa del genere vale anche per l’ultimo romanzo di Vanni Santoni. La verità su tutto (Mondadori, pp. 298, € 19,50) è la storia di una ragazza che si interroga su grandi problemi etici ed esistenziali – ma forse sarebbe più giusto dire che vi s’imbatte – e che alla fine si ritrova senza risposte: a meno di non considerare tali una serie di domande ulteriori, che rinviano la ricerca all’infinito, con un sospetto di sostanziale vanità. 

A incrinare gli equilibri nella vita di Cleopatra Mancini, detta Cleo – ricercatrice di sociologia felicemente accoppiata con Laura, un recente passato di impegno politico a sinistra, una consolidata nomea di propensione alla leadership – è la scoperta di un video porno in cui compare una sua ex, Emma, sul cui volto indovina una singolare tristezza. Poiché era stata lei a lasciare Emma, le sorge il timore, destinato a farsi sempre più netto e doloroso con il passare del tempo, di averle fatto del male.

Di qui una riflessione sul rapporto con altri episodi (almeno due, il primo risalente addirittura all’infanzia) in cui lei aveva fatto del male a qualcuno. Gli incontri con le due vittime – che apparentemente non avevano affatto riportato dall’accaduto danni psichici gravi, tanto che a stento se ne ricordano – non risolvono i turbamenti di Cleo; anzi, la stimolano a intraprendere un cammino di autocoscienza che si traduce in una rottura con la sua condizione presente. Si allontana da Laura, abbandona il lavoro universitario, si dedica a letture spiritualistiche e sapienziali, cerca maestri, medita, visita comunità mistiche sparse sull’Appennino toscano, vive alcuni mesi da eremita rischiando di morire assiderata. A un certo punto si unisce al gruppo del Paradisino, formato da figure bizzarre che la rendono edotta dell’esistenza di una bambina indiana, Kumari Devi, cresciuta come una dea e come tale venerata, in India e altrove, dai suoi seguaci.  

Cleo, che al Paradisino ha conquistato senza volerlo una posizione eminente, e che molti considerano già una maestra, va in India per conoscere Kumari Devi. Con lei instaura in breve uno stretto legame, fisico e spirituale, personale e pubblico. Ormai non è più Cleo, ma Shakti Devi: attorno a lei e alla ex bimba-dea gli adepti si adunano a migliaia, a decine, centinaia di migliaia. L’organizzazione, ramificata in molti paesi di diversi continenti, ha due centri: uno a Shaktiville, a 350 km di distanza da Chennai, nel sud-est dell’India (la città nota un tempo come Madras), l’altro presso Pontremoli.

Ispirati a un’interpretazione del buddismo di stampo tibetano, gli insegnamenti comprendono esercizi spirituali associati a un uso ponderato di stupefacenti. Il successo è travolgente; i seguaci sfiorano ormai il milione. Ma la catastrofe è vicina. A provocarla è il seguace di maggior talento, il giovane indiano Dattadeva, che vorrebbe imprimere alla setta una coloritura politica. Kumari Devi oppone uno sprezzante rifiuto; seguono dissidi e lacerazioni, e anche attacchi pubblici, tanto che la comunità di Pontremoli verrà devastata da una sommossa popolare. Ma nel frattempo Cleo se n’è andata, sola di nuovo, con le sue inquietudini e le sue domande.    

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Dall’insieme della vicenda le questioni che emergono mi paiono essenzialmente due. La prima, molto generale, investe il rapporto fra gli ideali e le organizzazioni: per quanto positive e sincere possano essere le intenzioni iniziali, le circostanze pratiche finiscono per alterare le cose. Ed è proprio la fortuna di un’iniziativa a renderne gli sviluppi impadroneggiabili: vuoi perché le esigenze concrete distolgono i promotori dalla sostanza del progetto, vuoi perché, quanto più numerosi sono i proseliti, tanto più facile è che qualcuno sia mosso dall’ambizione o dall’invidia, o che comunque arrivi a nutrire convinzioni eterodosse. La seconda riguarda più in particolare la sapienza orientale.

La ricerca di Cleo non nasce da un’infatuazione superficiale o modaiola per l’India; il filo rosso del suo percorso è una propensione al sincretismo, tant’è che, almeno nella prima parte, fra i suoi interlocutori c’è anche un prete, sia pur anticonformista. Inoltre la narrazione è punteggiata da brevi dialoghi con il fantasma di Simone Weil, che sono fra le parti più riuscite del libro. Resta tuttavia, pesante come un macigno, il sospetto che fra l’illuminazione spirituale e l’ingenuo abbaglio, fra il magistero ispirato e la smaccata ciarlataneria i confini siano disperatamente, irrimediabilmente labili; e che basti un nulla perché una riflessione colma di saggezza trascolori nella fumisteria. 

Un’avvertenza doverosa: è probabile che io non sia affatto il lettore ideale di questo romanzo. Nella mia forma mentis alligna un rudimentale, testardo bias vetero-illuministico, in virtù del quale ogni volta che mi capita di incrociare prospettive misticheggianti, subito mi sovvengono riferimenti antitetici: il valore della controllabilità delle affermazioni, la trasparenza logica dei nessi, la corrispondenza fra i discorsi e l’evidenza empirica. Ignoro quali siano le convinzioni di Santoni sulla spiritualità orientale; di certo (e lo confermano le indicazioni bibliografiche riportate nelle Note finali) la sua documentazione in merito non è stata frettolosa, né epidermica.

Tuttavia a me pare che i dilemmi di Cleo siano più chiari all’inizio, quando ad assillarla è il pensiero di avere provocato dolore al prossimo, che non nelle parti finali, quando è investita del ruolo di guru. Che cosa non ha funzionato, che cosa ha smesso di funzionare, nel magistero esercitato dalla coppia Kumari Devi – Shakti Devi? e nel loro sodalizio? o nel rapporto con i fedeli? La narrazione fornisce qualche cenno, senza troppo esporsi.

Quanto al finale, è più aperto che mai: il destino futuro di Cleo è tutto da scrivere. Di certo, non ripudia le sue scelte e non si rassegna a rientrare nei ranghi di una qualsivoglia normalità. Lo stesso spazio della delusione si direbbe in lei neutralizzato dalla consapevolezza che la verità, qualunque essa sia, è sempre oltre. E il fatto che il traguardo non sia vicino non significa che non valga la pena di continuare a cercarlo.

La verità su tutto è un romanzo molto centrato sulla figura della protagonista, che dopo un breve prologo racconta la propria storia in prima persona; ma attorno a lei si muove una ricca galleria di personaggi, donne e uomini, di età e condizione diversa. Cleo, singolare impasto di problematicità e determinazione, è ben ritratta. Felice, in particolare, la sua caratterizzazione linguistica: in ogni fase della sua vicenda, le sue parole conservano efficaci connotati spaziali e generazionali. Quanto ai comprimari, un dato fondamentale è che non danno mai l’impressione di costituire una compagine sociale, nemmeno riferibile a una società (o a una socialità) alternativa: l’elemento che li accomuna è la vocazione alla marginalità. E non è escluso che questa, in fondo, possa essere proprio la verità enunciata dal titolo.

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