Stefano Catucci: i fili del pensiero
C’è un filo! Un filo mediante cui i metafisici hanno sempre creduto di poter legare insieme – in un’armonia arcana – il pensiero e l’essere. Ma ecco che arriva Kant … e recide il filo. È l’immagine offerta da Simmel in un articolo del 1899. Quasi un secolo dopo, nel 1991, Deleuze e Guattari scriveranno che pensare non è tendere un filo tra un soggetto e un oggetto. «Eppure – pare sospirare il nostro autore nelle prime righe del suo libro – malgrado tutti gli sforzi fatti per prendere congedo da un’immagine del pensare tanto radicata, siamo qui ancora a misurarci con fili virtuali o metaforici che collegherebbero le cose e le parole, la coscienza e i suoi contenuti» (S. Catucci, Sul filo. Esercizi di pensiero materiale, Quodlibet 2024, p. 7). Sin dal sottotitolo, l’opera si annuncia come un quaderno di appunti e di esercizi che sottendono, in realtà, una duplice postura. Certo, la materialità del filo verrà pensata in tutte le sue sfaccettature, ma dall’altro lato non si dimentichi una seconda dimensione metaforica, «quella del pensiero in bilico o alla ricerca di un equilibrio su un filo» (ivi, p. 15).
Ora noi stiamo per chiedere al lettore un attimo di pazienza: provi a fare mente locale sui modi di dire e le espressioni idiomatiche in qualche maniera capaci di associare tra loro il filo e il logos. Vorremmo soltanto suggerirne alcune: “seguire il filo”, “perdere il filo”, oppure “tener dietro al filo del discorso”, ma anche “riprendere il filo”, e ancora si parla spesso del “filo conduttore”, ma si dice anche “tirare le fila”. Sino a qui il discorso … fila liscio. Guardiamo ora al traslato: il termine “intendersi” presuppone un filo in tensione tra gli interlocutori, la “torsione del discorso” implica la possibilità di attorcigliarsi da parte del filo. Formule consuete quali “l’ordito” o “la trama del discorso”, così come il “dipanarsi” o “l’ingarbugliarsi” connesse a un’argomentazione risulterebbero quasi incomprensibili se non vi fosse implicita, ma comunque sottesa e operante la presenza di un filo come succedaneo del discorso stesso.
Dovremo ricordare il mito di Teseo e Arianna? O rammentare che Dedalo conosceva solo due mezzi – il filo e il volo – per uscire dal micidiale congegno del labirinto? E come dimenticare la metafora della tessitura nei testi platonici? In sostanza, senza moltiplicare gli esempi, appare chiaro come fin dalle origini il filo cerchi palesemente di “mimare”, o per lo meno di accennare all’attività del logos che intesse e annoda, collegando incessantemente. Preziose sono le pagine in cui Catucci ci guida nelle origini etimologiche. “Filum” è il filo sottile di lino, ma il femminile di “lineus” è proprio “linea”, che presto si affranca, assumendo un significato del tutto peculiare. O forse “filo” proviene addirittura da “fingo”, da cui dipende persino “figura”?
Se volessimo esplorare anche solo per sommi capi le “potenzialità metaforiche” racchiuse e custodite nel filo, potremmo subito riferirci alla sua resistenza, alla capacità di traslazione mediante cui porre in gioco associazioni e spostamenti. Non basta: il filo «orienta i nostri sistemi di comprensione» (cfr. ivi, p. 24). Il filo indica quella linearità, quell’andamento lineare che, soprattutto a partire dall’epoca moderna, sopprime un’altra grande dimensione metaforica, quella della circolarità, a sua volta simbolo dell’omogeneità tra le strutture umane e divine, cosmologiche e razionali. Da Cusano a Keplero, da Blumenberg a Melandri, molti sono gli autori convocati da Catucci per farci apprezzare l’enorme ricchezza e le drammatiche rotture epocali che si consumano, per così dire, sul filo. Ma, a proposito di svolte decisive, non si può evitare di menzionare il nuovo impianto metaforico complessivo, quasi un vero e proprio “paradigma ambientale” mediante cui si costituisce la nuova struttura della nostra quotidianità, vale a dire quello della rete: il web, le reti neurali, le reti combinatorie e l’intera serie di saperi e di pratiche legati al concetto di “network” – in breve potremmo dire che ci troviamo dinnanzi a una ennesima metamorfosi tramite cui il filo assume nuove declinazioni, innescando nuove morfologie.
Nessuna di queste trasformazioni, tuttavia, può pretendere di risultare innocente o comunque priva di esiti: Catucci nota come l’immagine della rete, per esempio, finisca per scalzare l’idea di una tensione tra fili linearmente disposti; sotto questo profilo gli studi culturali non sono ancora riusciti a metabolizzare l’innovazione che è intrinseca nella semantica della rete. Insomma, dire “linea” non è lo stesso che dire “filo” o “rete” e tutto il primo capitolo del volume ruota attorno alle sfumature che caratterizzano le metaforiche del filo. Si potrebbe menzionare a questo proposito il dialogo immaginato da Ingold tra una formica e un ragno, ripreso da Catucci, in cui il ragno cerca di spiegare alla formica come il mondo si costituisca secondo una tessitura di fili intrecciati, dove la ragnatela «non è un oggetto con il quale interagisco, ma ciò su cui si basa la possibilità dell’interazione» (Ingold, Being Alive. Essay on Movement, Knowledge and Description, London-New York 2011, p. 70). La ragnatela non è un oggetto, non è per così dire un “pezzo di mondo”, bensì «la condizione della mia agency», anzi la possibilità stessa dell’interazione. In questa stessa formulazione compaiono in effetti due termini – “condizioni” e “possibilità” – che mostrano in presa diretta quanto sia difficile affrancarsi, malgrado i numerosi sforzi, da quel dispositivo moderno, tipicamente kantiano, che prende il nome di trascendentale. I rapporti tra questo dispositivo e l’effettiva instaurazione di un piano di immanenza restano ancora tutti da pensare.
Tornando al nostro volume, qui vorremmo evidenziare soltanto due o tre snodi a nostro avviso nevralgici all’interno dell’indagine sulla nozione di filo.
Il primo riguarda il problema dell’individuazione: sebbene il filo verosimilmente abbia influito parecchio nel veicolare l’idea di un soggetto separato, collocato e istituito per così dire presso un “capo”, di contro a un oggetto situato all’altro capo, Catucci rileva come un’analisi capace di valorizzare la “materialità” del filo consentirebbe di concepire la soggettivazione come un processo che letteralmente “corre sul filo”, piuttosto che concentrarsi in una delle sue estremità. Si tratta allora di ripercorrere una serie di tappe novecentesche, legate al Dasein heideggeriano, ma anche al tema del pensiero incarnato, così come della mente estesa tramite studi che coprono ambiti assai eterogenei, dalle scienze cognitive all’estetica, di cui si potrebbero indicare dei precursori in Merleau-Ponty e Gregory Bateson. Il pensiero non può più essere concepito in base alla metafora della linearità e della polarità immediatamente suggerite dalla dinamica del filo. Il pensiero diventa pratica, si trasforma nel mestiere di pensare: «non siamo noi a decidere quel che va pensato. Al contrario, è lui a interpellarci e a chiederci di pensarlo anche se lo fa rimanendo nascosto» (ivi, p. 63). Un pensiero che si tesse nel binomio di materia e tempo, là dove il filo si traduce nell’immagine del frammezzo fragilissimo, nella soglia tra terra e cielo: «il pensare del funambolo non è di tipo logico o discorsivo. […] Richiede un saper-fare tecnico che certamente si organizza interagendo con il linguaggio ma si acquisisce e si mette in opera con l’esperienza e l’allenamento del corpo» (ivi, p. 66). Una ricerca di assetti impalpabili, di equilibri delicatissimi, che poco o nulla hanno a che fare con le pretese di un soggetto egocentrato e autoriferito.
L’altra questione decisiva, che emerge quasi spontaneamente a partire dalla prima, può essere esemplificata tramite un passaggio di Benjamin dedicato a Pompei: «dove scale e muri dividevano gli edifici oggi non ci sono che aperture su tutti i lati». In effetti, su altri versanti, anche Musil scriveva che ogni cosa, oramai, ha cento facce e mille lati: «l’uomo non è più in piedi sul suo tappeto, ma si vede ormai come un filo nella trama del cosmo» (Musil, L’uomo senza qualità, III, § 52). Un cosmo, un caosmo che Catucci indaga attraverso il funambolismo nietzscheano, le imprese quasi coeve di Charles Blondin, il rapporto tra dismisura e infrasottile in Duchamp. Figure come il cordone ombelicale si sfrangiano e si moltiplicano in maniera caleidoscopica nel cordone del palombaro e dell’astronauta, per non parlare della sua forte connotazione simbolica in un contesto come quello psicanalitico, dove riesce a esemplificare la reversibilità tra dentro e fuori.
Non possiamo fare a meno di menzionare per lo meno un ultimo esercizio, tra gli innumerevoli proposti dall’autore: “pensare con i fili”, dove affiora forse nel modo più pregnante l’importanza della cultura materiale che possiamo rintracciare già nella Enciclopedia di Diderot, in quella che l’autore chiama ontologia tessile, espressione felicissima, capace di contenere in nuce l’intera articolazione metaforica della nozione di filo: il continuo omogeneo della tessitura, la divisione senza fine dell’intreccio, la resistenza dei fili, le interconnessioni tra le fibre. Si tratta di recuperare e di valorizzare quelle che Catucci chiama le “arti della connessione” e le innumerevoli “tessiture del tempo e dello spazio”.
Non vorremmo svelarvi troppo della ricchezza del libro, che ancora conserva – lo diciamo ammiccando alla curiosità del lettore – bellissime pagine su Klee, su Montaigne, su Borges. Troppi, troppi sono i fili che abbiamo lanciato, anche in questo caso, per cercare di afferrare qua e là alcuni brani, intrecciando tra loro vari autori assieme a certi concetti peculiari, nella pretesa di offrire al lettore una rete di riferimenti. Nulla chiaramente può sostituire l’esperienza di tuffarsi in queste pagine e scoprire nell’ultimo capitolo, forse addirittura solo nelle ultime righe, perché possiamo anche sciogliere tutti quei fili che ci legano, e affrancarci dal groviglio di lacci e di corde che ancora ci incatenano mani e piedi.