Hangar Bicocca / The last days in Galliate: Leonor Antunes
Sulla soglia dello Shed, la sezione dell’Hangar Bicocca che precede l’area delle navate, una serie di placche di ottone verniciato delimita l’ingresso dell’installazione site specific di Leonor Antunes. L’opera, ispirata da un rilievo di Mary Martin, si intitola alterated climbing form (I, II, III, 2017, IV, 2018) e come una cortina, invita lo sguardo dello spettatore a filtrare fino al campo di azione dell’intervento installativo. Antunes, pluripremiata scultrice portoghese, scompagina la vocazione industriale dello Shed e trasforma l’organismo architettonico in uno spazio familiare, raccolto, di ariosa eleganza, sfruttando la luce solare proveniente dai lucernari solitamente chiusi e organizzando una partitura di oggetti-opere autosufficiente, germinativa, sottilmente ammaliante.
La familiarità delle sculture che modulano l’ambiente non è solo frutto di un’impressione passeggera: The last days in Galliate, l’opera site specific realizzata dall’artista per il polo Pirelli, si sviluppa a partire da una meticolosa ricerca sul lavoro di alcune tra le figure più significative dell’architettura e del design moderni: stiamo parlando di Gio Ponti, Franco Albini e Franca Helg, ma anche Lina Bo Bardi, Anni Albers, Clara Porset, Greta Magnusson Grossman, figure con le quali Antunes intrattiene un ideale dialogo e una relazione di affinità. Dopo l’intervento ospitato dallo spazio Barriera di Torino nel 2007, intitolato Dwelling Place e basato sul lavoro di Carlo Mollino, e l’installazione vista alla Biennale di Venezia nel 2017, dal titolo So then we raised the terrain so that I could see out, il progetto voluto per l’Hangar Bicocca e curato da Roberta Tenconi prosegue la linea di indagine dell’artista, che questa volta sceglie come fonte di ispirazione sia figure storicizzate dell’architettura e del design legate alla città di Milano – personalità che hanno concorso in maniera sostanziale a determinare le vicende artistiche del capoluogo lombardo, centro del modernismo italiano –, sia artiste il cui lavoro tocca temi cari ad Antunes, come il rapporto tra “expat” e culture locali nonché l’impiego di materiali e pratiche legati alla dimensione artigianale.
Dopo i moduli in ottone, la seconda opera che attende il visitatore è il pavimento in linoleum (modified double impression, 2018), che richiama il lavoro di stampa e incisione portato avanti da Anni Albers nell’ultima fase della sua attività artistica. I motivi decorativi sono ripresi da un lavoro datato 1978, intitolato Double Impression, titolo che indica una tecnica di stampa nella quale è previsto un doppio passaggio della carta, che acquisisce così una colorazione più satura. I rimandi si allargano fino a comprendere l’opera di Gio Ponti, e conducono al Grattacielo Pirelli, la cui costruzione terminò nel 1960. Dal progetto del pavimento del grattacielo, Antunes prende i colori: con il grigio, il nero e il “giallo fantastico” (così battezzato dallo stesso Ponti), costruisce una partitura visiva che dialoga con gli elementi plastici dell’allestimento, scandendo una dinamica di forme piene e di vuoti che si avvicina molto, per concezione, a una composizione musicale.
Osservando i separatori modulari, le corde, i pezzi in mostra si scopre che sono stati prodotti estrapolando elementi dai lavori degli artisti selezionati, studiati a fondo e riconcepiti in forma scultorea per assumere una nuova vita: è il caso di the last days in Galliate (2018) l’unica opera che riproduce in scala reale un frammento originale, in questo caso le curve del corrimano presente nella casa di Helg, tradotto successivamente in una forma in cuoio. Il legame indissolubile con le opere originali permane, come un cordone ombelicale da cui i pezzi di Antunes traggono nutrimento. La storia diventa un humus che rende fertile il presente e permette una forma di innovazione all’interno della tradizione, una via “dolce” che salda le storie artistiche e personali degli artisti ai luoghi che hanno abitato e in cui hanno operato. Il contesto in cui si inscrive l’intervento di Antunes è perciò sempre determinante rispetto all’opera finale: i suoi lavori sono frutto dello studio delle vicende industriali, sociali e culturali che costituiscono il tessuto dei luoghi prescelti. Per questo, le opere sono sempre legate in maniera inscindibile ai luoghi per cui vengono concepite, non ammettendo altra condizione di esistenza che la dimensione esclusiva del site-specific.
In questa relazione di esclusività risiede il calore che emanano questi lavori, così classici nell’impianto eppure indiscutibilmente contemporanei nelle istanze. Un modus operandi che avvicina Antunes alla sensibilità e alle pratiche di Lina Bo Bardi, architetta italiana naturalizzata brasiliana, interessata allo studio delle culture locali e all’artigianato come patrimonio di sapere applicato, ma anche alla cura maniacale per il dettaglio di Albini e alla “rarefazione” tipica di alcuni suoi progetti; a Gio Ponti, formidabile innovatore nel solco della tradizione di cui ricordiamo la passione per la pittura e la ceramica, che si concretizzò nella felice collaborazione con le manifatture Richard Ginori durante il periodo 1923-1930; ad Anni Albers, figura cardine del Bauhaus che seppe elevare la tessitura da semplice arte applicata a forma espressiva completa, al pari di scultura e pittura; o, ancora, a Eva Hesse, con le sue forme biomorfe sospese e l’utilizzo di materiali soggetti a degradazione naturale. Tra le figure più affascinanti, c’è la designer cubana Clara Porset, il cui lavoro era già stato oggetto di interesse da parte di Antunes, che le aveva dedicato due personali: discrepancias con C.P., al Museo Tamayo di Città del Messico, nel 2018, e the last days in chimalistas alla Kunsthalle di Basilea nel 2013, che si riferiva alla scelta di Porset di trascorrere l’ultimo periodo della sua vita nell’omonimo quartiere di Città del Messico. Anch’essa espatriata, la sua storia merita una breve digressione: nata a Cuba nel 1885 da una ricca famiglia, Porset studiò a Parigi, New York e al Black Mountain College in North Carolina, dove fece amicizia con Joseph Albers. In aperta polemica con la corruzione del governo cubano, si spostò in Messico nel 1936, dove incontrò Xavier Guerrero, artista ed esponente di spicco del Partito Comunista Messicano, che sposerà e con cui viaggerà in tutto il paese. In Messico Porset raggiungerà l’apice della sua carriera, studiando la cultura locale e subendone l’influenza: elaborerà uno stile molto personale, coniugando un gusto modernista di stampo europeo alla dimensione vernacolare della tradizione messicana e diventando una figura di spicco nel panorama culturale dell’epoca.
Altrettanto carismatica è la figura di Franca Helg, donna emancipata e straordinaria progettista, partner professionale di Franco Albini, a cui si lega in un sodalizio di totale collaborazione e fiducia, autrice di alcuni tra i più celebri complementi d’arredo prodotti dalla manifattura Vittorio Bonacina (ricordate la poltroncina in giunco Primavera?). Helg, come Porset, sceglie un luogo preciso, situato tra Varese e le Prealpi, per firmare uno dei pochi progetti a suo esclusivo nome di cui si ha notizia, ovvero la casa di famiglia dove trascorrerà gli ultimi anni della sua vita, luogo a cui allude il titolo della mostra.
Vicende diverse nei luoghi e nel tempo che risuonano, una fitta rete di riferimenti, rimandi e consonanze, che dimostrano come l’arte che riflette su sé stessa non produca necessariamente tautologia, né sia un cul-de-sac da cui, esaurita l’indagine sul linguaggio, non rimanga che polvere. Antunes sa che le storie sono una materia viva in grado di iniettare sangue nel corpo (talvolta prossimo alla morte clinica) della scultura contemporanea e le utilizza come un mezzo per riflettere sulla pratica dell’arte, un mezzo da utilizzare per trascendere la dimensione narrativa e approdare a riflessione organica sulla forma.
Nel lavoro di Antunes ogni esperienza discende da un’altra e l’osservazione accurata dei processi è funzionale alla necessità di comprendere e assorbire, fino a fare propria, una esperienza artistica, da cui far emergere un nuovo soggetto. “I don’t believe in the idea of originality”, afferma, condensando la sua visione della storia dell’arte del XX secolo come territorio libero, fertile, da cui attingere con rigore, per restituire allo spettatore una forma che, persa la sua vocazione originale d’oggetto d’uso (Antunes parte sempre da un elemento concreto, un pavimento, un dettaglio architettonico, una sedia) possa essere libera, astratta, carica di un nuovo potenziale espressivo. Affascinata dal modernismo, interessata a figure femminili dell’arte rimaste nell’ombra, nella sua ricerca sfrutta la misurazione – un atto di matrice concettuale – come strumento conoscitivo, per dare vita a una pratica di appropriazione che non è mai citazionista, né si muove esclusivamente sul filo del canone ripetizione/differenza: si tratta piuttosto di una forma di prelievo del passato e di riformulazione del possibile, una sorta di “scultura nel tempo”. Tempo che si manifesta attraverso la naturale modificazione dei materiali impiegati per le opere – sughero, legno, corde, ottone, gomma – e nella luce, elemento espressivo fondamentale nel discorso plastico dell’artista.
Di fronte a un lavoro mai declamatorio, è interessante scoprire passo passo la stratificazione di tracce, segni, memorie industriali, vicende talvolta dimenticate, impresse e modellate nelle forme, come in enlarged rods (2018), una serie di elementi verticali cavi che collegano pavimento e soffitto e scandiscono lo spazio dell’installazione, moduli che richiamano i montanti in mogano creati dallo Studio Albini-Helg nel 1956 per l’iconico negozio Olivetti di Parigi, o shed (2018), una partizione realizzata a partire dai montanti della celebre libreria LB7 di Albini (1956), splendido esempio di razionalismo applicato all’interior design. Storie che si intrecciano con altre storie, attraverso un patrimonio di conoscenze che trova spazio nel coinvolgimento di artigiani sapienti in grado di dare vita alle visioni dell’artista.
Il desiderio di interpretare la realtà attraverso la griglia severa della geometria non concede spazio al dogmatismo, e quello che ci viene restituito da Antunes è un lavoro specificamente scultoreo, di stratificazione formale e contenutistica, dove ogni elemento è connesso agli altri in un inesauribile gioco di rimandi, nel quale anche un elemento semplice come una corda, per definizione dell’artista, diviene un “conceptual device” e ogni dettaglio ha un valore fondante. Antunes si approccia in maniera scientifica al lavoro dei suoi predecessori, utilizzando la misurazione come strumento di studio e di appropriazione. Nel caso specifico si potrebbe parlare di “adozione”, riferendosi all’accezione di Joan Fontcuberta in relazione alla postfotografia, un’adozione qui intesa come pratica autoriale di scelta e sussunzione di un’immagine preesistente (in questo caso un oggetto o la porzione di un’opera), ricodificata secondo un processo di elaborazione, per poi essere condivisa pubblicamente. Un’accezione positiva, che sgombra il campo dall’ipotesi della sottrazione o della mera citazione e, chiarendo la dimensione concettuale dell’azione, evidenzia la natura di queste opere, il cui elemento costituente – il prelievo – rientra nell’iconosfera con nuova forma e significazione, in una versione sofisticata e ipercontemporanea del ready made.