Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto / Hara’s way. Eterogenesi della differenza
È possibile che il futuro dell’umanità dipenda da un piccolo ragno dal nome Pimoa cthulhu? È quel che si chiede Donna Haraway nel suo ultimo libro uscito in traduzione italiana, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (trad. Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, NERO 2019, 283 pp., 20 €). E, come di consueto, la Haraway non delude i suoi lettori, intraprendendo un percorso di pensiero tra i più originali dei nostri giorni. Seguendola, il lettore incontrerà tra le pagine ogni sorta di specie animale (piccioni, ragni, polipi, bruchi, farfalle) e da ognuna di esse apprenderà un diverso sapere, una diversa modalità di affrontare la complessità di un mondo in cui nulla è davvero isolato, ma tutto è, anzi, correlato, all’interno di una rete costituita da nodi inestricabili, nodi che possono solo sempre più complicarsi gli uni con gli altri, dando vita a inaudite configurazioni di senso.
Quello della Haraway è un sistema aperto. La Haraway è, infatti, una pensatrice sistematica, ma il suo sistema non è autopoietico, non si struttura all’interno della geniale mente di un individuo. Il centro del suo sistema è al di fuori di lei, nella pluralità di specie che compongono la Terra. È lì, in quel multiforme e “compostabile” humus, costituito da invisibile biodiversità, che la pensatrice americana pone la possibilità di una salvezza. Questa salvezza non potrà nascere dalla potenza autopoietica della tecnica (la creatio ex nihilo), ma solo da una simpoiesi, una genesi in comune, un “con-fare”, poiché “i terrestri non sono mai da soli”.
In questa simpoiesi la Haraway convoglia ogni sorta di sapere, da tutte quelle modalità cognitive che lei riassume sotto l’acronimo di FS (fantascienza, fabula speculativa, femminismo speculativo e fatto scientifico) fino alla sapienza del più umile dei microrganismi.
Il risultato è quello di un continuo spiazzamento cognitivo che, cercando di “restare costantemente in contatto con il problema”, obbliga ogni suo lettore a rimettere in discussione il proprio punto di vista, ad assumere quello dell’altro, un altro che non assume mai i connotati dell’Altro, ma di un’alterità rinviante a un’altra alterità, in un gioco infinito di rimandi in cui ognuno trova un ampliamento del proprio senso in quello altrui.
In questo modo, il problema dell’esistenza del futuro di Gea non si pone se non come quello di uno sforzo comune e di un comune dialogo tra le specie, al di fuori di ogni centralità. Se si dà un futuro, sarà quello di una con-divisione degli uni con gli altri in una sorta di staffetta degli essenti o di grande rete o ragnatela degli esseri (e si noti lo scartamento semantico rispetto alla grande catena dell’essere, indissolubile gerarchica e singolare, di memoria platonica).
Si tratta, per certi versi, di un rinnovato panteismo ctonio, contrapposto ad ogni forma di monoteismo, di pensiero dell’identità e dei suoi conseguenti postulati, interessi e responsabilità individuali (in cui rimangono ingabbiate anche tutte le visioni antropocentriche, di cui l’idea-paradigma di Antropocene è l’ultima incarnazione). La Haraway segue invece la via di una responsabilità diffusa, con-divisa, fondata sulle pratiche viventi, sulla capacità di guardare con gli occhi dell’altro, a partire da un’altra prospettiva, spostando sempre il baricentro della propria identità fuori, fuori da ogni certezza biografica, familiare, comunitaria, etnica o di specie. Per la Haraway, ricordando Rimbaud, davvero io è un altro. E Gea, la Terra come lei preferisce chiamarla, è l’impura madre che accoglie e ricompone (il tema del compost caro all’autrice americana) la infinita biodiversità, le infinite differenze.
Quello della Haraway è, forse, oggi, il più radicale pensiero di una eterogenesi della differenza. Eterogenesi tanto nel senso di una genesi che non parte dal sé ma dall’altro quanto eterogenesi come insieme di conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali: noi non siamo i padroni degli altri perché non siamo nemmeno i padroni di noi stessi – noi siamo l’altro e l’insieme di conseguenze imprevedibili che il nostro agire assume ibridandosi con le azioni degli altri e il loro semplice esistere. Talvolta, forse, la stessa Haraway fatica ad andare fino in fondo al suo pensiero, quando probabilmente cade vittima di una mitizzazione del femminile, della sua identità, non riuscendo a portare fino all’estremo l’eterogenesi, l’idea che non vi è reale genesi se non nell’alterità e che nessuna identità è definita: non basta classificare un pensiero a partire dal genere di colui o colei che lo enuncia, perché ogni genere è in sé differente, generatore di differenza e con-diviso in sé, nella sua identità differenziante.
Ma, sicuramente, non è per incapacità o cattiva coscienza che questo accade nella Haraway, quanto per una difficoltà che ancora noi tutti – indifferentemente – abbiamo a pensare e condividere nella prassi intergenere e interspecie cosa sia esattamente e davvero un pensiero della differenza nel suo rapporto all’identità; cosa significhi che l’identità è differenza e, soprattutto, che la differenza è identità.
Se la lettura dei suoi libri non riesce a farci giungere al fondo di questo abisso che l’eterogenesi conficca nel cuore della nostra identità, certo è che il fascino e la potenza del pensiero della Haraway restano grandi. Il segreto di questa forza, che dà origine a un pensiero fertile, è forse simboleggiato da un ideogramma.
Il significato di questo ideogramma è prossimo all’idea di “radura”, una apertura, non governata dall’uomo e selvatica, all’interno del fitto del bosco. Uno dei suoi interpreti, per aiutarci a comprenderne il senso all’interno di una più ampia riflessione sullo zen, descrive questa radura come “un luogo selvatico che accoglie e protegge tante forme di vita animale e vegetale […] quelle radure dove cominciano a formarsi quei ruscelli che poi vanno ad irrorare i campi”. Ecco, il pensiero della Haraway è esattamente uno spazio come questo, un’apertura in cui ogni forma animale e vegetale trova accoglienza e torna ad abbeverarsi, a rifocillarsi per affrontare il proprio futuro.
Essere una fonte di pensiero: credo non possa esservi miglior definizione e ricompensa per un pensatore, come certo la Haraway è. Dal suo libro si esce rifocillati e con la voglia di guardare al futuro, al di là di ogni pessimismo antropocentrico. Si tratta, ora, “semplicemente”, di diventare altri, per garantire ad ogni alterità di sopravvivere e abbeverarsi alle fonti della vita comune, ai ruscelli dell’esistenza che la Terra continua a metterci a disposizione. Non resta, dunque, che pensare, dobbiamo continuare a pensare, non solo con la nostra testa ma anche con quella degli altri, uomini o animali, vegetali e minerali. Pensare con la propria testa, a partire dalla nostra identità e dalla nostra differenza, dall’identità come differenza e dall’identità che è nella differenza. Compito semplice e complesso al medesimo tempo.
Noi tutti siamo, forse ancora inconsapevolmente, nella radura della Haraway, in quella radura a cui portano sentieri interrotti (quelli dell’antropocentrismo, di cui Heidegger è forse uno degli ultimi e più grandi interpreti) ma da cui si dipanano una miriade di fertili ruscelli e altrettanto e anche più numerose vie, invisibili, per ora, all’occhio umano. Queste vie sono da sempre lì, spesso da molto prima del sorgere dell’Antropocene, tracciate e seguite da millenni o da milioni di anni da altre specie, altri essenti, per nulla poveri di mondo, come pensava Heidegger. Sono vie che ci rendono, anzi, capaci di “mondeggiare in compagnia”, non più solitariamente persi nella sfera e nell’ineluttabile destino dell’essere ma invischiati nell’humus e nelle tentacolari ragnatele del con-essere, esposti e aperti ad altre possibilità di con-vivere e di con-morire. Questa è la via, non resta che mettersi in cammino, tutti insieme, senza rimandare a un futuro astratto il problema urgente che tutti ci lega nel nodo indissolubile di una storia comune: la sopravvivenza della Terra.
Ah, dimenticavo, quell’ideogramma che così ben simboleggia la via intrapresa dalla Haraway si pronuncia hara. Hara’s way.