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Carteggi amorosi / Boccioni e la Principessa: un amore interrotto
Un minuscolo isolotto su un aristocratico lago alpino, un vero e proprio parco galleggiante attorno a un'antica villa. Una principessa romana che, dopo aver conquistato le capitali della mondanità europea, si innamora dell'isolotto e va a passarci l'estate da sola. Un marito assente, anch'egli rampollo di un altro potente e austero casato dell'aristocrazia romana. Un giovane, affascinante pittore, uno dei più talentuosi artisti della prima grande avanguardia del Novecento. Un incontro fatale, su cui incombe il rischio di uno scandalo irreparabile e l'ombra di una morte precoce in un momento terribile per l'Europa, quello in cui la Belle Epoque affonda nel sangue della prima guerra mondiale. Un crescendo di passione travolgente ma trattenuta, raccontato in una ventina di lettere nascoste per quasi un secolo e ritrovate in un vecchio baule.
Sembra la trama ideale di un romanzo rosa d'antan, grondante di romanticismo a ogni pagina e sempre sul punto di affogare nel Kitsch. Eppure è tutto vero. I protagonisti sono Umberto Boccioni e Vittoria Colonna; il luogo, l'isolino di San Giovanni, la più piccola delle isole Borromee sul lago Maggiore; il tempo, l'estate del 1916; le lettere, quelle scoperte nel 2006 da Marella Caracciolo Chia in un baule conservato da un cugino di Vittoria. Anche il ritrovamento è avventuroso, un tipico caso di serendipity: Marella (figlia di Nicola Caracciolo e nipote di Carlo, fondatore di Repubblica, e di Marella Agnelli) era sulle tracce non della principessa, ma del marito, Leone Caetani, principe di Teano e duca di Sermoneta: discendente dell'altra grande famiglia principesca romana, nemica storica dei Colonna, erede di un'enorme proprietà terriera, viaggiatore attratto dal Medio Oriente, studioso dell'arabo e del persiano, autore di un’ambiziosa storia dell'Islam, deputato della sinistra moderata, il principe Caetani nel 1911 fa scandalo pronunciandosi contro l'annessione della Libia e dieci anni dopo, a cinquant'anni, fa uno scandalo ancora più grande: abbandona moglie, patrimonio e studi, e si rifugia tra le montagna del Canada occidentale con una ballerina e una figlia piccola.
È cercando il carteggio tra Leone e la moglie, che la giornalista incappa nel baule lasciato da Vittoria al cugino fidato, con l'impegno di aprirlo solo dopo cinquant'anni dalla sua morte. Tra le migliaia di lettere scritte al marito, c'è anche un pacchetto legato stretto: ventun lettere e alcune foto che svelano l'amore segreto di quell'estate del 1916. Partendo dal piccolo epistolario tra l'aristocratica e il pittore, Marella Caracciolo – anche lei di famiglia aristocratica e legata a un pittore, Sandro Chia – ha scritto una ricostruzione giornalistica accurata e partecipe, che si legge come un romanzo (Una parentesi luminosa, Adelphi, 2008).
L'evento fortuito che propizia l'incontro tra i due protagonisti è un quadro: il grande ritratto del pianista e compositore Ferruccio Busoni, amico del pittore, che Boccioni viene invitato a realizzare sul lago Maggiore, nella villa dei marchesi della Valle di Casanova in cui Busoni è ospite, proprio di fronte all'isolotto.
Boccioni, interventista come tutti i Futuristi, aveva già fatto alcuni mesi di guerra come volontario ed era in congedo a Milano. Arriva nella villa a Verbania Pallanza all'inizio di giugno. Ha trentaquattro anni e un fascino da seduttore: alto, agile ed elegante, occhi e capelli scuri, profilo affilato, uno sguardo mobile, ironico e intelligente, una risata cordiale e comunicativa che lascia talvolta il posto a malinconie da sognatore. Sei anni prima, l'incontro con Filippo Tommaso Marinetti lo aveva attratto nel vortice clamoroso della prima rivoluzione artistica del secolo: con lui i provocatori proclami poetici di Marinetti si traducono in pittura con opere come La città che sale (1910-11) in cui trasforma in energia cinetica e cromatica i propositi enunciati nel Manifesto dei pittori futuristi (1910). Nel Manifesto Boccioni esorta i giovani pittori a «combattere accanitamente la religione fanatica incosciente e snobistica del passato» e ad essere invece sensibili «alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell'apache e dell'alcolizzato»; a ribellarsi contro la tirannia delle parole “armonia” e “buon gusto”, e farla finita «coi Ritrattisti, cogl'Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!».
Eppure proprio un ritratto su un lago di montagna è quello che Umberto Boccioni si accinge a fare in quel giugno del 1916. Noi sappiamo che sarà un'opera importante e confermerà una svolta che, più che al futuro, guarda a quel Cézanne che è un punto di riferimento per molti pittori rivoluzionari di quegli anni, a partire da Picasso; ma sarà anche una svolta interrotta perché sarà l'ultimo, grande dipinto della sua vita.
Un paio di giorni dopo, mentre il dipinto è appena iniziato, una barchetta a remi approda davanti a villa Casanova: ai remi c'è la fascinosa principessa dell'Isolino, invitata a colazione dai marchesi che volevano presentarle i famosi artisti loro ospiti. I Casanova erano cultori e appassionati d'arte e sapevano che anche Vittoria Colonna, oltre ad aver frequentato artisti a Roma, Londra e Parigi (tra cui il rinomato ritrattista Giovanni Boldini) era un'eccellente acquerellista. La principessa ha trentacinque anni, capelli scuri a caschetto, secondo la moda di Parigi, grandi occhi castani e malinconici, labbra sensuali, corpo snello modellato dall'attività fisica: l'equitazione – noblesse oblige – ma anche il polo in bicicletta (una foto a vent'anni la mostra in sella a una bicicletta con un vitino da vespa e un sorriso malizioso), i frenetici balli arrivati dall'America e addirittura le escursioni in pallone (a Londra era soprannominata The Balooning Princess).
Umberto Boccioni e Vittoria Colonna appartengono a due mondi apparentemente opposti.
Lui è un uomo pieno solo di futuro, in tutti i sensi: figlio di un impiegato e di una cucitrice, ha studiato in un istituto tecnico, è stato apprendista in un giornale di provincia, poi cartellonista a Roma, dove fa amicizia con Severini e frequenta lo studio di Giacomo Balla, allora il più avanzato dei pittori romani. Dal 1906 la carriera lo ha portato a Parigi, in Russia (al seguito di una bella nobildonna conosciuta a Parigi), a Venezia e infine a Milano dove diventa «il futurista Boccioni», come lo chiama Vittoria in una lettera al marito.
Lei, per contro, è una donna dal passato fin troppo ingombrante: è nata a Londra dal principe Marcantonio Colonna, duca di Marino, assistente al soglio pontificio ed erede di una delle due più potenti famiglie principesche romane, e da Teresa Caracciolo di San Teodoro, sangue blu napoletano e sangue blu inglese (ma soprattutto sangue caldo, visto che una sua avventura extra-coniugale aveva spinto al suicidio un giovane nipote dell'imperatore Napoleone provocando uno scandalo inaudito e la separazione dei genitori di Vittoria). Era sposata da quindici anni con Leone Caetani, discendente di quel Bonifacio VIII che aveva acceso la faida con la famiglia Colonna, ora apparentemente pacificata con l'importante matrimonio. Apparentemente, perché dopo il breve idillio iniziale, le differenze di carattere e attitudine avevano molto intiepidito il rapporto (nonostante le migliaia di lettere che Vittoria continua a scrivere al marito, anche quando folleggia per le corti europee); e poi perché la suocera Caetani detestava la vita spensierata e indipendente di Vittoria ed era pronta a vendicare il più piccolo scandalo.
«Ieri ho fatto colazione dai Casanova che hanno da loro il pianista Busoni e il futurista Boccioni: quest'ultimo fa il ritratto dell'altro: non ti dico che roba!!», scrive Vittoria al marito con una punta di irrisione, ma senza nascondere la simpatia provata subito per il pittore: «A jolly boy, pieno di allegria e intelligenza. Viene a vedere l'isola oggi; la troverà molto passatista! Tant pis pour lui. A me piace così», conclude con distacco. Un distacco di facciata, visto che per quel primo incontro all'Isolino, la principessa dispone accuratamente fiori ovunque e indossa un elegante e morbido abito bianco che mette in risalto la sua abbronzatura «da creola», come dice con civetteria.
Boccioni non trova affatto passatista né l'Isolino né la sua principessa, anzi ne rimane subito affascinato, tanto che le visite divengono quasi quotidiane. «Vorrebbe dipingerci e io l'incoraggio, domandandomi cosa diavolo verrà fuori!», scrive Vittoria al marito. Nel suo osservatorio sulle trincee sopra Cortina d'Ampezzo, Leone non deve dare molto peso alla nuova conoscenza della moglie: è abituato ai resoconti puntuali degli incontri con uomini famosi attirati dal fascino della principessa: molti si erano invaghiti di lei, dal re d'Inghilterra, Edoardo VII, all'Aga Khan.
Dopo i primi incontri dai Casanova, arrivano gli inviti a cena da parte di Vittoria, puntualmente resocontati al marito con esibita nonchalance: «Due giorni fa era ideale (il tempo, ndr), non mi ricordo se te l'ho scritto: Boccioni è venuto a pranzo e l'ho ricondotto in barca al chiaro di luna; l'Isolino era veramente fantastico quella sera, coi suoi neri cipressi e il profumo di magnolia e gelsomino...».
A dispetto degli inviti futuristi a “uccidere il chiaro di luna”, quelle prime serate romantiche con la contessa hanno un profondo effetto su Boccioni, come uomo e come pittore.
Lo dimostra il modo in cui lavora al ritratto di Busoni: «Dipingevo con pennelli che non erano più pennelli e anche con le dita che andavano per conto loro», scrive a un amico. «Io non so come sia saltato fuori quel ritratto, che tra le altre cose è somigliante, dipinto in uno stato d'animo di chi è completamente fuori della realtà».
Quello stato d'animo è frutto della “divina mania” scatenata da Eros, il daimon celebrato nel Simposio di Platone, che nel quadro si manifesta con una splendida sinfonia di blu e verde: è l'anima cromatica del lago alpino, che illumina tutto il dipinto portando continuamente lo sfondo in primo piano e riverberando nelle ombre che plasmano la massiccia figura al centro. Il contrasto con le tinte complementari del rosso e dell'arancio che dominano quest'ultima accende ancor più tutti i colori che sembrano prender vita, palpitando come macchie di luce colorata che filtrano tra le foglie degli alberi alla brezza del vento.
Finito il dipinto Boccioni torna a Milano dove scrive a Busoni: «In pochi giorni avevo superato diversi stadi e marciavo verso lo stile. Bisognava rimanere. Spero di rimanere all'Isolino». La speranza in realtà è una certezza. Il mattino del primo luglio (quando in Francia inizia la carneficina della battaglia della Somme) è già sul treno per Pallanza. Vittoria sarà là ad aspettarlo, per portarlo all'Isolino dove ha preparato la camera più bella, quella «verde» che si affaccia sul blu del lago.
Saranno soli per un'intera settimana, parleranno molto, cenando a lume di candela e fumando sui «cuscini futuristi» del divano in veranda (come li chiamano con complicità nel loro carteggio). «Mi avete parlato di tante cose interessanti e spiegato alcune che non avevo mai capito finora», scrive lei. E in una lettera al marito aggiunge: «Il futurismo comincia a interessarmi, e chissà, dopo la guerra, se non mi schiererò dalla parte loro!».
Boccioni risponde con una lettera torrenziale: «Le acque e il cielo dell'Isolino avevano lasciata in me un'armonia verde e azzurra come i colori della Vostra casa. Sentivo in me un certo orgoglio come se la mia vita avesse acquistato una profondità maggiore. Mi sentivo puro e calmo. Riconciliato con il mondo esterno, con me stesso, con tutto. Mi sentivo riconoscente e più in alto. Sentivo aumentato il significato della mia vita e delle mie aspirazioni, come se la Vostra bontà avesse messo nel tumulto della mia sensibilità un ordine superiore. […] Mi avete fatto un gran bene, nessuno mi ha incoraggiato a divenire, come Voi!».
In una lettera successiva, sempre da Milano, dove sta aspettando di essere rimandato al fronte, il pittore chiede di poter tornare qualche altro giorno all'Isolino: «Vedo verde e azzurro! Sono i colori della mia pittura. Il verde della mia speranza, l'azzurro del mio sogno! Misteriosa influenza di un'amicizia armoniosa! Chi potrebbe pensar male di ciò? Mi farete venire? Vivo assente, attendo, scrivetemi subito ve ne prego. […] «Tutto è azzurro e grande, limpido e verdissimo. Milano mi pesa! Cosa ha, oggi, di comune con me questo affanno di vita cittadina? Starò meglio tra cavalli e cannoni. Tutto è azzurro e grande, limpido e verdissimo!».
La principessa legge la lettera «tutta d'un fiato» e risponde subito: «Venga appena può. Non ci vedremo forse per tanto e tanto tempo, e in quest'anno di guerra spero che la gente avrà altre cose alle quali pensare che di notare che Lei sta volentieri all'Isolino. […] Mi sono messa a leggere il vostro libro: vi sono varie cose che devo chiedervi, a proposito, poi quando è venuto il sonno ho guardato il vostro ritratto in prima pagina, ho detto: “Buonasera, amico” – e mi sono addormentata».
«Anch'io ho scritto ieri sera e ho mormorato con infinita tenerezza: buonanotte amica mia!», risponde a sua volta Boccioni. «C'è qualche cosa di così armoniosamente legato nei nostri atti ch'io rimango stupito […] amica mia! Purezza mia! Bellezza mia! Dolcezza, profumo, estasi! […] Voi infiammate quello che in me è più profondo e puro, quello che più è nobile in me come uomo e come artista!».
Le parole di James Hillman descrivono perfettamente ciò che sta avvenendo a questo punto del carteggio: «Se mai volessimo la prova lampante dell'esistenza del daimon che chiama, basta che ci innamoriamo una volta. […] in nessun'altra occasione ti senti altrettanto sopraffatto dall'importanza del tuo essere e dal destino; in nessun'altra occasione ogni tuo gesto si rivela più chiaramente ispirato da un demone» (Il codice dell'anima, Adelphi).
Il destino sta davvero sopraffacendo il pittore, con un climax perfetto. In quella seconda settimana all'Isolino la passione esplode. Ne è indizio il fatto che Vittoria, cosa mai successa prima, smette di scrivere al consorte. Si lascia invece fotografare da Boccioni, forse in vista del progettato ritratto, e le due foto, nelle quali si vede la principessa languidamente appoggiata al muretto affacciato sul lago e di fronte a uno dei suoi enormi cespugli di ortensie, sono state ritrovate assieme alle lettere nel vecchio baule.
«Quando si vive senza fede, senza timore e senza speranza, bisogna godere la vita il più possibile», aveva scritto Vittoria qualche anno prima. Anche se la compostezza elegante delle foto non dice niente della passione che li travolge in quei giorni di luglio, lo dicono benissimo, invece, le lettere che Boccioni scrive alla sua principessa da Verona, dove inizia l'addestramento da artigliere col ricordo ancora caldo dei giorni appena passati. Soprattutto quella in cui, per la prima volta, le dà del tu e la chiama «amore»: «Quello che c'è tra noi è una profonda realtà […] Per quanto poco prima ci siamo conosciuti poi simpatizzato, poi... poi c'è il nostro segreto, quel meraviglioso crescendo che ci ha condotto di castità in castità alla nostra casta voluttà! Oh! Le nostre notti! Il tuo pallore, il tuo smarrimento, il mio terrore la nostra infinita comunione di corpo e di spirito. Divina mia, lo sento che mi vuoi bene, un po' più di quando me lo misuravi con avarizia sulla punta del ditino... Rammenti?». E ancora: «Ieri sera coricandomi mi sono sorpreso a mordere il fazzoletto e mormorare il tuo nome. […] bellezza mia, dolce bambina mia. Lo sai che che tu m'inspiri come una bambina, e mi dai soggezione come una mammina? Sei tutto per me, amore! Amore mio! Lasciamelo dire!». E alla fine: «Ti bacio con tutto il mio ardore e la mia tenerezza. Mandami un bacio amore! Tuo, U. Boccioni». Alla lettera allega una foto in divisa, anch'essa ritrovata assieme alle lettere. Nel sorriso aperto s'intuisce la segreta felicità dell'innamoramento, che rende lieve il fardello del soldato nonostante la lontananza forzata.
Dal canto suo, quando scrive, Vittoria si limita ad offrirgli «le due mani da creola!» da baciare. Ma la sua cautela è giustificata: in quei giorni arriva sul lago la suocera, la duchessa Ada Caetani, che trova il modo di sorvegliare la nuora inviandole un nuovo precettore per il figlio. È lui forse che fa sparire alcune lettere della principessa al pittore.
Boccioni si inquieta dell'insolito silenzio epistolare e teme di aver esagerato. Racconta di come impara ad andare a cavallo e ne sia entusiasta. Si immagina già, al ritorno dalla guerra, che cavalca con la principessa in riva al mare, nella vasta proprietà della pianura Pontina di cui lei gli ha parlato. E poi il cavallo è quasi un animale totemico per il Boccioni futurista, simbolo dell'energia dinamica a cui quella pittura aspirava. Lo si vede bene nel già citato La città che sale, dominato dalla sagoma incandescente di un cavallo imbizzarrito (quasi un presagio!); oppure in un capolavoro come Elasticità del 1912, in cui cavallo, cavaliere e paesaggio cittadino, pur ben riconoscibili, sembrano esplodere in mille brandelli di colore che si compenetrano armoniosamente e tra i quali l'occhio rimbalza senza posa, galoppando frenetico e gioioso su tutta la superficie del quadro.
Ma il cavallo è anche lo strumento del destino che il daimon ha in serbo per il pittore. La sera del 16 agosto 1916, poche ore dopo aver spedito la sua ultima lettera a Vittoria, l'entusiasmo spinge Boccioni a chiedere al suo sergente di fare un'ultima cavalcata. Escono assieme dalla caserma di Chievo, nei pressi di Verona. All'improvviso il cavallo s'impenna e si lancia al galoppo, Umberto perde l'equilibrio e cade sbattendo la testa sulla strada in località La Sorte (nome quanto mai fatidico, eppure reale: c'è ancora oggi un'omonima osteria e, a pochi passi, la lapide dedicata a Boccioni). Muore qualche ora dopo, il 17 agosto, all'ospedale di Verona.
La mattina dello stesso giorno Vittoria, ignara, scrive quella che sarà l'ultima lettera al suo Boccioni, nella quale emerge un desiderio quanto mai eloquente: «La vita mi ha dato molto: se non mi ha dato di più è anche perché non ho saputo o non ho voluto prendere: ora voglio trovare la vera felicità: la cerco».
Quella felicità però era già stata spezzata. La principessa lo scoprirà crudelmente solo due giorni dopo, aprendo il giornale: «Il pittore futurista Boccioni muore cadendo da cavallo».
Il ritaglio finirà nascosto nel baule assieme alle lettere e alle foto, e fino alla sua morte, nel 1954, pur continuando a scrivere memorie, cronache mondane e diari di viaggio, Vittoria non parlerà più di Boccioni e di quell'amore «azzurro e grande, limpido e verdissimo» del futurista convertito dal demone più romantico a dipingere e scrivere così: «Penso a uno smeraldo in un lago di cobalto. Mormoro in me parole tenere come il verde dei poeti tradizionali, ma è così. Vivo nell'oltremare!».