6 ottobre 1920 - 6 ottobre 2020 / Vico Magistretti il lord di architettura e design
Vico Magistretti (1920 - 2006) appartiene a una vera e propria dinastia di architetti milanesi. Suo bisavolo è stato infatti quel Gaetano Besia (1781-1871), allievo del grande Giacomo Albertolli – a cui successe pure come direttore della commissione d'ornato – che ha costruito molti palazzi nobiliari in città, tra i quali Palazzo Archinto, in Via Passione, uno dei rari esempi della sopravvissuta architettura tardo neoclassica meneghina, già sede del Collegio delle Fanciulle, oggi Educandato Statale. C'è poi stato suo padre, Pier Giulio (1891-1945) anch'egli distintosi per la prolificità professionale, soprattutto fra gli anni venti e trenta del novecento, coautore, tra l'altro, con Piero Portaluppi, Giovanni Muzio ed Enrico Griffini, del Palazzo dell’Arengario di piazza del Duomo, ora sede del Museo del Novecento.
Dopo il diploma al Parini, Vico si iscrive al Politecnico, e lì si forma con Portaluppi e con Gio Ponti; tuttavia, come ha dichiarato egli stesso, è stato Ernesto Nathan Rogers il suo vero maestro, del quale apprezzava l'idea di una architettura moderna in continuità con la trazione (“Casabella-Continuità" si chiamò infatti la rivista quando, dal 1954 al 1965, la diresse Rogers).
Lo aveva conosciuto in Svizzera, dove entrambi erano sfollati, e, fra il 1943 e il 1944, ne aveva seguite le lezioni al Champ Universitarie Italien di Losanna.
Rientrato in patria, si laurea in architettura nel 1945. Lo stesso anno subentra al padre, morto prematuramente, nel piccolo studio che questi aveva in via Conservatorio, dove Vico lavorerà per tutta la vita e che oggi è sede della Fondazione che porta il suo nome.
Se a qualcuno piacesse l'idea di ammirare nel raggio di pochi metri le opere della famiglia architettonica dei Magistretti, compreso l'avolo Besia, non dovrebbe far altro che percorre Via Bellini, Via Conservatorio e Via Passione per rendersi anche conto di come è mutato il linguaggio di questa disciplina nell'arco di cent'anni. All’angolo fra via Conservatorio e via Bellini sorge infatti l'edificio novecentista di Pier Giulio, poco discosto, lungo Via Conservatorio c'è quello moderno progettato da Vico, mentre su Via Passione ci si imbatte nel neoclassicismo del Besia: tre epoche tra loro prossime con tre modi radicalmente differenti di pensare l'architettura.
Come già i suoi famigliari, anche Vico costruisce molto in Milano, contribuendo con le sue architetture a disegnarne lo skiline di metropoli moderna. Mi riferisco, in modo particolare, alla Torre al Parco di via Revere (1953-56, con Franco Longoni) e alle Torri di Piazzale Aquileia (1962-1964) – chiamate rogersianamente Torri, come la Velasca, e non già grattacieli, in continuità con la tradizione architettonica italiana – parti integrati del paesaggio urbano e vedette del suo verde, dalle cui ampie finestre se ne gode una visuale privilegiata. O ancora le Torri al Gallaratese (1963-1971) che svettano verso il cielo e costituiscono uno dei primi esempi di applicazione di un sistema di prefabbricazione pesante all’edilizia civile nel nostro paese.
A Milano, Magistretti ha realizzato, tra l’altro, la chiesa rotonda di Santa Maria Nascente (1953-1955, con Mario Tedeschi), al QT8; il palazzo per uffici in corso Europa (1955-57); l'edificio di Via Leopardi (1958-1961), misto di residenza e uffici; la casa in Piazza San Marco, (1969-1971); il dipartimento di Biologia in Città Studi (1978-1981, con Francesco Soro); il deposito ATM di Famagosta (1989-1999) e, tra i quartieri, da quelli INA Casa dell'immediato dopoguerra, fino al quartiere San Felice e molto altro ancora.
E poi ci sono le abitazioni monofamiliari, la sua tipologia prediletta, fra le quali si ricordano casa Arosio (1958) e casa Gardella (1963-64) entrambe ad Arenzano; villa Schubert a Ello (1960); villa Bassetti ad Azzate (1960-62); casa Cassina a Carimate (1964-65); villa Tanimoto a Tokio (1985-1986); villa a Saint Barth, nelle Antille francesi (2003) e la sua ultima, la villa per suo nipote Pierre a Losanna (2004-2010) di cui non ha potuto vedere la realizzazione finale.
La sua architettura si connota per la conciliazione che egli riesce sempre ad attuare, fedele al dettato di Rogers, fra tradizione e modernità, recuperando elementi tipologici quali, ad esempio, il tetto a falde, sia in coppi che in ardesia, in luogo del tetto piatto, caro al Movimento Moderno; veroni, verande e lunghe balconate della tradizione mediterranea al posto delle fenêtres en longeur; solidi ed ampi parterre invece dei pilotis au vent. Predilige, però, spesso, la pianta libera e la facciata continua (Uffici in Corso Europa, Facoltà di Biologia in Città Studi), così come, wrightianamente persegue altrettanto spesso la compenetrazione fra interno ed esterno, aprendo ampie vetrate sul verde o sul cielo. Inoltre la sua ricerca spicca per l'attenzione alle nuove tecnologie, impiegate però in modo non ostentato e sempre soggiacenti all'idea progettuale, il che significa che per lui la tecnologia è sempre stata un mezzo e non il fine ultimo dell'opera. Il suo colore preferito era il rosso (lo stesso dei suoi famosi calzini) con cui avrebbe voluto tinteggiare molti altri degli edifici da lui progettati, come, ad esempio, la torre di Via Revere (ma i committenti posero il veto temendo l'invendibilità dei lussuosi appartamenti), e non soltanto la Casa di Piazza San Marco, dove riuscì invece a spuntarla sulla riottosa committenza,
Per quanto riguarda il design, il suo esordio nel campo avviene molto presto, quando, tra il 1947 e nel 1948, insieme ai fratelli Castiglioni, a Marco Zanuso, a Franco Albini e ad altri compagni di università e amici, compreso Bruno Munari, espone i suoi lavori nelle mostre organizzate da Fede Cheti nel suo atelier di Via Manzoni, 23. Salvo un breve intervallo fra gli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta in cui si dedica maggiormente all’architettura, da allora non ha mai smesso di progettare oggetti destinati a migliorare la vita domestica, arrivando a concepirne circa 120, di cui l'80% a tutt’oggi in produzione.
A proposito degli oggetti da lui progettati soleva affermare: “Nel design ciò che conta è il concetto espresso con uno schizzo”. Egli, infatti, come si sa, non ha mai eseguito disegni tecnici (per sua stessa ammissione non li sapeva fare), ma soltanto schizzi che però racchiudevano in sé l’idea progettuale, il suo 'concept'. Spesso, nell'urgenza di fermarla, quell'idea, ma anche di catturare l'emozione che l'aveva suggerita, li tracciava sul primo pezzo di carta che gli capitava sotto tiro, un tovagliolo, un biglietto della metro, l'angolo di un giornale, il retro di una busta. Così ha dichiarato lui stesso:
“I progetti in genere, anche i progetti grandi, io li disegno sempre in scale molto piccole sul retro delle buste o delle lettere che ricevo, e che poi magari perdo.”
Per fortuna, ad afferrarne al volo il concept e a curarne poi gli esecutivi ci pensava il buon geometra Franco Montella, entrato nella leggenda. Storico collaboratore dello studio, era lui il vero interprete e il traduttore in forme trasmissibili ed internazionalmente convenute di quelli che, ad occhi meno esperti dei suoi, potevano apparire soltanto dei geroglifici o magari degli 'spegasci' molto espressivi, indubbiamente, persino dotati di una notevole valenza pittorica. In realtà quegli schizzi erano e sono degli autentici progetti.
"Disegnare per me non è riprodurre l'oggetto in tutti i suoi particolari morfologici e tecnici", ha scritto Vico "ma è un mezzo per scavare sempre più in fondo, per trovare ed esprimere l'anima, l'essenza dell'oggetto, o meglio definire quella possibile altra realtà che esiste dietro alla realtà visibile (look at usual things with unusual eye)."
E ancora: "Amo fare cose essenziali che sembrino niente", questa era la sua filosofia di progetto, tradurre il complesso in semplice, come se quell'oggetto da lui creato fosse sempre esistito.
Altre volte, Magistretti, sicuro della propria capacità di usare la parola e della forza della propria idea, confidente nel rem tene, verba sequentur, progettava "al telefono" comunicando agli artigiani prescelti per realizzare i suoi oggetti persino i più minuti dettagli o le eventuali variazioni. So per certo che faceva lunghe telefonate a mio padre, al tempo del prototipo del tavolo Vidun per De Padova (a cui papà ha contribuito anche con suo un apporto tecnico. Leggi qui) o durante la fase di esecuzione dei prototipi per Rosenthal Studio Line, realizzati negli anni ottanta tutti nella bottega di Pierluigi Ghianda.
Così, infatti, Magistretti era solito sostenere: "l'oggetto di design non nasce solo sul tavolo da disegno, ma, al contrario, si definisce sul luogo di produzione in uno scambio continuo di osservazioni e di suggerimenti."
Ma Vico Magistretti era anche noto per i suoi assiomi. A chi, una volta, lo ha interrogato su che cosa fosse design: "Le rotaie del tram sono design", ha risposto. E così ha detto a un giornalista che gli domandava cosa ne pensasse del food design: "Io, comunque, non ho mai progettato una torta."
E ancora, a chi gli ha chiesto che cosa avrebbe voluto aver disegnato lui: "L'ombrello, questo oggetto straordinario, tecnologicamente molto complicato, che risolve il problema di non bagnarsi, quindi di farla in barba al Padreterno, tanto è vero che era proibito nel Medioevo."
Certamente, forte dei suoi quattro Compassi d'oro, gli era consentito di essere un po' snob e di rifuggire dalle domande banali.
Oltretutto nomen omen, e il suo, derivato da Magister, contiene una sorta di predestinazione a essere un maestro, e Vico Magistretti maestro lo è stato di sicuro, sia dell'architettura che del design, per il quale ha conseguito, tra i numerosi altri premi, anche il Compasso d'Oro alla carriera (1995).
Di pezzi di design ne ha progettati moltissimi e tanti sono divenuti dei must, fin dal suo primo, del 1959-1960, la famosa sedia Carimate (prodotta da Cassina), concepita come arredo del Golf club che egli aveva da poco realizzato nella ridente località brianzola (con Guido Veneziani). Seguirono poi la lampada Eclisse (Artemide, 1965, Compasso d'Oro 1967), la sedia Selene (Artemide, 1969), la sedia Golem (Poggi, 1969), il divano Maralunga (Cassina, 1973, Compasso d'oro 1979), la lampada Atollo (Oluce, 1977, Compasso d'oro 1979), la libreria Nuvola Rossa, (Cassina, 1977), la sedia Pan (1980, Rosenthal Sudio Line), il tavolo Vidun (De Padova, 1986), la sedia Silver (De Padova, 1988) ed altri, il cui elenco sarebbe davvero troppo lungo (per una conoscenza della sua intera produzione, sia architettonica che di design, si rimanda al sito della Fondazione).
Ha lavorato per Acerbis, Artemide, Campeggi, Cassina, De Padova, Flou, Fontana Arte, Kartell, Magis, Nemo, Oluce, Poggi, Rosenthal, Schiffini, Serralunga. Suoi pezzi di design sono esposti in permanenza al MoMA di New York, al Victoria and Alberto di Londra, al Die Neue Sammlung di Monaco, al Triennale Design Museum di Milano.
Il primo omaggio al centenario della nascita di Vico Magistretti, avvenuta il 6 ottobre 1920, è stata la messa online dell'archivio dello Studio Magistretti, il cui lavoro di schedatura e di digitalizzazione è durato tredici anni.
Erano poi previste una grande mostra monografica da tenersi in Triennale, una mostra itinerante e un convegno di studi tutti in calendario questo autunno, in coincidenza con il Salone del Mobile.
Purtroppo l'epidemia di Covid-19 non le ha rese possibili. Ci si augura che questi attesissimi eventi siano solo rimandati, così come si spera che continui a circolare nel mondo la mostra itinerante organizzata dalla sua Fondazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Per la sua innata eleganza (vezzo delle calze rosso acceso incluso), per il suo aplomb anche nelle situazioni più difficili, ma soprattutto per l'aristocratica compostezza dei suoi progetti, moderni e innovativi sì, ma sostanzialmente classici come un buon tight, o un bel taglio di cachemire, Vico Magistretti è stato sicuramente il più british degli architetti e dei designer italiani, anzi, ne è stato il lord, con l'ombrello, ça va sans dire.