Oltre le gabbie, l'uomo. Oltre l'umano, il paradiso / Due esperienze di Carla Cerati
“Morire di classe”, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, viene pubblicato nel 1969, “Paradise Now”, testo collettivo del Living Theatre scritto da Julian Beck e Judith Malina, nel 1970, ambedue da Einaudi.
Carla Cerati ha scattato nello stesso anno, il 1968, le fotografie incluse in entrambi i libri.
Una tensione libertaria è all’origine delle sue immagini, e segna per sempre il gesto del fotografare lungo tutta la sua storia personale. Un desiderio sempre rinnovato segna il nuovo patto che la fotografa stringe con la realtà. Dalla reclusione alla libertà: il passo è lungo ma possibile.
I due libri sono legati fra loro da una continuità che poggia su fondamenta completamente diverse, ma giungono a una medesima conclusione: abbattere le barriere di una istituzione chiusa, plasmata da una società altrettanto chiusa.
Alla base di questa relazione vi sono due processi inversi: l’istituzione manicomiale fa dell’individuo un pazzo perché vuole essere un individuo; l’attore fa di sé un pazzo perché rivendica la sua individualità. Il Living mette in scena una sorta di follia volontaria contro un potere che esclude e reclude. Se i malati vengono privati del loro corpo, gli attori hanno fatto del corpo, e di come il corpo appare, un linguaggio politico e antagonistico. Non si deve più “morire di classe”, il paradiso è finalmente qui. Basta aprire gli occhi.
Entrare nei manicomi è il primo passo. Le foto apparse nel libro provengono da tre diverse istituzioni: Colorno, vicino a Parma, Gorizia e Firenze, vengono scattate tra aprile e ottobre 1968 da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Nessuna foto è corredata da didascalie. I due fotografi sono stati anche al manicomio di Ferrara, ma nel libro non ci sono foto di quel viaggio. Basaglia ha aiutato i fotografi a ottenere l'accesso ai manicomi di Gorizia e Parma. A Firenze hanno potuto scattare solo una volta. Dinnanzi agli occhi dei fotografi si delinea quello che Basaglia ribadisce nell’introduzione al libro.
La malattia mentale è un malessere di natura sociale. Considerare come patologici comportamenti che sono espressione di un ordine sociale basato su ingiustizia, repressione e sfruttamento significa scegliere di stare dalla parte di chi comanda, della classe al potere. Ecco il perché di un titolo così pesante come “Morire di classe”. Con la reclusione, l’individuo viene classificato, in via definitiva, come pazzo. Questo marchio indelebile annulla e sostituisce la sua unicità di essere umano. L’istituzione provvede a sostituirsi al recluso, a tutti gli internati, come nuova e generale soggettività, unica legittimata alla produzione di regole delle quali si afferma unica e incontrollata esecutrice.
Con le parole di Goffmann, citato nell’introduzione di Franco Basaglia e Franca Ongaro a “Morire di classe”, “il malato soffre della perdita della propria identità, l’istituzione e i parametri psichiatrici gliene costruiscono una nuova”, “l’internato assume l’istituzione come proprio corpo, incorporando l’immagine di sé che essa gli impone”, “la malattia viene così a trasformarsi gradualmente in ciò che è l’istituzione psichiatrica e l’istituzione trova conferma alla validità dei suoi principi”. Il manicomio diventa così un’istituzione totale, luogo di annichilimento generalizzato di corpo e psiche, oltre che di una totale disintegrazione del legame sociale. Al di là di una mera dicotomia economica, il significato che la parola “classe” assume è lo scarto tra chi ha e chi non è.
Da queste premesse scaturisce la domanda: “Come non ritenerla il risultato del rapporto di prevaricazione di chi si sente forte perché ha in mano le regole del gioco?”, e immediatamente dopo: “In che modo una relazione a tal grado oggettivante può essere espressione della finalità terapeutica dell’istituzione?”
La fotografia può proporsi come antidoto a questo stato di cose. Se la reclusione dei manicomi ha funzionato come un meccanismo di scomparsa, tanto più necessaria sarà ogni apparizione. Le foto di Carla Cerati sono confutazioni strappate a un mondo buio. Sono immagini che intendono restituire all’individuo la sua forma. L’inafferrabile, l’inclassificabile, il marginale, l’aleatorio, si fa largo sulla superficie dell’immagine.
Il volto di una giovane internata a Gorizia diviene emblema di una condizione di reclusione a cui può e deve seguire una possibile liberazione. Non si trova all’interno della struttura, ma poco distante dal cortile. Guarda verso l’interno, fra le sbarre di una finestra. Il volto, stravolto da una smorfia, è attraversato da un’ insolita bellezza che la violenza dell’istituzione non è riuscita a strapparle via. Le mani, il volto, lo sguardo, enunciano immediatamente il legame indissolubile che l’immagine fotografica riesce a esprimere tra la produzione del simile, ovvero la vicinanza all’uomo, e i segni dell’aggressività, la distruzione del simile, operata dall’istituzione.
O, come accade in un’altra immagine nel manicomio di Firenze, dove una malata urla la sua rabbia oltre le sbarre di una finestra dell’edificio, con un’energia così prorompente e disperata, che pretende di essere ascoltata e sembra dire: sono qui, esisto.
E se per fare una rivoluzione bisogna prima esistere, il passo successivo è portare squilibrio nell’ordine delle cose. Niente più inganni. Se vuoi vedere, afferma Julian Beck, “devi essere pazzo, capace di porti di fronte all’orrore”. Poi potrebbe anche arrivare il Paradiso. E il “Paradise Now” prodotto dal Living Theatre può considerarsi programma e rappresentazione di questo tentativo. Carla Cerati lo fotografa. “La trama è la rivoluzione”, si legge negli appunti sulle prove di uno dei suoi membri, pubblicate nel testo dello spettacolo a cura di Franco Quadri, dove sono presenti le foto della Cerati insieme a quelle di Gianfranco Mantegna, che ha recitato per qualche anno con la compagnia.
I gesti del Living sono impetuosi, incalzanti, voraci. L’opinione pubblica è disturbata da questi attori itineranti. Il loro è teatro di dissenso, di proclamata non violenza, di odio contro ogni forma di repressione, servilismo ed obbedienza. Ed è anche la rottura di un’altra radicata convenzione, l’esistenza dei ruoli di attore e spettatore. Quest’ultimo viene chiamato in causa, disturbato, provocato, coinvolto e spinto a far parte integrante di una sola unica azione. Il teatro come azione politica, la rivoluzione con gli strumenti del teatro. L’immediatezza e la visceralità dell’azione scenica spingono a privilegiare l’espressione corporea più che la parola, cercando, in questo modo, di rompere le convenzioni, penetrare gli schemi e piantarvi il tarlo della coscienza, coltivandolo fino a farlo diventare il frutto della liberazione.
Con i loro ondeggiamenti ritmici, complicati intrecci e immobili quadri viventi, gli interpreti mimano l’itinerario di “Paradise Now”, un sogno-viaggio in otto stazioni, ognuna delle quali si compone di tre momenti.
È un rito, che culmina in una visione che ne determina le azioni, mette a nudo i meccanismi della rivoluzione nel mondo e reclama l’intervento del pubblico. Anche qui le barriere sono infrante. L’immagine ha aperto il varco. Carla Cerati fotografa il Living nel luglio del 1968 ad Avignone, dopo che la compagnia era stata a Parigi durante le febbrili giornate di maggio. L’impressione, scrive Judith Malina, era quella che “recitare uno spettacolo lungo le barricate è degradare le barricate. L’attualità del teatro nelle strade superava ogni falso teatro”.
La fotografia mette realtà e utopia sullo stesso piano. Per la Cerati è giunto il momento di dare corpo a questa possibilità. Dopo essere entrata nell’istituzione manicomiale, è ora di assistere e fotografare un altro sconvolgimento. Nelle giornate di recita di “Paradise Now”, dal 23 al 28 luglio, il Festival, ricorda Franco Quadri, “sembrò riassumersi in una lotta per aprire o chiudere le porte (…). Le sbarre di ferro dei cancelli dividevano la compagnia americana dal suo pubblico più consapevole e partecipe, che premeva fuori dall’arena a cui la direzione del teatro non lo aveva ammesso”. Nei corpi degli attori c’è qualcosa di evidente che cattura lo sguardo: l’evidenza di un eccesso che va ricondotta a un’apertura illimitata. Tutto viene messo in discussione.
Le immagini della Cerati diventano anch’esse parte di quel momento, e sembrano voler disattivare i dispositivi del potere e restituire all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato. Conducono chi guarda, compresa lei stessa, a riappropriarsi delle forme del corpo, del teatro, della strada attraverso la loro dissoluzione.
Le sbarre del manicomio e il volto della giovane reclusa che, da fuori guarda dentro lo spazio della reclusione, sono le stesse a cui Julian Beck, ad Avignone, si aggrappa al di là di una finestra del teatro, in procinto di uscire in strada. Il grido della donna evoca e preannuncia quello dell’attore Steve Ben Israel nell’azione n. 5: “Teatro libero. Prendete l’iniziativa dell’azione”.
Carla Cerati può o non può esserne stata consapevole, ma tra “Morire di classe” e “Paradise now” non ci sono analogie o affinità, si tratta di una stessa esperienza vissuta con continuità. Sembra aver accolto il suggerimento di Julian Beck: “Andare al manicomio per trovare la verità: nello squilibrio dell'ordine delle cose, nella perversione del vero amore, nelle cisti scoppianti della mente. Non più inganni. Se vuoi vedere com'è, devi essere pazzo, capace di porti di fronte all'orrore.”
E la fotografia stessa significa azione. Mai come in questi momenti fotografare ha significato essere in sintonia con gli eventi. Aprire lo sguardo ed aprire la fotocamera significa forzare un passaggio, infrangere una reclusione: ecco perché il gesto dell’apertura presuppone quello della trasgressione. E la trasgressione apre il vedere stesso a un movimento del sapere e a un orientamento della scelta etica: via le sbarre dai manicomi, via le barriere della società.
Tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni 70 l’Occidente ricostruito si guarda allo specchio e riflette su come e a spese di chi il miracolo è avvenuto. Un gioioso, feroce e libertario spirito dei tempi alita, soffia e diventa vortice. Carla Cerati avverte questo vento su di sé e lo sente prepotentemente tutt’attorno. Ma non è una ragazza o un proletario. È una donna matura che ha alle spalle un’educazione e un vissuto che le hanno fatto fare delle scelte. Abbracciare una causa di liberazione non può prescindere dal riconsiderare in modo critico le proprie scelte. E non si va lontano dal vero se si afferma che queste due esperienze si intrecciano alla sua condizione umana. Una donna in cerca di una personale liberazione sceglie di fotografare due realtà, tra le più emblematiche del '68, accomunate dal medesimo rifiuto verso qualsiasi ordine gerarchico.
Insieme alle barriere infrante, queste immagini hanno rappresentato una breccia anche nella sua vita. Hanno suscitato in lei un’esperienza interiore, messo in relazione il suo corpo con questi corpi e la sua esigenza di libertà con la libertà messa in immagine. Non è più possibile separare l’immagine come oggetto dall’immagine come operazione del soggetto. La fotografia coincide con la vita.