La famiglia segreta degli individui singolari
Un’idea tormentava Robert Musil, nel 1923, quando decise di dedicarsi completamente alla stesura del suo capolavoro, L’uomo senza qualità. Era un pensiero assai più angoscioso di quello legato alla finis Austriae, al tramonto dell’Impero dell’aquila bicipite, perché gravitava attorno al concetto stesso di letteratura. Come poteva, infatti, lo scrittore di Klagenfurt differenziarsi da quelli che lui stesso definiva “autori all’ingrosso”, maestri nell’arrotondare gli spigoli del reale?
Semplice: doveva guardare negli occhi l’infinita e complessa indeterminatezza della realtà. Raccontare, insomma, la missione del suo personaggio Ulrich, eletto segretario di un comitato che vuole organizzare le celebrazioni del giubileo di Franz Joseph, scomponendo il mondo che gravita attorno a lui. Non seguendo il filo della memoria, come aveva fatto Marcel Proust nella Recherche, ma esercitando uno sguardo laterale sull’alta società viennese, illusa della propria ormai effimera potenza.
In una lettera a Paul Guillemin, Musil spiegava che “nel nostro mondo attuale accade per lo più solo qualcosa di schematico (le stesse cose), cioè di tipico, astratto e per di più di svuotato”. Proprio per questo, lo scrittore tendeva a rinunciare alla capacità di comprendere tutto, per poi spiegarlo. Si limitava, piuttosto, ad affidare a un personaggio il compito di scorgere, intuire quello che lui stesso non sapeva più mettere a fuoco. Tanto da convincere il germanista milanese Cesare Cases, nel saggio introduttivo all’edizione dell’Uomo senza qualità pubblicata da Einaudi nel 1957, che Musil nel romanzo fosse riuscito a mantenere “intatta la facciata dell’ordine, né ironizza sull’architetto che l’ha creata, ma lascia che a farlo sia il caos stesso che vi si affaccia e che relativizza ogni certezza e distorce ogni filo del racconto”.
Non è a caso che Alan Pauls, se si sente chiedere quali siano i maestri più amati, citi tra gli altri proprio Musil. Perché, come lo scrittore di Klagenfurt, anche lui non ha mai pensato di arrotondare gli spigoli del reale. Anzi, ha sempre esercitato il diritto di scrutare il mondo con eretica precisione. Con surreale interesse. Con folle lucidità.
Basterebbe ricordare la sua Trilogia della perdita (vedi su doppiozero la recensione di Caterina Orsenigo), dove ha raccontato l’effimera solidità dell’impegno politico con la vicenda di un militante di sinistra che non riesce a indignarsi fino alle lacrime nemmeno per il golpe di Pinochet dell’11 Settembre 1973 (Storia del pianto, tradotto da Maria Nicola per Sur, 2018); ma anche l’ossessione che diventa strumento per scandagliare i propri ricordi, come in un rito di iniziazione, nella Storia dei capelli (Sur 2012); e il folle rapporto del nostro tempo con i soldi, che in apparenza non contano nulla, eppure scandiscono il ritmo dell’essere, nella Storia del denaro (Sur, 2014).
Il romanzo in cui, forse più degli altri, Alan Pauls dimostra davvero di essere l’autore contemporaneo capace di osservare la realtà, di raccontarla in tutta la sua quotidiana follia, proprio mentre descrive con implacabile precisione i riti e i transitori miti, è La metà fantasma, che Maria Nicola ha tradotto quest’anno per Sur. E che conferma in pieno il giudizio espresso, tempo fa, dal grande Roberto Bolaño, quando scriveva allo scrittore argentino di Buenos Aires: “Lei è uno dei migliori autori latinoamericani viventi”.
Savoy, il protagonista di La metà fantasma, è di certo uno dei componenti “di una grande famiglia segreta di individui singolari”, di cui Pauls parla nel suo libro Trance, autobiografia di un lettore (tradotto da Gina Maneri per Sur nel 2019). Cinquantenne dalla vita regolare, per non dire imperturbabile, passa il suo tempo a selezionare annunci immobiliari da cedere, poi, ad altre persone. Apparentemente non ha bisogno di nulla, eppure trascorre gran parte delle giornate ad acquistare in rete oggetti diversissimi. Soprattutto inutili. Se non per il fatto che gli consentono, anche soltanto per un attimo, di puntare gli occhi sulle vite degli altri. Territorio che risulta a lui misteriosissimo.
“Savoy avrebbe pagato per tutto questo – scrive Alan Pauls –. E infatti pagava: prova ne era la complicata solidità, affettiva, con cui ciascuna di quelle ventate di vita altrui rimaneva associata nella sua mente alle inezie che comprava. Ma avrebbe pagato anche molto di più – una fortuna, se necessario”.
L’incontro che potrebbe cambiare i suoi giorni tutti uguali avviene per caso. Carla si immerge nelle vite degli altri come fosse un lavoro. Improvvisandosi house sitter, va ad abitare case sparse per il mondo quando i loro proprietari sono assenti. Savoy si innamora perdutamente di quella ragazza così libera e, in parte, disposta a sintonizzarsi con le sue stranezze. Ma dopo qualche settimana di intima coabitazione, lei se ne va di nuovo. Per proseguire la propria vita nell’ennesimo, sconosciuto appartamento.
Sarà l’assenza, la partenza vissuta come un lutto, a introdurre nella vita di Savoy nuove possibilità di affrontare la realtà. Difformi prospettive per tenersi collegato al mondo di Carla, per provare a non perderla. Verranno in soccorso gli oggetti per parlarle di lei. Come il kit per la piscina che la ragazza gli ha lasciato in dono, obbligandolo a dedicarsi al nuoto.
Come il computer, il collegamento via chat, che farà ardere di passione il suo corpo, di nostalgia la sua mente. Dando voce all’effimera illusione che il desiderio del possesso nei confronti dell’altro si possa esercitare anche a distanza. Magari aggrappandosi alle onde lunghissime di una sintonia puramente digitale.
Alan Pauls, pochi giorni fa, è stato ospite del Salone del Libro di Torino. Chiacchierando con lui, abbiamo voluto approfondire alcuni aspetti de La metà fantasma e del suo percorso letterario.
“Quando mi dedico alla narrativa, costruisco delle storie che sono indissolubilmente legate al modo in cui le racconto. Alla lingua che uso per dare loro forma, alla scrittura che scelgo – spiega Alan Pauls, nato a Buenos Aires nel 1959, che ha fondato la rivista “Lecturas Criticas” e ha lavorato per il cinema come sceneggiatore, prima di debuttare nel 1984 con il romanzo El pudor del pornógrafo, ancora inedito in Italia –. Credo, infatti, che l’essenza stessa della letteratura sia questa relazione tra il modo di narrare una vicenda, di ideare l’architettura di una trama, e la via che percorriamo, poi, nel dare forma all’intera narrazione”.
Lo sguardo, per lei, conta più della trama?
Nelle storie che racconto interviene sempre l’osservazione, la percezione, l’analisi del mondo. Spesso la struttura stessa della storia viene sminuzzata in tanti dettagli. E questo può dare l’impressione che io voglia ritardare il ritmo, quasi sospenderlo, per concentrarmi sui particolari. Ma, al contrario, la trama è sempre lì sullo sfondo. Come un pulsare di basso nel divenire di una musica.
I suoi testi sono quasi sempre un flusso continuo in cui i dialoghi compaiono pochissimo. Perché?
Mi piace che i personaggi parlino da dentro la struttura narrativa, non che i dialoghi vengano scorporati dalla storia stessa. Che risultino come singole righe estranee, in qualche modo, al resto del testo. È una sorta di fobia che, mi rendo conto, non potrei giustificare aggrappandomi a ragioni estetiche. Ma ogni volta che scrivo un libro nuovo capisco che è sempre più forte questa esigenza di portare le voci dei protagonisti nel cuore più profondo della narrazione.
Il protagonista de La metà fantasma è un simbolo del disagio dell’uomo contemporaneo?
Savoy è un uomo che non trova il proprio posto nel mondo. È disorientato, ai margini. Ha cinquant’anni e non riesce a sentirsi parte della realtà. Gli sfugge il senso delle cose. Potremmo definirlo un personaggio difettoso. Eppure, nel suo modo di scendere a patti con questa realtà si riscontra in lui una notevole consapevolezza. Pur essendo anacronistico, infatti, Savoy è molto lucido.
Savoy e Carla sono il simbolo di come oggi si può raccontare l’amore, lontano dagli stereotipi?
Mi piace raccontare la possibilità che due mondi diversissimi si mettano in contatto attraverso l’amore. Realtà che, senza il sentimento, non si incontrerebbero mai. La coppia mi interessa, dal punto di vista narrativo, se mi permette di esplorare due metà che non coincidono: l’incompletezza assoluta, insomma, la non soddisfazione reciproca. Questo non significa che io voglia per forza dare voce all’infelicità dell’amore. Piuttosto, cerco di analizzarlo in tutte le sue sfaccettature.
Gli oggetti, che non hanno un ruolo centrale nella vita, trovano il loro riscatto nell’atto stesso della narrazione?
Il mio libro dedica alcune pagine, piuttosto ironiche, al commercio online. Al modo in cui la nostra economia si sta sempre più digitalizzando. In realtà, gli oggetti sono anche dei simboli di microstoria, di memoria. Savoy acquista cose usate per il legame che hanno con le persone. Quello che gli interessa, più dell’oggetto in sé è ciò che racconta su chi lo ha posseduto prima. E che poi, per motivi spesso enigmatici, ha deciso di venderlo invece di buttarlo.
Anche tra Carla e Savoy è così…
Nella relazione tra Carla e Savoy gli oggetti hanno un ruolo importante. Lei, ad esempio, gli regala un kit da piscina che lo spingerà a dedicarsi al nuoto. Credo che gli oggetti siano, tra loro, una sorta di reliquia del sentimento. Perché l’amore dipende, in qualche modo, dalle cose stesse che tocchiamo, che accarezziamo, che facciamo nostre.
Più che abitare la realtà, Savoy la sfiora?
La relazione che Savoy ha con gli appartamenti abitati da altri, e che va a visitare, è un po’ la sintesi del personaggio. A lui interessa la possibilità di sfiorare le storie. Trova in quelle stanze un’illuminazione che racconta l’intimità di persone sconosciute. Per poi ritirarsi, scomparire dalla loro vita. Gli piace la fugacità di quei contatti.
Borges, Kafka, Musil: chi inserirebbe nel suo albero genealogico letterario?
Riconosco che i miei personaggi sono modellati su alcune figure del grande romanzo del Ventesimo secolo. Quando scrivo, non posso certo dimenticare la lezione di Leopold Bloom; di Marcel Proust con la voce del narratore della Recherche; di Franz Kafka e del suo Joseph K. nel Processo; di Robert Musil e dell’Uomo senza qualità. Queste figure immaginate abitano tutte sul bordo del mondo in cui vivono. E il loro modo di essere non smette mai di affascinarmi, di pormi domande.
Sono loro a escludersi dalla realtà?
Ci sono personaggi che decidono consciamente di emarginarsi dal mondo. Sto pensando a Wakefield, l’uomo londinese del racconto di Nathaniel Hawthorne che abbandona la propria abitazione e la moglie pur rimanendo a vivere, per vent’anni, nelle vicinanze in un totale anonimato. Una storia che amo molto e che, secondo me, anticipa le figure letterarie dei libri di Franz Kafka, di Robert Walser. Ecco, Savoy è sicuramente inserito in quest’albero genealogico.
Com’è il suo approccio alla scrittura, metodico o anarchico?
Questo romanzo è stato dettato da una grande disciplina. Perché è nato nell’anno che mi ha portato a vivere a Berlino grazie a una borsa di studio. Quindi ho cercato di sfruttare quei dodici mesi nel modo migliore, completando quasi l’intera stesura del libro. Devo ammettere che non mi era mai successo di lavorare in maniera così regolare, perché credo che ogni storia richieda forme di scrittura diverse ed esiga metodi, dinamiche differenti.
A parte il periodo berlinese, come lavora?
Di solito cerco di orbitare attorno al progetto che ho in testa per concentrarmi su di esso ogni giorno. Se riesco a scrivere, bene; altrimenti mi limito a ragionare sulla trama, sui personaggi. Di solito non faccio schemi, non tento di riassumere la storia in una sorta di copione da sviluppare in seguito. Quando mi sento pronto, improvviso. Lascio che la scrittura vada libera per la sua strada.
I suoi sono romanzi radicati nella realtà, con gli occhi puntati su un possibile altrove?
La realtà è sempre al centro dei miei libri. Però è vista, immaginata, raccontata dallo sguardo di qualcuno. Proprio per questo è sempre sottoposta a ogni tipo di trasformazione possibile. Io cerco di ricostruirla in tutti i suoi dettagli filtrandola attraverso quello sguardo alieno. Quando gli occhi dell’altro si spingono fino all’estremo, il risultato può essere la descrizione di una realtà totalmente allucinata. Come accade in La metà fantasma. Tanto che, via via che scorrono le pagine, si può arrivare a chiedersi se tutta la storia non sia un’invenzione. Il delirio di qualcuno innamorato di una persona incontrata soltanto fugacemente. O, addirittura, mai esistita.
Come ha fatto a superare la lezione di Borges, Bolaño, Cortázar, per trovare una sua voce letteraria?
Ci vuole del tempo. E, comunque, non si è mai sicuri di avere trovato quella voce. Nessuno si affaccia al mondo della letteratura, dopo aver letto autori geniali, con la convinzione che il suo modo di scrivere, di raccontare, sia davvero personale. Solo con un grande lavoro si può trovare l’intonazione giusta. Senza dimenticare che il proprio stile sarà sempre e comunque intessuto della lezione dei maestri che ci hanno preceduto. Questo discorso vale soprattutto per noi scrittori contemporanei, che abbiamo alle spalle secoli di romanzi magnifici. È pura utopia illudersi di essere completamente originali.