Che Guevara tú y Todos / Il senso di una vita: il Che in mostra a Milano

14 Marzo 2018

A cinquant’anni dall’assassinio di Ernesto “Che” Guevara in Bolivia (9 ottobre 1967), la mostra Che Guevara tú y Todos (Milano, Fabbrica del Vapore, fino al 1° aprile 2018, catalogo Skira) propone, con l’ausilio di un ricco apparato visuale, un nuovo sguardo prospettico su colui che, dopo la morte, è stato irrigidito nell’immagine devozionale del “guerrigliero eroico”. Sul Che – che nel 1960 Jean Paul Sartre aveva definito “l’essere umano più completo del suo tempo” – si è subito addensata la coltre della leggenda. Si è letto il suo Diario in Bolivia come testimonianza di un sacrificio tanto vano quanto necessario. Al Guevara in carne e ossa si sono sovrapposti l’impressionante somiglianza con Gesù – gli occhi aperti e il corpo morto adagiato nel lavatoio dell’ospedale del villaggio di Vallegrande, lo sguardo che perdona i suoi carnefici – e l’accostamento con il Cristo morto di Andrea Mantegna. Dopo la fortuna planetaria del poster del rivoluzionario dal volto corrucciato, il basco e lo sguardo rivolto al futuro, oggettistica, abbigliamento, orologi Swatch hanno reso il Che un marchio globalizzato. La sua effigie ha oltrepassato le ideologie, facendone un volto sganciato dalla dimensione reale. Oggi è un Che light a interpellarci: “A casa mia ho un poster di ciascuno di voi”. In un asimmetrico gioco di sguardi quello di Guevara raccoglieva l’anelito dei giovani a partecipare al riscatto dei “dannati della terra”; oggi ammonisce chi ha smarrito il senso della sua utopia. 

 

Che Guevara tú y Todos vuole riportare il Che nel suo tempo e decostruire la retorica del mito. È una mostra transmediale che ci esorta a vedere, leggere, ascoltare, sfogliare album con foto di famiglia, e stimola l’interattività dell’esperienza del visitatore. Simmetrico Cultura e il Centro de Estudios Che Guevara dell’Avana hanno voluto presentare, nella scena storico-politica degli anni Cinquanta-Sessanta, una dimensione realistica, problematica, umana molto più sfaccettata dello stereotipo del Guevara rivoluzionario tutto d’un pezzo. Viaggiatore, ribelle, anticonformista, nel suo cercare l’esperienza attrverso la letteratura Guevara può a buon titolo essere emblema della rivolta culturale della beat generation che sta al centro della mostra Revolution. Musica e ribelli 1966-1970 il bianco e nero e i colori in corso in uno spazio adiacente nella Fabbrica del Vapore. 

 

 

Supporti audiovisivi e materiali autografi (lettere, poesie, discorsi, brani dei suoi diari) costituiscono la parte più originale e inedita di un percorso espositivo che si snoda lungo il filo rosso che contrassegna l’intera esistenza del Che: l’erranza e un senso personale del viaggio come esperienza interiore più ancora che politica. Con ciò la mostra rovescia la prospettiva con cui si è guardato a Guevara a partire dalla sua morte prematura e violenta. Per umanizzare la figura politica bisogna ricostruire il senso di una biografia. Largo spazio è perciò dedicato alla sua vita prima che diventasse il “Che”. Le foto di famiglia raccontano che Ernesto Guevara de la Serna nasce in una famiglia borghese di altalenante agiatezza che simpatizza per la causa repubblicana spagnola, è affetto da un’asma che non gli impedisce di giocare a rugby, da bambino-adolescente divora tutti i libri che sono in casa, gioca a scacchi e legge Freud, è dominato da un’inquietudine che lo spinge a trascurare gli studi universitari e a percorrere con una bici a motore 4000 km nel nord dell’Argentina. Alla fine del 1951 parte con l’amico Alberto Granado per il viaggio in motocicletta che verrà annotato nel diario pubblicato postumo a Cuba (1992) con il titolo Notas de viaje. Legge, studia, viaggia, ama le ragazze con passione, trascrive le sue esperienze in forma di diario. Di ritorno a casa riordina ciò che ha scritto, legge la propria vita come fosse quella di un altro nella consapevolezza che l’aver percorso grandi distanze innesca un cambiamento irreversibile: “io, non sono io; perlomeno, non si tratta dello stesso io interiore”. 

 

Nella scrittura intima, nel rapporto tra libri e vita, nel registro personale dell’esperienza troviamo il Guevara che legge, scrive e viaggia alla ricerca di un suo privato luogo dell’autenticità. Molti anni dopo, dal cuore di tenebra del Congo, scriverà alla moglie Aleida March: “sono un misto tra un avventuriero e un borghese, combattuto fra una voglia lancinante di ‘casa’ e l’ansia di realizzare i miei sogni”. Nel 1953 intraprende l’ultimo viaggio per l’America latina e nel 1954 lascia il Guatemala per il Messico dove incontrerà Fidel Castro. Due anni dopo parte per Cuba con il gruppo di guerriglieri che il 1° gennaio del 1959 rovesciano il regime di Batista. Il resto è la arcinota biografia politica del “Che”, così soprannominato dai cubani per la tipica interiezione usata dagli argentini. La mostra documenta con abbondanza di materiali i passaggi fondamentali del suo percorso politico: da giovane comandante sulla Sierra Maestra fino all’operazione militare di Santa Clara, dalle prime missioni in giro per il mondo fino alla guida del Ministero dell’Industria e della Banca centrale, dai viaggi con la delegazione cubana in URSS, all’ONU, in Africa e in Cina fino alla partenza per la missione segreta in Congo nel 1965 e la partenza per la Bolivia.

 

Immagini in mostra e materiale audiovisivo contestualizzano vita pubblica e privata. Discorsi a Cuba e all’estero, missioni in Asia e in Africa come ambasciatore della rivoluzione cubana, fotografie inedite, cartoline spedite alla moglie e ai figli, il testo-interrogazione scritto alla notizia della morte della madre, la pagina dell’agenda del 2 giugno del 1959 in cui campeggia la parola “Nozze!!”, la poesia-commiato che il “viaggiatore insaziabile” scrive ad Aleida nel 1966 e che contiene il senso della tragica tensione, della polarità tra i “todos” che esigono l’estremo sacrificio e il “tu” oggetto di un amore necessario “come il nostro pane di tutti i giorni”. Un Che intimo fa da contrappunto all’iconografia ufficiale, svela l’altra faccia della foto di Korda Il Che durante i funerali delle vittime dello scoppio de “La Coubre”. Il celebre sguardo dell’epoca delle Guerra fredda è ricompreso all’interno di una storia di vita più sfaccettata. I suoi ritratti esortano allo sguardo reciproco, a una relazione intersoggettiva tra l’immagine e i suoi fruitori.

 

Avvertiamo che a distanza di anni è sempre la sua immagine a riguardarci, forse anche a interpellarci. Il Che vive, viaggia, combatte sulla Sierra Maestra, in Africa, in Bolivia restando se stesso e chiede di fare della sua vita una storia confrontabile con la nostra, forse anche di renderla interpretabile in immagini nostre. Spicca, tra le tante, la foto del Che in Bolivia che legge arrampicato su un albero. È una smentita dello sterotipo dell’uomo d’azione, è l’affermazione dell’idea della lettura come rifugio, come ricerca di uno spazio privato, avulso dal contesto, opposta all’immagine del guerrigliero che fa del movimento un fattore di vantaggio rispetto all’avversario. La scena della scrittura e della lettura è la costante di lunga durata della sua vita. 

 

La narrazione transmediale ci ricorda che il senso della vita del Che e delle immagini che lo ritraggono non è dato una volta per tutte. Il Che possiede l’enorme potere seduttivo di restituirci lo sguardo articolando la sua immagine come desiderio. È questo il segno distintivo della mostra: il senso della vita di Ernesto Guevara non sta nella fine di un racconto ma attraversa il percorso per voci, testi, immagini che noi facciamo per raggiungere quel senso. La decostruzione del mito Guevara (e del suo sacrificio) non si chiude perciò con la foto della salma esposta nel lavatoio dell’ospedale di Vallegrande, ma con la veglia solenne del 18 ottobre 1967 nella Plaza de la Revolución conclusa dalla solenne e vibrante commemorazione di Castro (di cui è offerta parziale documentazione audio). 

Un’ultima considerazione meritano i ritratti di grande formato del piano superiore, dove le immagini del Che sono prive di didascalie che orientino la visione. Il visitatore è accompagnato da una piacevol melodia (al piano terra si ascoltano documenti sonori ufficiali) mentre osserva i primi piani in bianco e nero. Il Che continua a spiegarsi da solo, la sua potenza iconica resta immutata. Se nelle foto che lo ritraggono nei suoi incarichi ufficiali o nella sua vita clandestina è un soggetto situato in precisi valori ideologici, se quella ritrattistica ha una specifica funzione documentale, il suo volto in un bianco e nero molto contrastato ha la capacità di svincolare il soggetto dalla storia. Ribadisce che il Che è stato un eroe fuori tempo, una figura che era oltre il suo presente. Davanti alle immagini di grande formato che resistono a una definizione univoca, siamo chiamati a dargli un significato, consapevoli del loro potere illusorio. Perché – come osserva Roland Barthes – stiamo sempre vedendo qualcosa di non più esistente. Così come l’immagine fotografica si libera dei mezzi che l’hanno resa possibile, il Che chiede ancora una volta di essere smitizzato e persiste nel nostro immaginario con le sue zone di luce e di ombra. 

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