L'intelligenza della forma / L'Eugenia e i garofani
Quelli che usiamo per aromatizzare cibi e bevande sono i boccioli essiccati di un albero originario di Filippine e Indonesia, appartenente alla famiglia delle Mirtaceae e dal nome scientifico di Syzygium aromaticum. Trovo però più simpatica la dicitura Eugenia caryophyllata, con cui pure è noto, benché l’aggettivo rinvii ad altra inopinata famiglia, le Caryophyllaceae, propria invece del fiore che tutti noi siamo soliti chiamare garofano e i botanici Dianthus. Nella confusione onomastica non ho ben capito se sia la spezia a rinviare al fiore – forse per la foggia del chiodo simile al bottone florale non ancora dischiuso – o, al contrario, il profumo del fiore a ricordare l’aroma della spezia.
Comunque sia, il garofano che – profumo a parte – nulla ha in comune con l’Eugenia, ci porta sulla riviera ligure dove da secoli si coltiva nelle serre in faccia al mare in barba a Mario Calvino che, a detta del figlio Italo (La strada di San Giovanni), si batteva contro la monocultura del garofano nel sanremese. I Dianthus, per altro, sono un mondo a sé per numero e varietà. Limitarsi a quello che dal Dianthus caryophillus, presente in natura e attraverso vari incroci, ha dato esito nel garofano da taglio, sempre presente sul mercato e sui baveri dei militanti socialisti, è come entrare bendati a narici tappate in un orto botanico. Non tutti i Dianthus olezzano fragranze esotiche, ma tutti sono avvenenti, specie gli spontanei nella loro gracile grazia leggera. Si ergono solitari o a mazzetti (D. deltoides) su gambi articolati ai nodi, con rade e opposte foglie lanceolate verdi o glauche. Le corolle possono essere semplici o a più giri, con petali in tinta unita o dall’unghia a contrasto, a margine dentato o sfrangiato (bellissimo il D. superbus), su un calice cilindrico ben rilevato in lunghezza. Perenni per lo più, rustici e generosi, vogliono sole e suoli calcarei.
Assai diffusi in orti e giardini per la facilità di coltivazione e per l’effetto cromatico sono gli orientali garofani dei poeti (D. barbatus) dallo stelo robusto e dalle larghe ombrelle multicolori. Se poi avete un angolo roccioso, potete provare l’eccitante indecisione nella scelta tra le molte qualità nane: ricopriranno i vostri sassi di piccoli occhi colorati attraenti anche a fioritura esaurita per i fitti cuscini fogliari. E se giardino non c’è, basterà un coccio per avere un terrazzo scoppiettante così: «Era un semplice balcone villereccio, tutto fogliame e tralci di vite, con razzi fitti di garofani porporinissimi lanciati da marmitte di terra cotta» (Giovanni Faldella, Il male dell’arte).
Ora non aspettatevi una citazione dal Garofano rosso di Elio Vittorini o dal Vasco Pratolini di Cronache di poveri amanti. Grandi scrittori sono anche i grandi saggisti, e per celebrare i garofani ricorro a un’accoppiata di classe: Roberto Longhi e Cesare Garboli. L’expertise di Longhi è quella del trittico dell’Annunciata di Carlo Braccesco, conservato al museo del Louvre, una delle sue attribuzioni indimenticabili. Nel saggio del 1942 Longhi recupera nella memoria il suo primo incontro con l’ignoto «Maestro dell’Annunciata», come allora veniva chiamato:
Torniamo assieme, intanto, anno millenovecentoventi, nel Museo del Louvre, dinanzi al trittico appeso a mano manca, sul finire della prima campata di quella Grande Galerie che ha ormai, nel ricordo, la pace di uno stradone esposto alle grandi piogge. I primi appunti, stesi, rammento bene, nella sosta meridiana in una «crémerie» di rue de Rivoli, sono abbastanza significativi.
«Apparizione d’oro e di avana, azzurro e grigio. Le carni lievemente aduste; quasi un sospetto di meticciato. Sui visi più chiari le ombre ardesia. Le babbucce di Sant’Alberto come olive nere. Toni caldi e toni freddi (che cosa importa?) da non distinguersi. Ori, ori: non però appiattiti sulla luce, anzi che smagliano nella luce, bruciati dalla penna nera dell’ombra. Sentimento degli ori. Coltivazione degli ori. Civiltà degli ori lombardi (Monza, Treviglio, Lodi). Intelligenza della forma da screditare più d’un fiorentino, però non fiorentina; confidenziale, accostante, non insolente e saputa. La città nel pomeriggio torpido: una Pavia immaginaria, di ricordo? E l’angelo che sembra smartellinato da uno scultore della Certosa. Viola come nel Bergognone. Gli azzurri, invece, di lago, intatti, come in Fouquet e Charonton. Del resto, anche la Madonna, «fermière». Elezione della spalliera di rose come in un antico «lai» provenzale, i garofani che tremano nell’afa entro il vaso, ahi, «rinascimento». Ironico, però anche nel frammento di girale troppo bello, impeccabile. Tutto scritto e tutto dipinto; largo e minuto. Un miniatore di genio. Un gran pittore di minimi. Il più alto colloquio tra nord e sud, tra Van Eyck e Piero. L’apice della pittura lombarda del Quattrocento».
Vien da dire: alla faccia delle «vecchie spuntature d’impressione immediata» qui «messe in piazza»!
Da par suo, Garboli glossa: i garofani in vaso paiono sporgersi «dal niente», collocandosi nell’intervallo tra comunicazionee traduzione («impossibile») della pittura, come se «i garofani dipinti da Braccesco scegliessero, chiedessero, per così dire, di essere letti nella specularità dell’occhio e del settenario di Longhi» (Storie di seduzione).
Insomma, forse mi basterà una vita da dilettante giardiniera per comporre, se non un passo di prosa critica degna di questi due inarrivabili saggisti, almeno un vaso di garofani che si avvicini a quello della balconata di Braccesco. Certo, ogni garofano mi riporterà sempre all’orecchio il ritmo, la misura di quel settenario «incistato in un falso endecasillabo», e all’occhio quell’«intelligenza della forma» che pare ormai scomparsa dalla Lombardia.