Byron e Foscolo / Splendore e miseria dell’Eroe Romantico
Ci sono libri che non si limitano ad avere un valore singolare ma, letti accanto ad altri libri, assumono un significato ulteriore: il loro rapporto permette talvolta di rendere leggibile un fenomeno altrimenti invisibile. Credo sia questo il caso di due libri usciti in questi ultimi mesi: Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno, di George Byron (Adelphi) e Forsennatamente. Mr. Foscolo, di Luigi Guarnieri (Nave di Teseo). Il primo è la pubblicazione dei diari di quello che rimane tuttora il più importante poeta romantico inglese; il secondo la ricostruzione biografica degli anni londinesi di quello che rimane tuttora il più importante poeta romantico italiano. Due libri che presentano delle tangenze importanti, e soprattutto muovono in un orizzonte comune. I referti byroniani sono lampi d’introspezione, scrupolosi regesti di un’esperienza umana abitata da fortissimi trasalimenti e altrettanto abissali depressioni. All’età in cui scrive i suoi diari – dai ventitré ai ventinove anni – Byron è già il poeta noto in tutto il mondo per i suoi scandali – amori illeciti, duelli, fughe improvvise, truffe, clandestinità – e non è lontano dalla morte in Grecia che ne avrebbe celebrato l’apoteosi, con il suo leggendario funerale di quarantasette carrozze vuote. La biografia foscoliana così ben romanzata da Guarnieri dipinge a sua volta il racconto di un uomo disincantato ma vigile, pieno di una furia che nessuna attività letteraria sembra riuscire a sedare. Il Foscolo londinese è un pensatore corrucciato e un avventuriero squattrinato: alla febbre malinconica dei suoi testi la biografia risponde con una disincantata, casanoviana sfrenatezza. Accomuna Byron e Foscolo questa straordinaria irrequietezza. Inoltre, per quanto Foscolo abbia, all’arrivo a Londra, trentotto anni, e Byron ventitré, entrambi hanno la chiara percezione di essere giunti al capolinea della vita. Moriranno entrambi precocemente, suggellando una leggenda biografica che ha avuto, nella nostra cultura, ben più fortuna di quanta ne abbiano avute le loro opere: paradigmi biografici, scrittori senza libri.
Se c’è infatti un dato paradossale e significativo che emerge dalla lettura e dall’esistenza stessa di questi due libri, è il seguente: ciò che del Romanticismo sopravvive meglio oggi – e gode anzi di ottima salute – sono le vite dei suoi autori. A distanza di due secoli, abbiamo ora il diritto di chiederci se il grande capolavoro del Romanticismo non sia stata appunto la mole delle sue opere – che ad eccezione di studenti e specialisti quasi più nessuno legge – ma la sua involontaria autobiografia, l’epopea narrativa che esso ha fatto dei propri protagonisti: la creazione cioè di un vero e proprio Modello di Uomo Europeo. Viene da chiedersi se il Romanticismo, nel corso di questi due secoli, obliterando la sua natura letteraria – facendo cioè della letteratura un uso tutto sommato strumentale – non si sia trasformato nella più vittoriosa delle pose, nel più logorato fra i modelli. «Può venire un giorno», scriveva Auden nel ‘54, «in cui le lettere di Keats saranno più lette e ammirate della sua stessa poesia». Quel giorno è venuto, e ormai da tempo. Un libro come quello di Guarnieri dimostra che ciò che di un autore come Foscolo continua a esercitare un’indiscutibile fascinazione – e che in genere lo rende, nel tridente liceale che lo schiera insieme a Manzoni e Leopardi, il più simpatico agli studenti – non è certo il culto laico dovuto ai morti espresso nei Sepolcri o l’inafferrabile levità neoclassica delle Grazie, ma le accensioni patetico-sentimentali tutte autobiografiche dell’Ortis, che nel libro di Guarnieri vediamo confermate da una vita altrettanto rocambolesca: spese scriteriate e soggiorni in prigione, amori clandestini e matrimoni acrobaticamente mancati, insomma tutto il caravanserraglio del Romantico che, nella biografia di Byron, ritroveremo, con le dovute variazioni, pressoché identico, come se i due seguissero, a latitudini diverse, lo stesso copione. Questo non ci urta, e anzi ci trova compiacenti, perché l’orizzonte sentimentale di Foscolo forse è ancora il nostro. «Furori, disperazioni, spropositi e follie» – per citare la quarta di copertina – per noi fanno evidentemente ancora parte a pieno titolo di un paradigma positivo. Il nostro è dunque ancora un tempo percorso dalla “malattia romantica”?
Di autori come Byron e Foscolo – ma anche, per citare un altro esempio italiano, il Leopardi martoniano prima e daveniano poi – resta infatti oggi soprattutto una serie ben codificata di pose assurte a valori automatici. Atteggiamenti, modi, posture diventate ormai vero e proprio vocabolario comportamentale: la contrapposizione del pericolo alla noia, il senso dell’indifferenza e della vanità delle cose, l’indistinzione fra stile e morale, tra pubblico e privato, tra politica ed etica, il gusto per la contraddizione (come si spiegherebbe la fortuna pop di un aforisma tanto suggestivo quanto semplificante e inutilmente tautologico come il “Bellezza è verità, la verità è bellezza” dell’Ode su un’urna greca di Keats?): tutti caratteri estremamente contemporanei, e che hanno nel Romanticismo il loro storico momento fondativo. Basti pensare – capolavoro anche questo tutto romantico – alla sensuosa fascinazione per la morte, una morte da concepire come estremo, disperato capolavoro di sé. Cosa sono Amy Winehouse o Dolores O’Riordan, Rothko o Chester Bennington, Basquiat o Avicii, se non alcuni tra gli ultimi, più eclatanti esempi di wertherismo occidentale?
Non tutte le morti sono uguali, o perlomeno non tutte comunicano lo stesso messaggio: e il suicidio di Catone Uticense è cosa molto diversa dal suicidio di Yukio Mishima: l’immagine della morte come estremo compimento della vitalità affonda le sue ragioni proprio qui, tra Sette e Ottocento, in un Byron che a ridosso del suo ventunesimo compleanno scrive: «A ventitré anni il meglio della vita è andato e le sue amarezze raddoppiano». Il biglietto d’addio di Mishima che precede il suicidio rituale – “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre” – esprime il senso di quell’insanabile contraddizione che i Romantici per primi hanno eretto a insuperabile principio vitale. Non è forse un caso che molti fra i maggiori romantici siano morti prima di compiere quarant’anni: Büchner a ventiquattro anni, Keats a ventisei, Shelley a trenta, Kleist a trentaquattro, Byron a trentasei, Leopardi a trentasette. Certe pagine del diario di Byron sembrano quelle di un divo d’oggi colto in uno di questi ormai proverbiali abissi depressivi che tanto spesso culminano con una morte più o meno volontaria. Come scrive Mathias Enard – uno dei grandi scrittori contemporanei europei, che del Romanticismo sembra finalmente avere le scatole piene: «Costoro dimenticano che il romanticismo era una malattia della morte, una specie di peste nera del sentimento e della follia, dimentica che it’s so romantic significa in realtà è tremendamente morboso». La grande vittoria antropologica del Romanticismo non sta (solo) nel trionfante sentimentalismo che domina la cultura pop televisiva, ma (anche) in questo segreto e insondabile contrappeso tragico di cui ancora non riusciamo a liberarci, soprattutto all’interno della categoria di chi opera nel campo della cultura, della musica o dell’arte. «La “byromania” segna la nascita dello star system», scrive Ottavio Fatica in Un asterisco per destino – e, ci verrebbe da aggiungere, anche della sua proverbiale e quasi obbligatoria dannazione, del suo maledettismo, del suo nevrotico autocannibalismo assurto a modello della Grande Anima, esempio da emulare per chi è artista o ne ha l’aspirazione. «Tali creature», aggiunge Fatica, «riconducono tutto a sé, alle proprie emozioni e sensazioni. Sbattere contro lo specchio per costoro è sentirsi vivi». E non è, questa, l’estremizzazione di un egotismo che ora, fuori tempo massimo, risulta così voracemente autodistruttivo?
L’etichetta dell’“esistenza come opera d’arte” è forse la sola opera dei romantici che si sia definitivamente realizzata e compiuta. Non solo quelle biografie, ma i valori che ad esse presiedevano, sono diventati leggenda e assumono oggi la forma eroica e definitiva della mitologia: stanno nel nostro tempo come un’isola di seducenti sirene. Nella morte di Avicii – ultimo martire, si spera, dell’epoca romantica – vediamo Hölderlin pazzo in manicomio, Keats nel suo tramonto romano, Kleist suicida sulle rive del Wannsee. In lui continuiamo a vedere – come in uno specchio macabro, un maligno incantesimo, storia prima felice poi dolentissima e funesta – la Morte dell’Eroe.