19 gennaio 1921-19 gennaio 2021 / La fortuna di Miss Highsmith
Comunque sia e comunque voglia classificarsi, Patricia Highsmith preferisce la densità kafkiana ai cruciverba reticolari, è estranea al consumo delle ‘cellule grigie’ di Poirot per scovare il colpevole o alla necessità puritana di puntellare una società oscurata dalla devianza. Sia nell’ordinata luminosità delle ambientazioni inglesi che nelle ombrose metropoli sfregiate dal crimine, il suo non è un giallo “passatempo”, ma è atipico, esistenziale, inquieto.
Patricia Highsmith è nata cento anni orsono a Fort Worth, in Texas. Il nome rimanda a romanzi noti, a film tratti dai suoi scritti, alla definizione assegnatale di “regina del crimine” in competizione con scrittrici altrettanto celebri come Agatha Christie. In realtà la sua persona e la sua produzione spiccano per originalità difficilmente classificabile. Innanzitutto la vita e gli scritti sono intimamente legati tra loro e vivono di luce riflessa. Trasferitasi a New York, viene allevata dalla nonna che si prende cura di lei. A scuola mostra talento per l’arte, pittura e scultura, ma la vocazione autentica è scrivere storie. Dopo il college lavora alla sceneggiatura di libri di fumetti, ma deve attendere qualche anno per vedere pubblicato nel 1950 il suo primo libro Sconosciuti su un treno. Quest’esordio introduce uno dei paradigmi dai quali nasceranno i romanzi successivi: due mondi si intersecano e il confine tra normale e anormale sfuma fino quasi a svanire. Il libro sarà notato da Hitchcock, che nel 1951 se ne servirà per Delitto per delitto.
Trascorre una vita appartata e solitaria, lontana dalle luci della ribalta, come segnalano alcune ricostruzioni, una italiana (Margherita Giacobino, Il prezzo del sogno, Mondadori, 2017), altre in lingua inglese (Andrew Wilson, Il talento di Miss Highsmith, Alet, 2010) tradotto per una bizzarria editoriale con lo stesso titolo dell’altra biografia, inedita in italiano, The Talented Miss Highsmith di Joan Shenkar. Nel ’63 si trasferisce definitivamente in Europa dove si isola dal mondo. Trascorre gli ultimi anni quasi reclusa in una casa nella campagna svizzera, nei pressi di Locarno, fino al giorno della morte, avvenuta il 4 febbraio 1995. Donna scorbutica, inquieta, ambiziosa, schiva di gioielli e profumi, esprime un fisico logorato dalla depressione, da complicazioni fisiche quali anoressia, anemia, cancro ai polmoni, difetti cardiaci anche a causa dell’abuso alcool e di una vita sentimentale disordinata. Non rinnega la solitudine, empatizzando con la figura dell’”outsider” con cui si sente di dividere la sorte. Difende strenuamente la sua autodeterminazione, diviene membro attivo dell’associazione Exit impegnata per garantire una morte dignitosa, si avvale dell’aiuto di uno psicoanalista che paga con lo stipendio di commessa in un centro commerciale. Non nasconde l’omosessualità e il rifiuto frontale della sessualità, nè scende a compromessi con la morale perbenista americana che le avrebbe suggerito di sposare ad esempio un uomo per salvare le apparenze. Non esita a segnalare la falsità del sogno americano, “mito di affermazione di sé che valeva per l'uomo, il self-made man, e non per la donna, sempre costretta ad aspettare che fosse un uomo a portarle la felicità sposandola”.
Come ricordato, la Highsmith è nota al grande pubblico come “crime writer”, come romanziera del crimine, ma in realtà, nella letteratura come nella vita, è stata un personaggio anomalo, irregolare, anticonvenzionale, fuori dagli schemi.
La sua produzione (22 romanzi, 8 raccolte di racconti, ora gradualmente ripresentati da La nave di Teseo dopo essere usciti nella quasi integralità da Bompiani: da ultimo Donne, una raccolta di racconti, alcuni dei quali inediti), ha toccato svariati temi, anche se il successo è legato al versante poliziesco. Il suo, in ogni caso e comunque, è stato un poliziesco anomalo. Hanno osservato due noti scrittori attenti al genere (Boileau-Narcejac, Il romanzo poliziesco, Garzanti, 1975), che con lei si esce da quei parametri in quanto “i personaggi interessano per quello che sono e non per quello che fanno. Ci si trova nella linea di confine in quanto si tende a cadere nel romanzo puro, che è conoscenza dell’uomo, mentre il poliziesco è stupore frastornato dinnanzi alle cose’. Sarebbe interessante indugiare sul canone di questo diffuso genere letterario, rinviando ad esempio a studiosi di quel settore (autorevolmente Giuseppe Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, Laterza, 1985) e provare a calarlo sulla produzione della Highsmith. Innanzitutto non manca la classica “suspence”, su cui lei stessa si intrattiene in un manualetto (Suspence. Come si scrive un giallo, Minimum fax, 1998) individuandolo come motore universale della narrazione non solo di genere. Esso è da intendere, osserva la scrittrice, come sospensione del tempo sull’asse orizzontale a fronte di un evento incombente sull’asse verticale dell’esistere. In altre parole questo attributo cela l’istantanea del presente assumendola come precaria, descrive l’attimo della rivelazione che brucia l’esperienza accumulata (Calabrese, Carocci, 2016). Esso nasce dall’ansia e dalle angosce e crea una dimensione artificiale ed autosufficiente, è un’operazione che attende l’evento prima nascosto, che ignora chi è stato ad agire perché lo segnala fin dall’inizio, come i film di Hitchcock mostrano in modo insuperabile.
I poliziotti, i gangster, i medici legali, gli scienziati forensi, gli investigatori muscolari irruenti ed etilisti o quelli finemente raziocinanti le sono estranei. Il suo eroe è l’assassino, non le interessa lo svelamento del mistero ma la personalità del colpevole, come è fatto o sfatto dentro, come un essere ordinario che prende coscienza dei suoi istinti, che si mette in situazioni la cui uscita è solo la violenza omicida. È indifferente al dilemma antico del giusto e dell’ingiusto perché il suo obiettivo è studiare la colpa. Le sue sono storie eretiche prive del lieto fine e della giustizia trionfante in quanto non esiste la salvezza o anche solo rassicurazioni consolatorie, ma solo il male assoluto.
Come è stato osservato, “suggerisce che, in una società in cui la maggior parte delle persone è imprigionata nei meccanismi di organizzazioni e gruppi sociali, i criminali sono potenzialmente liberi. E per questo i suoi eroi sono spesso criminali’” (Julian Symons, Boody murder, from detective story to crime novel, Penguin, 1985). Questa considerazione conduce ad un altro versante della sua produzione, quello del “non crime” apparentemente più lontano dal delitto. Singolare è la sua capacità di esplorare lo sfaccettato universo maschile, consegnando alla storia personaggi forti, presentati e fotografati con lucida introspezione. Non compaiono donne che delinquono, come se solo un desiderio forte come quello dei maschi potesse confrontarsi con la legge. Le donne sono delineate con una leggerezza inconsapevole, neanche vittime salvo nel Diario di Edith, obbligate ad attenersi alle regole imposte dalla società e a identificarsi con uno stereotipo che conduce alla rovina. La donna è portata ad «abitare in un corpo non suo, quello di un uomo fatto di parole, mani grandi, maniche di camicia, sigarette, lunghi passi nella notte. Quello che una donna non può essere né fare, perché non le è consentito Non fatevi dire dalla società che cosa essere e cosa diventare. Restate fedeli a voi stesse, alla vostra diversità e realizzate il vostro sogno anche se qualcuno vi dice “non è consentito”. In questa volontà di andare oltre il consentito, di ritagliarsi uno spazio di indipendenza dai giudizi e dalle convenzioni del tempo risiede gran parte dell’attualità di questa scrittrice.
Le sue storie forniscono quadri sfaccettati di crescenti orrori quotidiani, di ambiguità, di violenza insensata o controllata. Descrivono fotogrammi della famiglia unita, con ambientazioni accurate, eleganti rapporti sociali, mentre all’interno domina frustrazione, infelicità, odio, conformismo. La normalità rassicurante è presunta, ma viene incrinata da eventi spiazzanti, come ad esempio in Acque profonde, Vicolo cieco, Diario di Edith, Alibi di cristallo, Riscatto del cane, La follia delle sirene.
Oppure toccano temi più complessi come l’intolleranza, l’ignoranza che mina il progresso, la follia distruttiva nei confronti del pianeta, la stupidità di chi ha il potere, come in Gente che bussa alla porta, Catastrofi più o meno naturali, Schegge di vetro, Il piacere di Elsie.
Nelle sue pagine alligna anche la follia, silenziosa, irriconoscibile che erode dall’interno le strutture apparentemente solide della vita quotidiana, per poi esplodere. Essa si innesta negli stessi modelli da cui proviene in quanto originata dal conformismo o dalla paura, dall'accettazione passiva dei valori della classe media americana, come tratteggiano La casa nera e Quella dolce follia. In sostanza la Highsmith usa il male, il perturbante, e quindi anche il delitto, per praticare una sorta di incantesimo. La sua forza è nella complicità “malata” con personaggi ambigui, nella fascinazione del malvagio.
Nel contempo aleggia un continuo, impalpabile senso di minaccia incombente sull’esistenza, il peso di un pericolo quasi sospeso come una nuvola maligna. Anche l’angoscia, il malessere, anche la noia, gli equivoci, l’ingiustizia lacerano esistenze tranquille distorcendole con bassezze e compromessi. II buco nero è sempre in agguato perché la realtà si riflette in uno specchio deformato che galleggia sulle sabbie mobili dell’angoscia e tra le strutture dell’ossessione. Mentre l’autrice tesse le sue meticolose ragnatele e segue il dibattersi delle mosche, cioè degli esseri umani, così come dei suoi protagonisti che sembrano usciti da un universo fantastico per entrare nella realtà sorda.
Il tutto senza indulgere in efferate e gratuite scene di violenza, senza spargimenti di sangue o effetti drammatici sensazionali pur utilizzando l’ampia gamma del realismo per descrivere la devianza, non esimendosi dal puntare il dito sulla crudeltà, comprese storie vendicative verso animali (Delitti bestiali, Bompiani, 2000). E queste storie sono tanto perfette da essere classificate come ‘disgrazie’, cioè confinate nell’angolo in cui si rintanano i miracoli alla rovescia, gli inciampi della vita, in sostanza quello che non si comprende e giustifica.
Il lettore è portato a concludere con una constatazione: ogni cosa, sia essa equilibrio di cose e persone, intreccio di pensieri e di gesti, successione di inseguimenti, succedersi di desideri è condizionata dalla situazione che la regge. Anche nelle relazioni umane, come in fisica e biologia, gli elementi interagiscono tra loro e nella zona poco illuminata del cervello giocano ruoli importanti elementi inafferrabili distribuiti in un’intelaiatura nascosta.
In questo scenario, dal ritmo incalzante della narrazione e dall’ approfondimento psicologico dei protagonisti, non meraviglia che si sia dilatato il successo ed anche che dai libri siano stati tratti molti film. Nel lontano 1982, in occasione del non dimenticato “Mysfest Festival del Giallo”, che si svolgeva a Cattolica, le fu dedicata rassegna (“Patricia Highsmith amica americana”), con i contributi pubblicati nella rivista "Star" (n.1, luglio 1982, Cattolica); e furono esaminate le pellicole tratte dai suoi romanzi. Si comincia, come si è detto, con Delitto per delitto di Hitchcock, tratto da Sconosciuti in treno. La vicenda riguarda uno strano incontro in treno tra Guy, che vuol divorziare dalla moglie per risposarsi, e Bruno, che odia suo padre. Bruno si offre come killer a Guy, perché costui gli ricambi la cortesia in modo da non essere così scoperti.
Nel 1963, diretto da Claude Autant-Lara, esce L’omicida, riproposto nel 2016 con il titolo del romanzo, Vicolo cieco, e la regia di Andy Goddard. È la storia di un certo Stackhouse che sembra avere tutto fino a quando non viene trovato il corpo della moglie sul fondo della scogliere – sospettato fugge. Nel 1977 esce Gli aquiloni non muoiono in cielo del francese Miller tratto da Quella dolce follia. È la storia di un giovane chimico educato, di avvenire, brillante, innamorato di Annabelle che lo rifiuta e gli preferisce un’insipida figura. Allora il chimico si inventa una realtà fittizia, da sposato felice, acquista una casa sotto falso nome fuori città, intavola conversazioni immaginarie con una moglie inesistente e continua a scrivere ad Annabelle senza ricevere risposta. Cresce la degenerazione, le speranze infondate si trasformano in certezze deliranti e scoppia la tragedia attesa dal lettore. Tutto è scritto all’inizio e la vicenda si svolge secondo le sue premesse.
Nel 1978 è nelle sale Alibi di cristallo di Hans Geissendofern, tratto dal romanzo omonimo. Un architetto sconta cinque anni di carcere per un reato commesso dal suo imprenditore Lasky. All'uscita dalla prigione, l'impatto con il mondo esterno riserva all'architetto molte sorprese, dalle difficoltà del reinserimento sociale a quelle sentimentali allorché scopre che la moglie ha avuto una relazione con l'avvocato che lo ha difeso al processo. Così, quando le circostanze stanno per riabilitarlo professionalmente, sfrutta una serie di occasioni e uccide prima l'avvocato, poi lo stesso Lasky. Potrebbe essere la fine, ma la moglie, consapevole del dramma vissuto dal marito, gli fornisce un alibi che gli consente di ritornare alla vita e alla famiglia.
Sul finire del 1981, a firma di Michel Deville, esce in Francia Acque profonde, tratto dal romanzo omonimo: protagonista, un marito che permette alla moglie, entrambi legati da un rapporto senza amore, di avere relazioni per non giungere al divorzio e diventa un sospettato della scomparsa degli amanti. Il diario di Edith è del 1983, ancora ad opera del tedesco Geissendorfer e descrive una donna forte, allegra che cova però un oscuro male, nientemeno che l’anticamera della follia, che la porta al divorzio. Il grido del gufo di Claude Chabrol, del 1987, come Il grido della civetta di Jamie Thraves del 2009, è tratto dal romanzo omonimo del 1962. Jenny si innamora di un uomo psichicamente instabile, che nel tempo libero spia le persone. Costui nel frattempo è affascinato dal carattere di questa donna, in netto contrasto con quello della sua ex-moglie che spesso lo rendeva ansioso. La ragazza decide così di lasciare il suo fidanzato per iniziare una relazione con il giovane. Il fidanzato però decide di vendicarsi e rintraccia l’aspirante amante della moglie.
Il romanzo I due volti di gennaio viene trasferito una prima volta sullo schermo nel 1986, dalla coppia Wolfgang Storch-Gabriela Zerhau; e nel 2014 da Hossein Amini. Ad Atene una coppia di turisti americani, Colette e Chester, incrocia casualmente un giovane americano in polemica con la famiglia, occupato a fare la guida turistica e a spennare da buon imbroglione i connazionali che si affidano a lui. Anche Chester però ha lati oscuri tanto da subire la visita in camera di un detective privato. Minacciandolo con la pistola il detective gli ordina la restituzione dei soldi persi dagli investitori malavitosi che si erano fidati di lui. Ne nasce una colluttazione che culmina con la morte del detective per un colpo alla testa. In quel momento arriva il giovane americano cui viene chiesto aiuto dal connazionale per scappare con la moglie all’estero. Basato su un crimine, il legame che nasce tra i tre si complica ulteriormente.
Carol di Todd Haynes, del 2015, è un vistoso successo di pubblico. Therese è una giovane impiegata in un grande magazzino. Pur corteggiata ha occhi solo per una cliente distinta, Carol. Dopo un guanto dimenticato e un trenino acquistato Carol e Therese siedono in un caffè. Carol ha un marito da cui vuole divorziare e una bambina che vuole allevare, Therese un pretendente incalzante e un portafoglio di irrobustire. Congelate dalle rigorose convenzioni dell'epoca, Carol e Therese viaggiano verso Ovest e una nuova frontiera, che le scoprirà appassionate e innamorate.
L’interesse maggiore però è stato suscitato dal personaggio di Tom Ripley, sviluppato in ben cinque romanzi (Il talento di Ripley del 1955, Sepolto vivo del 1970, Il gioco di Ripley del 1974, Il ragazzo di Ripley del 1980, Ripley sott’acqua del 1991) e in altrettante pellicole.
Da Il gioco di Ripley è nato L'Amico americano (1977) di Wim Wenders. Un poveraccio con pochi mesi di vita si lascia convincere dal losco, tormentato ed alcolizzato Ripley a uccidere un uomo nella metropolitana di Parigi. In seguito però i due dovranno affrontare la banda che non vuole stare ai patti. Il romanzo viene ripreso da Liliana Cavani, che nel 2002 fornisce una nuova versione in cui Ripley compare come raffinato e crudele trafficante di opere d’arte. Concluso un affare vantaggioso, si ritira nella sua villa in Veneto e viene raggiunto dal suo ex braccio destro che chiede aiuto per eliminare dei potenti rivali slavi. Ripley non vuole entrare in gioco in prima persona, ma vuole mettere alla prova l'onestà di fondo di un corniciaio che non lo stima. È sicuro che costui, gravemente ammalato, cederà dinanzi alla prospettiva di forti guadagni e si trasformerà in killer.
Da Il talento di Ripley sono stati tratti invece Delitto in pieno sole (1959) di René Clement e Il talento di mr. Ripley (1999) di Anthony Minghella. Nel primo, Tom Ripley raggiunge in Italia il suo amico Philippe: la bella vita e la presenza di una seducente amica stuzzicano i suoi desideri criminali. Architetta un piano per impossessarsi della donna e del denaro del suo compagno dopo averlo assassinato. Quando crederà di averla fatta franca, verrà sorpreso smascherato. Nel secondo, Tom è invece un ragazzo di 26 anni dal passato frustrante e dall'incerto avvenire, che vive di piccole truffe e sfrutta l'altrui ospitalità. Uccide senza troppi problemi il giovane miliardario di cui è divenuto amico perché vuole sostituirsi a lui, al suo modo di vivere, appropriandosi così della sua identità. Da questo primo delitto, in parte passionale e in parte stimolato dal senso di invidia e arrivismo, comincia una vita di sotterfugi, inganni, omicidi. Sono omicidi non premeditati, spesso a danno di losche figure di delinquenti, compiuti per legittima difesa o reazione nervosa o esasperazione e senso di impotenza.
Dal romanzo Sepolto vivo, infine, il regista Roger Spottiswoode ricava nel 2005 una pellicola dallo stesso titolo. I responsabili di una truffa nel mondo dell'arte sono Tom Ripley, un uomo di mondo disposto a tutto pur di arricchirsi, e il pittore Bernard dedito alla falsificazione. L'affare funziona fino a quando un collezionista non intuisce l'inganno e minaccia di andare alla polizia. Tom Ripley è allora costretto ad assumere altre sembianze ed assicurare che le opere sono autentiche.
Ci si può interrogare su questa nutrita produzione di romanzi e film sul personaggio Ripley e la risposta è agevole. Ripley, nelle sue varie declinazioni, rappresenta l’emblema della poetica della Highsmith. È un personaggio tragico, amorale, senza rimorso, attratto dal male dal quale alla fine sarà sconfitto, un antieroe che mette a disagio. Il tipo ideale dell’autrice è Alain Delon protagonista di In pieno sole. Egli riassume le ambiguità, l’eros, la complessità, la tenebrosità, le follie e le asprezze dei due assassini di Sconosciuti in treno.
Non è un vero "cattivo", aspira alla tranquillità e in fondo ha un bisogno d'affetto e stabilità. Ma è pur sempre un assassino, perdipiù talora per denaro. È un lestofante snob che teme di trovarsi privato delle proprie ricchezze e degli “status symbol”, pronto per questo a sacrificare la vita degli altri. L’ansia di possesso in lui sostituisce l'impulso erotico, anche perché è in realtà un asessuato. Attratto dagli uomini, non li desidera veramente; è innamorato della moglie ma con un affetto basato sul reciproco senso di protezione, senza passione, con estemporanei e poco convinti rapporti sessuali.
La Highsmith non è la regina del giallo, ma una signora che con perfidia gioca con la “psiche” dei suoi assassini. Anche per questo secondo Graham Greene “ci troviamo davanti a una scrittrice i cui libri si possono rileggere mille volte, il che non è cosa comune. E questo perché sa portarci dentro il suo mondo claustrofobico ed ossessivo e irrazionale, e pure così vicino nel quale entriamo ogni volta con una sensazione di personale pericolo.” (Prefazione a Urla d’amore, Nave di Teseo, 2020).