Le fabbricanti di storie
È successo in anni che somigliano a questi. Allora come ora, c’era una guerra in corso (il Vietnam), campus in rivolta, un governo fragile che procedeva d’autorità, la sensazione diffusa che fossero le masse fin lì silenziose a doversi muovere. Questa è la vitalissima cornice in cui prende forma anche una rivoluzione culturale non molto nota, eppure significativa. Essa riguarda un genere ritenuto troppo popolare per interessare la critica letteraria, e che tuttavia assume presto un’importanza sociale e politica rilevante. Nata maschile e cresciuta a colpi di imperialismo galattico negli anni ’40 – il Golden Age dei romanzi che ne hanno segnato il corredo genetico – la fantascienza imbocca tra gli anni ’60 e ’70 un percorso diverso e si apre con considerevole naturalezza, anche se non senza battaglie, a scritture che rappresentano identità marginali e che rivendicano un impegno sociale e politico inedito. È a questo snodo che compaiono le donne: poche ancora, ma determinate e agguerrite. U.K. Le Guin, J. Russ, V. Mc Intyre , Alice Sheldon (aka J. Tiptree Jr.), O. Butler e altre ancora si propongono proprio come fabbricanti di storie che ambiscono a cambiare il mondo. Nella ricchissima indagine critica di Laura Coci (Fantascienza. Un genere femminile, 2023), esse compaiono come e si misurano contro un orizzonte internazionale che trova una tessitura comune nel risoluto ricollocamento della fantascienza nella traccia primaria dell’utopia: un immaginario sociale nel quale la scienza ha un ruolo, ma funzionalmente all’analisi del nostro stare nel mondo.
Il dato che mi interessa qui è, soprattutto, il coefficiente di consapevolezza della potenza delle storie che queste scrittrici dimostrano. Lo si può riassumere nello smilzo, prezioso intervento di U.K. Le Guin, ora pubblicato in ben due traduzioni italiane (quella più nota di Veronica Raimo in I sogni spiegano da soli, ma anche quella di Antonia Anna Ferrante in Cosa può un compost) e intitolato all’origine The Carrier-Bag Theory of Fiction (1986). Nelle poche pagine di questo contributo, la scrittrice riassume l’origine della specie spiegando che siamo quel che siamo perché da quando noi si viveva nelle capanne, le sole storie che sono state raccontate sono state quelle di caccia e di eroismo muscolare. Già allora, gli uomini partivano a procurare carne, uccidevano i mammuth in una qualche lotta epica, e tornavano coperti di sangue e carichi di cibo. Però, scrive Le Guin, non era il cibo a essere davvero interessante: piuttosto, lo erano le storie. Esse hanno modellato progressivamente una cultura in cui la modalità unica di relazione con quello che ci disturba, non ci somiglia, ci inquieta, ci mette in discussione è la lotta epica. Come quella coi Mammuth. Si vince o si muore, ancora oggi, nel mondo reale: il negoziato è una paloma bianca alla quale hanno sparato da tempo. Forse, se a diffondersi fossero state storie di cura, semina, germinazione e ricomposizione avremmo un mondo diverso, abiteremmo un pianeta con un futuro ancora pensabile, e, insomma, l’industria delle armi non sarebbe così fiorente e la vita di relazione non parrebbe così aggressiva. In sintesi, abitiamo il mondo che abbiamo immaginato e diffuso e trasmesso di generazione in generazione attraverso le “master narratives” che ci è stato insegnato a considerare vincenti.
In un volume in uscita negli USA a Luglio 2024, Annalee Newitz – scrittrice di fantascienza e attivista – affronta la questione di come la disinformazione, la propaganda e la pressione psicologica possano diventare armi molto efficaci e funzionare meglio di pistole, fucili e carri armati. Stories are weapons promette già dal titolo di essere un discorso politico tanto quanto quello di Le Guin. E quando dico politico mi riferisco a quello che la politica dovrebbe essere: una azione orientata al bene della comunità. Da fabbricante di storie e lungo l’asse ereditario di altre scrittrici di fantascienza degli anni ’70, Newitz appartiene alla generazione più popolare, premiata e venduta di donne esponenti di un genere letterario che, nella testa di accademici, intellettuali e spesso editori, fatica a emanciparsi: ma emanciparsi da cosa? Dalla consapevolezza che le storie possono cambiare il mondo? Curioso che noi si esiti ancora a crederlo: dopotutto, siamo vittime consenzienti dello storytelling di molta politica, perciò dovremmo quanto meno essere consapevoli del fatto che ciò che accade non dipende dagli eventi reali ma da come essi vengono narrati.
Durante la prima campagna elettorale di Trump, la sua collaboratrice Kellyanne Conway lo difende asserendo che le sue non sono bugie ma “alternative facts” e subito dopo l’Oregonian pubblica una lettera nella quale si corrobora questa tesi sostenendo che i “fatti alternativi” non solo sono necessari nella politica ma rappresentano l’espediente primario di un genere letterario: la fantascienza. Le Guin non si lascia sfuggire l’occasione per una rettifica. Essa suona più o meno così: noi narratori inventiamo storie; alcune sono chiaramente immaginarie, altre realistiche, ma nessuna di esse è reale. Le chiamiamo storie perché non sono fatti. Può succedere che noi le si definisca “storia alternativa” o “universo alternativo”, ma mai e poi mai descriveremmo le nostre storie come “fatti alternativi”. Persino quando si trova, ormai più che ottantenne, a essere spettatrice di una delle più tragicomiche campagne elettorali della storia presidenziale americana, Le Guin rivendica un mandato sociale che trova nella fabbricazione di storie il senso e il ruolo della scrittura nella comunità. E la scrittura ha da essere talentuosa e curata: deve rivelare una voce che entri a tutti gli effetti nella definizione di letteratura.
Joanna Russ, autrice molto schierata e accademica di pregio, pubblica nel 1983 un pamphlet che dimostra come non vi sia di fatto distanza tra scrittrici del canone come Jane Austen, V. Woolf, o Emily Dickinson, e le molte donne che progressivamente si sono avvicinate al genere fantascienza, con o senza la consapevolezza di farlo, ma sempre sapendo con certezza di dover fornire una prova eccellente. Essere abbattute dal fuoco, amico e non, era – ed è – una possibilità concreta. Per questo, in How to Suppress Women Writing, Russ ricostruisce una genealogia di fabbricanti di storie e sceglie come criterio organizzativo una lista di “divieti” imposti alle donne scrittrici dalle origini stessa della letteratura in lingua inglese. Va notato come i divieti indicati da Russ siano per la maggior parte ancora attivi oggi. Lo erano per certo negli anni in cui scriveva Russ, che non esita a costruire un ponte con la genealogia delle donne quando apre il suo scritto con un omaggio a Virginia Woolf e al suo Three Guineas (1938; Le tre ghinee).
Tra i divieti elencati da Russ, ce n’è uno che si chiama “Denial of agency”: l’affermazione che un certo testo, per le caratteristiche che ha, non possa essere stato scritto da una donna, evidentemente perché, come ancora si dice, le donne sono capaci di dedicarsi soltanto a storie sentimentali. Esempi che confutano questo principio ne abbiamo, ma uno su tutti risulta pertinente al mio discorso qui. Si tratta della vicenda di Alice Sheldon, scrittrice prodigiosa di racconti (a breve disponibili anche nella traduzione italiana, per Mondadori, del collettaneo Her Smoke Rose Up Forever) e protagonista della più utile e istruttiva beffa editoriale degli anni ’70. Conosciuta col nom de plume di James Tiptree Jr., Sheldon si raduna intorno un pubblico ignaro e ottiene riconoscimenti prestigiosi, scatenando scommesse sulla sua identità che finiscono per coinvolgere anche critici di una certa rilevanza. Robert Silverberg, profilo popolarissimo e di autorevolezza riconosciuta nella fantascienza dell’epoca, analizza i racconti e ne conclude che non possono essere stati scritti da una donna. Dopo la rivelazione della vera identità della scrittrice, si trova costretto da ammettere, suo malgrado, di essersi sbagliato: “She fooled me beutifully”, dichiara lui stesso. Naturalmente, la splendida presa in giro funziona perché Sheldon è scrittrice talentuosa di un genere (sessuale) insolito in un genere (letterario) poco canonico. Questo non le impedisce di trattare temi sociali delicatissimi – dal disastro climatico al femminicidio, dal bullismo professionale contro le donne alle prospettive pacifiste di una società solo femminile, dalla pulsione imperialista ai processi di affermazione di una società autoritaria e via dicendo – scegliendo una cifra stilistica in nulla distinguibile per cura e voce da quella che chiamano letteratura mainstream.
Quest’ultimo è un nodo importante, che torna a saltar fuori nella critica letteraria di oggi. Le storie di fantasia sono meno degne di quelle realistiche (e per questo, sempre si dice, le scrivono le donne). Le storie di fantascienza sono le meno degne di tutte (soprattutto quando le scrivono le donne che non sanno nulla di scienza). In quest’ultima affermazione, c’è prima di tutto un vulnus storico: certo, è vero che la definizione di scientific romance, l’antenata più prossima dell’etichetta science fiction, è stata applicata per la prima volta, a fine Ottocento, ai romanzi di H.G. Wells, un uomo. Forse però bisognerebbe ricordarsi che prima di lui c’è stata Mary Shelley, e che dunque le prime vere narrazioni precorritrici di quella che oggi, in mancanza di definizioni migliori, chiamiamo “fantascienza” sono firmate da una donna, che si fa venire in mente la prima creatura creata in laboratorio (Frankenstein, 1818) e pure la prima catastrofe climatica che stermina il genere umano (The Last Man, 1826).
Un secondo vulnus è, per così dire, definitorio. Come si diceva, prima di chiamarsi fantascienza, la fantascienza si chiamava scientific romance. “Romance” non sta per “romantico”, ma per “storia basata sull’immaginazione” (in opposizione al “novel”, che sta per romanzo borghese, o realistico). Questo per attenerci alle definizioni critiche correnti. Il coefficiente immaginifico – già evocato da Le Guin – rimane definitorio anche nelle etichette successive che si applicano a una specifica tipologia di storie, il cui aggancio al reale – seppure sempre esistente – è mediato e contrappuntistico, con una tensione specifica verso la visione piuttosto che verso la mimesi. È nota l’affettuosa ma agguerrita discussione tra U. K. Le Guin e Margaret Atwood in occasione dell’uscita di The Year of The Flood (2009; L’anno del diluvio, 2010)). Le due scrittrici erano amiche, avevano frequentato entrambe – seppure a qualche anno di distanza – il Radcliffe College a Harvard per poi diventare scrittrici ed erano abituate a confrontarsi. Sicché quando Le Guin definì il romanzo di Atwood come assolutamente fantascientifico, in una sua recensione pubblicata su The Guardian nel 2009, lo fece con la consapevolezza che Atwood aveva escluso l’applicabilità di questa etichetta ai suoi scritti (in Moving Targets: Writing with Intent. 1982-2004, 2004) e aveva indicato con precisone la ragione per cui essi erano “speculative fiction”, scegliendo una definizione ritenuta più “nobile” e ammissibile nel mainstream. Le argomentazioni che fornì erano fragilissime e più avanti Atwood stessa in qualche modo le ritrattò (in In Other Worlds: Science Fiction and Human Imagination, 2011). Ma il dibattito è interessante e definisce due diversi posizionamenti: uno spaventato di fronte alle dichiarazioni di appartenenza a un genere ritenuto “poco letterario” (quello di Atwood, ma per quel che vale, anche del primo K. Vonnegut Jr.) e uno orgogliosamente fiero di scrivere letteratura dentro l’alveo dell’immaginazione fantascientifica. Le Guin si incaponisce nella sua adesione a una etichetta piuttosto che a un’altra per una ragione che trovo significativa ancora oggi e che io stessa rivendico: arrendersi a una denominazione diversa significa dichiarare la sconfitta di ogni tentativo di legittimare la fantascienza come genere letterario.
Il ritardo con cui alcune opere fondamentali nella fantascienza femminista (e non solo lì) sono state pubblicate in Italia è forse un sintomo interessante della condizione in cui versa questo genere letterario nel contesto italiano. Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne esce oggi (2021) in edizione italiana e grazie al lavoro di una piccola casa editrice e di due ottime traduttrici (Dafne Calgari e Chiara Reali): dunque, circa 40 anni dopo la pubblicazione originaria. Ursula Le Guin e Octavia Butler sono state entrambe pubblicate da poco nel contesto di case editrici solide e affermate, in collane non specializzate: un indizio di astuzia editoriale che si replica anche per autori italiani (se è fantascienza, meglio non dichiararlo). Anna (2015), di N. Ammanniti, non è “fantascienza”, ma distopia, o comunque una narrazione nel tracciato primario di Cormac McCarthy: che certo, si dice, non è fantascienza. E Claudia Durastanti, scrittrice di talento evidente e con una sua voce del tutto riconoscibile, ha appena integrato, nel suo coraggiosissimo Missitalia, una sezione che senza dubbio eredita topoi fantascientifici: però mi pare che fin qui questo aggettivo non sia apparso in nessuna recensione.
Insomma, in Italia la fantascienza auto-definita come tale è ancora un inciampo rilevante per chi scrive, soprattutto se donna. Non ricordo che un romanzo di fantascienza sia stato tra i finalisti di un premio letterario importante (a meno che l’autore non avesse già un nome di suo e non evitasse di definire il suo romanzo con “l’etichetta maledetta”). E mi pare preoccupante la totale scomparsa del genere da ricognizioni importanti. Solo per citare l’esempio più recente tra le mie letture, ho adorato il pezzo di Chiara Fenoglio sul romance, l’ho trovato interessante, documentato e intelligente; ma non vi è menzione di quello che in questo momento stanno scrivendo diverse fabbricanti di storie italiane dentro il genere fantascientifico.
In generale, insomma, la sensazione prevalente, soprattutto rispetto a una penna italiana, è che riconoscere il debito formulaico a un “sottogenere” svaluti il testo, relegandolo in una nicchia in cui non si può che scrivere male storie brutte. Non si contano le occasioni in cui, soprattutto all’inizio della mia modesta ma lunga carriera di scrittrice, un editore ha commentato un mio manoscritto dicendo: “il romanzo è bello, ma troppo letterario”. Ancora più numerose sono state le occasioni in cui l’idea di un romanzo di fantascienza è stata rifiutata per assunto, senza avere idea di che cosa fosse. Donna Haraway, nel suo Staying with the trouble. Making Kin in the Chthulucene (2016; Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, 2019), propone una serie di “scioglimenti” possibili dell’acronimo “sf”, che è non solo “science fiction”, ma anche “speculative fabulation, string figures, speculative feminism, science fact, so far”. Forse sarebbe bene che noi fabbricanti di storie fantascientifiche ci scegliessimo un equivalente più nobile all’acronimo che ci rappresenta. Oppure varrebbe la pena di restare quello che siamo, ovvero invisibili. Ci sono vantaggi nell’invisibilità: nella maggior parte dei casi– come accade in The Handmaid’s Tale/la serie – si organizzano fuga e rivolta con maggiore tranquillità e in anarchica, pacifica libertà, di parole e di storie.
In copertina, opera di Cornelius Dämmrich.