Filosofia del cibo / Massimo Donà fra saperi e sapori
Cosa dire, ancora, del cibo? L’oceano di trasmissioni televisive (documentari, serie, game e reality show, servizi del tg…), film, supplementi di giornale, giornali interi, fiere e fest vari, esposizioni internazionali, parchi a tema, negozi e supermercati gourmet, salumai in vena di chiacchiera, cene fra amici e convivialità relative, blog siti e social, corsi di degustazione di vini olii formaggi caffè cetriolini sottaceto e pasticcini, ricettari cartacei e tutorial in rete, app sullo smartphone, libri, convegni, seminari e chissà quant’altro dovrebbe averci detto ormai tutto su cucina e alimentazione, buona tavola e cantine al top, gusti e disgusti. Una specie di abbuffata di discorsi, una sbornia di parole sembra spingerci tutti, e inesorabilmente, verso un agognato silenzio nei confronti di quel fatto sociale totale che è il cibo.
Ed ecco spuntare sopracciglia aggrottate, sospiri di noia, sbadigli o risatine varie ogni qualvolta si provi a riprendere l’abusato argomento del food (detto in inglese vorrebbe prendere valore), e mettere a tema – come s’usa dire oggi – il valore antropologico della cucina, il peso troppo umano di un’alimentazione che, dribblata sperabilmente la fame, inizia a parlare di noi, del mondo in cui siamo gettati, della collettività che ci trattiene, della storia che ci ha portato fin qua, della cultura che ci forgia. Ma più che spuntare sarebbe meglio dire rispuntare, perché l’indifferenza intellettuale, per non dire il rifiuto snobistico, nei confronti della dimensione enogastronomica (espressione assai più inclusiva che non ‘il cibo’ in sé) è vecchia come il platonismo; un evergreen che, attraversando la storia del pensiero occidentale, resiste più granitico che mai. E si bea anzi delle mode gastromaniache passate di moda – come se le mode, per quanto socialmente rilevanti, esaurissero d’ufficio la riflessione concettuale, l'apprensione interpretativa. Una specie di doppio salto mortale: da una parte si afferma che si parla tanto di cibo solo perché è di moda; ma poi, passata la moda, si riafferma che non si può più parlare del cibo perché è passato di moda. Uff: un facile sofisma.
Distaccandosi un po’ da questo bailamme, sembra che sia il caso di rilassarsi un po’, dando a Cesare quel che gli tocca e trattenendo però tutto il resto. Come dire che la questione dell’umana alimentazione è troppo importante – individualmente e collettivamente – per lasciarla pascolare nell’isterico mondo dei media; mondo che è per noi un oggetto di indagine piuttosto che uno spazio etnico entro cui lasciarsi trasportare alla bisogna (o da cui distaccarsi aprioristicamente). Passata l’ondata gastromaniaca, possiamo pensare al cibo con pazienza e necessità. Da qui la recentissima collezione editoriale “Sapio. Cibo, conoscenza, filosofia” diretta da Nicola Perullo per ETS di Pisa, che intende ripulire il terreno epistemologico riguardante l’enogastronomia e ripartire non da zero (per carità) ma dai fondamentali in merito. “Da una parte – leggiamo nel testo di presentazione della collana – il cibo è un prisma di significati che sollecita l’interrogazione filosofica: il cosa e il come, il singolare e il molteplice, la mente e il corpo, il piacere e la conoscenza, la sofferenza e l’indifferenza, il passato, il presente e il futuro”.
Però, “dall’altra parte, il cibo, per le sue proprie caratteristiche, si presta a una disponibilità trasversale non sempre all’altezza delle profondità che merita, e che talvolta lo ricopre di banalizzazione, retorica e ideologia”. Così, rifuggendo ogni semplificazione, senza per questo cadere nell’inutile esoterismo di certa filosofia, non si tratta di parlare del cibo con cipiglio razionalista, ma di pensare attraverso il cibo stesso e le sue stratificazioni materiali e ideali. Da un lato (dopo millenni di censura), includendolo fra gli argomenti filosofici pertinenti; dall’altro (proprio per questo) indirizzando la riflessione filosofica nella sua generalità verso un concomitante recupero della corporeità e della storicità, di una soggettività che, alimentandosi, va oltre i propri bisogni fisiologici per farsi un attore sociale che mai perde la propria fenomenologica singolarità. Mangiare è ingerire segni, costruire relazioni col mondo delle sostanze trasformate, ma anche tessere rapporti con la collettività che lo trasforma, indirizzandolo verso “tutte le espressioni della vita”.
Il primo volume della collana è, esemplarmente, di Massimo Donà, pensatore che da parecchio tempo dedica la propria riflessione intellettuale al mondo del cibo e soprattutto del vino, annaffiando la teoresi del nettare di Bacco e, insieme, nutrendo la concettualizzazione coi cascami della corporeità. Sapere il sapore (pp. 157, € 15), libro dal titolo vagamente barthesiano, si apre non a caso convocando Rabelais, il cui celebre romanzo, Gargantua e Pantagruel, è interamente permeato da una dimensione alimentare che trascende la sfera del bisogno per farsi, anzi, spreco, sregolatezza, trasgressione, eccesso. L’universo immaginario – e perciò effettuale – di Rabelais è, come ci ha insegnato Bachtin e discusso Camporesi, quello del corpo nella sua interezza, complessità e contraddittorietà, con piaceri e dispiaceri, voluttà e deiezioni. Se si tratta di un mondo alla rovescia, è perché tale mondo è travolto dal flusso esasperato di un corpo che si dà nella sua pienezza, che si esprime mediante tutte le proprie funzioni, laddove il mangiare è solo una di esse, e che di esse (vomitare, pisciare, defecare, eiaculare…) ha comunque bisogno per dotarsi di un senso e di un valore.
È così che “il godimento della vita non viene lasciato al proprio destino dalla prosopopea di un’argomentazione e di una speculazione troppo spesso vuote e irredimibilmente astratte. Ma diventa piuttosto esso medesimo discorso, narrazione, esaltazione, inno a una vita concepita nella sua infinita metamorficità. Ma anche rivelazione, denuncia e ironica o grottesca messa in scena”. Rabelais ritrova in tal modo quell’impettito magistrato della provincia francese che fu Anthelme Brillat-Savarin, l’autore dell’ottocentesca Fisiologia del gusto dove ci si chiede, serissimamente, cosa sarebbe successo alla specie umana se, al posto di una banale mela, Adamo avesse trovato nel paradiso terrestre un tacchino tartufato…
Il mondo del cibo e del vino, secondo Massimo Donà, si dice in molti modi, esattamente come l’essere per Aristotele. Che non è poco: sia per il riferimento all'essenzialità metafisica per eccellenza, sia per l’accostamento al linguaggio che coi suoi potenti mezzi si diverte a esprimerla. Tutto e tutti, per destino, possono parlare del cibo, e questo, secondo Donà, non è necessariamente un bene. Fra questi infiniti modi per dirlo, due – opposti fra loro – sembrano emergere. Il primo è un modo meccanico, legato non solo alle necessità biologiche della nutrizione ma soprattutto alle istituzioni discorsive che vogliono irreggimentarle, regolando a monte ogni piacere sensoriale e stabilendo ricette sedicenti corrette e comportamenti a tavola degni del miglior galateo. Il secondo è il modo della singolarità irripetibile, che rifugge ogni omologazione aprendosi all’invenzione, all’inaspettato, all’imprevisto, all’avventura della crapula intelligente che mal di cela dietro ogni seriosa degustazione. L’esempio più ovvio, in proposito, è quello del vino, che, spiega Donà riprendendo Mario Soldati, rifugge da ogni universalizzazione, da qualsiasi tentativo di omologazione, tanto concettuale quanto materiale. Il vino è assoluta singolarità: dirlo in modo meccanico (per es. in termini industriali) significa annientarne le migliori proprietà sensibili.
Inutile dire dove penda l’interesse, pienamente desiderante, del nostro filosofo. E inutile dire quale sia il nemico giurato di quest’inno all’eccellenza sregolata che costituisce l’atto del mangiare. Senz’ombra di dubbio si tratta dell’attuale discorso mainstream sull’enogastronomia, troppo spesso rinchiuso nei meandri rassicuranti di una tradizione sempre uguale a se stessa, nell’invocazione pletorica di un’identità locale che sa troppo di etnocentrismo. L’identità, a ben vedere, non è altro che l’esito sociologico del sogno di universalizzazione tipico del pensiero occidentale, incubo più che sogno perché, per realizzarsi, dovrebbe riuscire a cancellare ogni differenza non specifica ma individuale, ogni singolarità appunto. Certo, Donà ripete a più riprese che cibo e vino sono portatori di significati culturali, di modi di pensare e agire storicamente determinati. Ma insiste comunque sul fatto che questo carattere immateriale del cibo non eliminerà mai la sua sostanzialità, il suo farsi carne prima ancora che corpo, interiora prima che interiorità.
Da qui un essenziale chiarimento circa la celeberrima affermazione di Ludwig Feuerbach (anche troppo ripresa negli ultimi anni) secondo cui l’uomo è ciò che mangia. Certo, da allievo ribelle di Hegel, Feuerbach pigiava il pedale del riduzionismo anti-idealista, insistendo sul carattere biologico, fisiologico, somatico di ogni soggettività troppo umana. Ma, spiega Donà, ciò non significa appiattire l’uomo all’animale, all’essere vivente qualsiasi che ha come unico e ultimo scopo quello di nutrirsi per sopravvivere. Per l’uomo di gusto, infatti, nutrirsi è sempre distinguere, scegliere, conoscere e godere. L’uomo è ciò che mangia, dice Donà, ma mangia quel che è: “mangiamo sempre in relazione a quello che siamo, in quanto esseri umani, ossia in quanto animali dotati di logos”.
Ed è qui che la riflessione filosofica, senza abbandonare la sfera della teoresi, diviene intervento critico sul presente, per non dire invito all’adattamento esistenziale di ciascuno di noi. Da un lato la presa di parola del pensatore intorno al cibo e al vino, come s’è detto, ibrida soggetto e oggetto, trasformando mutualmente il pensare e il mangiare, e corroborandoli a vicenda. Pensare al vino è pensare con il vino, modificare prospettiva teorica (universalizzante) a partire dalle prerogative (singolari) di questa sostanza odorosa che non a caso, per Ernst Hemingway, è l’invenzione più riuscita della civiltà umana. D’altro canto, grazie a tale ibridazione, l’assunzione filosofica, mira in primo luogo a non banalizzare, a bocciare le idee ricevute che, circolando all’impazzata, perdono dell’atto del cibarsi la sua verità più profonda: ossia, molto semplicemente, l’incorporazione dell’alterità, questione su cui antropologi e psicanalisti si sono a lungo interrogati. Io sono ciò che sono perché mangio; il mio corpo è fatto di ciò che penetra al suo interno e che, sino a poco prima, stava fuori di esso, era altro da me.
Mangiare è trasformare l’altro nello stesso, ma dice, Donà, senza mai poter mai negare del tutto la sua estraneità a me medesimo. Di modo che io sono l’altro che è in me, io sono un altro (!), un altro che trasformo senza sosta. Le nostre deiezioni, da questo punto di vista, sono l’esito conclusivo dell’atto del nutrirsi, quel che resta di questa trasformazione naturale del cibo che è la digestione. Un enigma, un paradosso, un chiasma fondatore di ogni simbologia alimentare. Rabelais mica scherzava.