Umberto Eco, giovane romanziere
Il più grave dolore della mia vita, ha scritto una volta (o forse più d’una) Gesualdo Bufalino, mi è stato procurato dalla morte di Ivan Ilich. Sì, proprio lui, il personaggio di Tolstoj che, dopo sofferenze atroci e infinite spira, se pur circondato da parenti e servitù, in estrema solitudine. Motto di spirito, provocazione, voglia di stupire, stravaganza? Forse tutte queste cose insieme, forse di più: capacità di prendere sul serio la letteratura, di saper vivere fino in fondo entro i mondi che essa, se ben fatta, sa inventare, producendo un universo in parte dipendente dal mondo della nostra esperienza quotidiana e sociale, altre volte del tutto avulso da esso.
Quest’affermazione sarebbe piaciuta a Umberto Eco, romanziere tardivo (dunque giovane) anch’egli, che nella sua doppia veste di studioso per professione e scrittore per hobby (o viceversa?) amava congetturare, più ancora che sull’esperienza del narrare, su quella del leggere o, per usare una sua nota metafora, del passeggiare nei boschi narrativi. Così, nelle sue Confessioni di un giovane romanziere, da poco apparso in libreria grazie a La Nave di Teseo (traduzione di Anna Maria Lorusso e Riccardo Fedriga, pp. 218, € 20), questo problema sempreverde riguardante ciò che succede nel corso dell’atto di lettura – dunque la relazione tanto ambivalente quanto pervasiva fra noi e i personaggi di finzione – finisce per assumere una connotazione fortemente morale. Coinvolgendo il dover fare e il poter essere delle persone e delle cose, degli esseri e del mondo nella sua onnicomprensiva pluralità.
Se nella vita che consideriamo reale – dice Eco in queste ulteriori lezioni americane tenute ad Atlanta nel 2008 e sinora mai apparse nel nostro Paese – siamo perennemente soggetti a dubbi e digressioni, ingerenze esterne e tentativi di arginarli, desideri di evasione e tristi richiami alla prosaica concretezza, in quella che consideriamo fittizia ritroviamo invece il nostro effettivo destino. Destino che, al di là di credenze momentanee e barbagli d’eternità, sta proprio nel non averne. I mondi di finzione creati dalla letteratura – ragiona il semiologo – stanno là, non cambiano, dato che ogni volta che li attraversiamo li ritroviamo intatti, sempre uguali a se stessi: Amleto si pone sempre le stesse domande, Edipo commette i medesimi errori, Don Chisciotte non manca di lottare coi mulini a vento, Emma Bovary è perennemente alla ricerca di un amore eterno… Sono certezze che, per quanto spesso non gradevoli (ecco il dolore per la fine del giudice Ilich), ricadono su di noi, finendo per costituirsi come modelli ideali. È come se i personaggi di finzione si assumessero fino in fondo le ragioni delle proprie azioni e passioni. Ivi comprese le loro talvolta plateali contraddizioni. Insegnandoci surrettiziamente a fare altrettanto.
Laddove noi siamo perennemente ondeggianti, come il pendolo del Conservatoire di Parigi, gli eroi mitici, leggendari, letterari e spesso anche mediatici non cercano di schivare la loro sorte. Perché – potremmo chiederci per controfattualità – Edipo è finito a Tebe piuttosto che ad Atene? perché Amleto non ha infine ucciso lo zio farabutto per sposare Ofelia? perché Andrej non s’è ripreso dalla malattia e convolato a nozze con Natasha? perché Gregor Samsa non è tornato essere umano dopo quel brutto incubo? Perché no. Punto e basta. Niente male come lezione morale! Eco: “l’esperienza devastante di scoprire che, nonostante i nostri desideri, Amleto, Robert Jordan e il principe Andrej muoiono – che le cose accadano in un certo modo, e per sempre, indipendentemente da ciò che desideriamo o speriamo, nel corso della lettura – ci fa rabbrividire perché avvertiamo la presenza della mano del Destino”.
Ecco dunque che questi mondi cosiddetti fittizi della letteratura si rivelano non solo in filo diretto col nostro mondo cosiddetto reale ma assai più reali di esso. Hanno, diciamo così, un carattere ben più fermo del nostro, In essi si sa, per esempio, morire con dignità: da cui il dolore realissimo che possono provocare. E, con esso, tutta la congerie passionale e la nebulosa cognitiva regolarmente prodotta da quest’atto metafisico che è la lettura.
Se non fosse così non capiremmo perché, piuttosto che svegliare Biancaneve con un bacio (dato nella fiaba senza il suo permesso) appare oggi più conducente – dicono ironicamente i social in questi giorni – gettarle addosso un catino d’acqua gelata. Gesto che, secondo il fascismo perverso della cancel culture, non richiederebbe invece preventivo consenso. (Esempio un po’ trash che, possiamo immaginare, sarebbe piaciuto anch’esso al nostro autore).
È noto che parecchie volte Umberto Eco è intervenuto su questi temi, ora nei suoi saggi semiotici (da Opera aperta, appena ripubblicato in edizione critica a cura dello stesso Fedriga, a Lector in fabula, da I limiti dell’interpretazione a Kant e l’ornitorinco) ora nei suoi scritti d’estetica (dalle Postille al Nome della rosa ai saggi Sulla letteratura sino al volumone Sull’arte). Mai però aveva calcato così fortemente la mano sul loro versante etico come in queste lezioni che, battezzate non a caso ‘confessioni’, strizzano palesemente l’occhio a filosofi come Agostino e Rousseau. Passeggiando nei boschi del libro ci si accorge ben presto come tornino spesso termini come “dovere” e “potere” coi loro derivati. Verbi servili secondo le grammatiche scolastiche, nel senso di espressioni linguistiche che non predicano direttamente il mondo ma, mediatamente, la lingua stessa, ossia altri verbi, servendo loro da supporto, dicendoli e rilanciandoli. Ma dovere e potere che cosa? a quali verbi servono questi verbi? Nel caso in questione è abbastanza chiaro: leggere, sfogliare, decifrare, capire, criticare, interpretare, ma anche scrivere e dire del proprio scritto… di modo che, volenti o nolenti, ecco emergere una vera e propria etica del testo, delle sue fattezze interne ed esterne, delle sue condizioni – formali e morali – di esercizio.
Un paio di esempi. Provando a definire, all’inizio del libro, che cosa sia la scrittura detta creativa, Eco dice (i corsivi sono miei): “uno scrittore creativo, come ragionevole lettore della propria opera, ha certamente il diritto di rifiutare interpretazioni della sua opera che ritiene deliranti. Ma in generale deve rispettare i propri lettori, perché ha lanciato il proprio testo nel mondo come un messaggio in bottiglia”. Ancora: “se pubblico un romanzo, in linea di principio sento il dovere morale di non elevarmi al di sopra delle interpretazioni dei miei lettori”; “nel periodo in cui venivo intervistato sul mio primo romanzo, ho detto che talvolta un romanziere e un poeta possono dire cose che un filosofo non può dire”.
Analogamente, nell’illustrare la differenza fra autore empirico e autore ideale dell’opera, come anche fra lettore reale e lettore modello dello stesso testo, leggiamo cose come: “gli scrittori non dovrebbero mai fornire interpretazioni del proprio lavoro”, “stavo studiando la dialettica fra diritti dei testi e diritti dei loro interpreti”, “i lettori empirici possono leggere in tanti modi diversi e non c’è una legge che dica loro come leggere”, “non è certo vietato usare un testo per sognare a occhi aperti” e così via. Dinnanzi a uno dei problemi più delicati della ricezione estetica, quello dell’apertura dell’opera, della varietà delle sue possibili interpretazioni, che Eco aveva posto sin dal suo primo libro del ’62 (appunto, Opera aperta, di cui adesso, grazie a Fedriga, possiamo conoscere punto per punto la genesi), si tratta di porre un freno a questa varietà, di circoscriverla.
Ma a bene vedere, come lo stesso Eco ammette, non ci sono dispositivi a priori, interni al testo, per frenare tale varietà. Sono piuttosto le culture, le società, gli ‘abiti’ semiotici a circoscrivere – dall’esterno – l’attività ermeneutica. A meno che, come appunto leggiamo in queste Confessioni, non invochiamo un’etica della lettura, qualcosa a metà strada fra il buon senso e la cattiva coscienza che imponga al lettore empirico di aderire al progetto estetico dell’opera, ossia a quello che Eco chiama lettore modello – che non è altro, in fondo, che la coerenza complessiva di un testo. Solo in tal modo, secondo Eco, riesce possibile arginare il delirio interpretativo che ha portato, per esempio, molti lettori a ritrovare in Dante un precursore dei Rosa-Croce o nei Templari gli antenati dei nazisti. O, ancora, a giustificare l’antisemitismo in nome di quella bufala che sono I Protocolli dei savi di Sion.
Comprendiamo che, in qualche modo, Eco oscilli, in questo, fra diverse ipotesi teoriche, non ponendo in alcun caso soluzioni definitive. Che non sarebbe suo costume, sua morale. I limiti dell’interpretazione sono sempre stati il suo dèmone: il suo cruccio, il suo problema. Si sa. Da qui il passaggio alla scrittura, il trasferimento dell’oscillazione interpretativa da oggetto di studio a tema letterario. Tutti i suoi romanzi girano intorno a questo dèmone, ne raccontano più che le origini gli esiti. Se il Pendolo di Léon Foucault ne è il simbolo, il Cimitero di Praga il traguardo. Eco, straordinario controllore di se stesso, ci aveva messo sull’avviso sin dal risvolto del Nome della rosa: su ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare. Etica, appunto.