Alex Da Corte: Napoleone post-post
Noi europei andiamo per citazioni, gli americani vanno per associazione: ha senso questa distinzione? Me l’ha fatta pensare la mostra di Alex Da Corte – di origine venezuelana, ma statunitense di adozione – in corso alla galleria Giò Marconi a Milano (fino al 19 luglio). Di sicuro non mi viene in mente nessun europeo che possa mettere insieme una mostra come questa.
Lo spunto di partenza è storico, colto e ricercato. Si tratta nientemeno di uno sconclusionato ma commovente dialogo nell’ultimo giorno di Napoleone, il mattino del 5 maggio 1821, condotto dal suo valletto di lunga data Louis-Joseph-Narcisse Marchand, che lo sottopone a un “gioco” di memoria, chiedendogli espressamente di “lasciarsi andare”, come in una sorta di seduta analitica. Gli chiede di descrivergli un deserto, che l’Imperatore identifica al proprio corpo, poi di immaginare una struttura cubica (pensa a Platone) in questo deserto, poi una scala, ma Lui vede invece detriti di legno bianco, poi un amico, e lui vede la sua morte; allora Marchand lo riporta alla calma, alla primavera e Napoleone vede dei fiori, peonie, e la sua adorata Giuseppina. Il finale: Marchand, guidandolo quasi come in seduta ipnotica: “È al suo fianco. È con lei, la porta con sé nel cuore… E ora è in arrivo un temporale. Che farà, caro Signore, che farà dinanzi al temporale?” E Napoleone chiuse gli occhi...
Cosa ci si aspetterebbe da uno spunto del genere? la tonalità così melanconica dello spunto non farebbe mai immaginare una scena che si presenta fin dall’inizio sotto il segno del Pop. Intanto si scontra subito con il titolo molto dichiarativo “World Leader Pretend”, che attualizza subito attraverso il rimando d’attualità politica all’Imperatore americano – ottimo argomento alla vigilia delle elezioni di là – ma al tempo stesso di universale inattualità: la presunzione del potere, o del potente. È chiaro che allora occorre aspettarsi l’intreccio di questo con la morte, e la morte, come ognuno sa, rovescia tutto: entreremo in mostra con questo sentimento.
Ad accoglierci è un’enorme stretta di mano fumettistica che potrebbe letteralmente essere un’opera di Roy Lichtenstein – una appropriazione stilistica più che una citazione – e sulla parete accanto, disegnato direttamene sul muro, un baloon vuoto, senza parole; poi si entra in una prima stanza dove si evoca un temporale, c’è l’immagine di un grande fulmine, una lastra appesa con un martelletto da gong – che naturalmente non ci lasciano maneggiare ma si capisce che dovrebbe simulare il tuono – e sulla parete di fronte un quadro con un diavoletto che si ripara sotto un ombrello: arriva il temporale! L’apertura che porta alla stanza seguente è sbarrata ma lascia vedere una grande scena allestita di alberi (le betulle) e, in fondo, un ammasso di scheletri inquietanti da dopo battaglia. Il tutto molto stilizzato, fumettisticamente, come ribadisco, con forte contrasto di bricolage da un lato e ricorso alla tecnologia dall’altro.
La sala seguente è quasi del tutto ingombrata da un enorme cappello di Napoleone, che simbolizza l’ego ipertrofico dell’Imperatore, quindi, sulle pareti, una mappa del mondo in tre pannelli su ognuno dei quali è ripetuto sovrapposto il nome Jenny, di cui confesso che mi sfugge il rimando, e il disegno di un cruciverba vuoto. Proseguiamo e troviamo un tavolo ipermoderno con sopra delle armi nuovissime ma di foggia antica, alle pareti due quadri con vasi di fiori (le peonie), sempre tutto in stile neo-pop, ma non dipinto, bensì stampato da immagini realizzate digitalmente. (Apro una parentesi perché l’evidenza della sostituzione della pittura con l’immagine digitale, certamente segno dei tempi, mi ha fatto pensare a un passaggio addirittura antropologico: come quando l’umanoide originario nacque dal sollevarsi a posizione eretta dell’animale che liberò le mani per un nuovo utilizzo e il cervello si ristrutturò per far fronte ai cambiamenti conseguenti, l’insistito rifiuto della manualità pittorica e il conseguente utilizzo sostitutivo della mente sta portando a un’ulteriore ristrutturazione del cervello?)
L’ultima sala è un’esplosione di immagini pop intorno alla grande sagoma del cavallo morto (di Napoleone, si deduce) disposta al centro. Alle pareti: un grande incendio, una pistola che spara – di nuovo alla Lichtenstein –, poi un Batman che riceve un pugno (da un braccio invisibile) – e fa pensare a Warhol, ma evidentemente rovesciato di significato – e si chiude con una enorme gallinella che cova un uovo e un altrettanto enorme cuore stilizzato sanguinante.
Dunque, riassumendo, potere, impero, ego, guerra, morte, violenza, amore, vita. Ci sono tutti gli ingredienti, popizzati, sparsi mi viene da dire uno ad uno, a costituire un’installazione avvolgente e straniante al tempo stesso, proprio per questa frammentazione, varietà di materiali e soluzioni tecniche, non uno “stile” identificabile – sapremmo riconoscere un’altra mostra come dello stesso artista, di Da Corte? – lo spunto colto di partenza rimane sottotraccia. Nessun artista europeo farebbe una cosa del genere. Nel caso, citerebbe più direttamente o al contrario aumenterebbe l’ermetismo (si pensi per esempio a Haris Epaminonda, attualmente in esposizione alla Galleria Massimo Minini di Brescia) o appunto la propria riconoscibilità stilistica. Da Corte cita anche quelli, gli stili, il Pop e altri, se ne appropria e li trasforma casomai in una veste aggiornata tecnologicamente.
Non è più Pop, è un post, ma non è neanche assimilabile a come si caratterizzava il postmodernismo. Si vede subito, è inequivocabile, che è arte degli anni presenti. Davvero molto intrigante a livello di riflessione su questi argomenti.
Da un lato ho pensato all’originalità e attualità di questo modo di operare di Da Corte, come non può essere che di oggi, non confondibile con l’eclettismo postmoderno tipo “Learning to Las Vegas”, alla loro differenza che passa, come ripeto, attraverso il passaggio tecnologico. E non sto neanche ad allargare il discorso tecnico-stilistico a quello evidente e studiatissimo della società dell’archivio, di Internet, dei social. Siamo in un post-post.
Dall’altro lato ho pensato che avremmo potuto, e forse dovuto, a suo tempo, già pensare all’eclettismo postmoderno in chiave freudiana e warburghiana, cioè di associazioni, sovradeterminazione, mnemosyne e nachleben, piuttosto che di citazione svuotata e di bricolage. Non sarebbe interessante? Come entrando nella mente di qualcuno a vederne e seguirne il funzionamento, invece che restare all’apparenza esterna dei prodotti di quella mente. Chiudiamo qui, nella mente di Da Corte, che a sua volta è entrato in quella di Napoleone: Napoleone ha pensato a quelle immagini, Da Castro riparte da esse per sue associazioni, che ci presenta sparse, non tanto sicuro della loro unitarietà inevitabile quanto, sospetto, sicuro che noi faremo inevitabilmente altrettanto.
Alex Da Corte, Devil Town, veduta della mostra presso la Galleria Giò Marconi, Milano, 2015, ph Filippo Armellin.