Intervista a Manlio Brusatin / Colori, ombre e righe
Manlio Brusatin, storico delle arti e architetto, si occupa da sempre del mondo visivo: immagini, colori, linee, esaminati nella pittura, nell’architettura, nel design e nella letteratura. I suoi libri, in particolare Storia dei colori, pubblicato da Einaudi e tradotto in moltissime lingue, offrono una disamina estesa e articolata sul tema del colore, fatta di analisi puntuali, divagazioni curiose e riflessioni personali. L’ultimo suo libro ha un titolo e un argomento curioso: Il cappello di Leonardo, pubblicato lo scorso anno da Marsilio; parto da qui per porgli alcune domande.
Nel suo ultimo libro Il cappello di Leonardo, una biografia intellettuale e artistica di Leonardo da Vinci, lei parte dal problema del suo volto e dall’autenticità dei suoi ritratti. Quale dunque le sembra più persuasivo? con o senza cappello?
Le immagini universalmente riconoscibili di Leonardo sono essenzialmente due: la prima nasce da un dipinto, scoperto all’inizio del Settecento, ancora esposto alle Gallerie degli Uffizi e creduto un autoritratto autentico fino all’inizio del secolo scorso. Si tratta invece di un falso, è però un Leonardo con cappello da pittore.
L’altra immagine, ancor più nota, di un vecchio Leonardo senza cappello, appare all’inizio dell’Ottocento. È un suo disegno, ora alla Galleria reale di Torino. Un suo disegno, ripeto, ma non un autoritratto. Ragioni oggettive lo escludono: la datazione e la qualità della carta sono piuttosto da riportare al primo periodo milanese. In quel periodo Leonardo disegna anche L’uomo vitruviano, un’immagine nota a tutto il mondo, ora alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Il suo volto potrebbe, dico, potrebbe essere un più probabile autoritratto all’età di circa quarant’anni, quando era senza barba: alla ricerca di materiale fisiognomico in giro per Milano, per dipingere i personaggi dell’Ultima Cena.
Ancora, il presunto autoritratto di Torino è così ben delineato che non potrebbe essere fatto dalla mano di un pittore vicino ai settanta, ma molto molto invecchiato, in più con una paralisi alla mano (così almeno viene descritto da un ospite nella sua casa di Amboise, a un anno dalla sua morte).
Altri elementi – e possiamo sostenerlo ora – riguardano un Leonardo non esclusivamente mancino. Disegnava con la mano sinistra, ma scriveva sicuramente con la destra, nella sua nota grafia speculare. L’unica cosa certa era la fama, che gli peserà per tutta la vita come un macigno, di non finire i suoi lavori. Questa era la netta convinzione di un papa quale Leone X che, nell’ultimo periodo romano preferì a Leonardo i suoi due grandi concorrenti: Michelangelo e Raffaello, Michelangelo insolente diffamatore di Leonardo, Raffaello gentilissimo, ma con mancanza assoluta di gratitudine.
Torniamo al tema delle immagini “con cappello” e “senza cappello” di un Leonardo costretto ad andare in giro per l’Italia, quasi sempre con il “cappello in mano”, per farsi piacere a mecenati e potenti. Il libro racconta questo. E per questo le immagini “con cappello” e “senza cappello” si sono intrecciate, identificando nella prima il “sommo pittore” e nell’altra il “genio universale”. Queste immagini sono diventate degli stereotipi, non ci si chiede più se siano veri o falsi: sono diventati Leonardo per decreto universale. Potremmo meglio dire che esiste una “narrazione visiva” più radicale di quella verbale, dove vero e falso diventano del tutto ininfluenti. Perché, come nella distillazione alchemica, da due sostanze diverse ne nasce una nuova, tanto uguale quanto diversa rispetto alle due componenti originarie. Questo avviene infatti molto materialmente nei colori che fondono, per es., mercurio e zolfo per diventare cinabro, o arsenico e zolfo per diventare realgar… Si tratta di due tipi di rosso molto usati da Leonardo e dai pittori veneziani. Ma poi nessuno, oltre a coloro che fanno il mestiere di pittore, si chiede più della loro origine, quando questi colori diventano quadri. Un conto è “fare arte”, altro è “contemplare l’arte”. Le due cose si sovrappongono, ma sono in realtà intrecciate. Per dire: “con cappello” o “senza cappello”.
La curiosità per l’iconografia del cappello si intreccia con lo studio di Leonardo sulle ombre. Ci vuole spiegare l’affermazione di Leonardo che «il colore de l’ombra di qualunque colore partecipa del colore del suo oggetto»?
Questa appunto delle “ombre colorate” è un’importante annotazione di Leonardo, ed è stato un cruccio per tutti i pittori fino a Delacroix e agli impressionisti. Questo Leonardo lo vede negli oggetti che gli stanno intorno e lo esamina per usarlo nella sua pittura. Nel mondo degli oggetti, che sono per natura colorati, la loro ombra, apparentemente scura o nera, riflette e mantiene in sé il colore originario della cosa. Infatti “l’ombra partecipa del colore del suo oggetto”. Cioè l’ombra trasferisce oltre a sé non soltanto la sagoma o un perimetro, ma la vera natura dell’oggetto, che appare necessariamente con la sua ombra colorata. In questo senso quando Leonardo distingue i colori, passando dal bianco al nero, vede in essi una natura umbratile: ciò che è un aspetto non tanto ovvio di un colore che diventa più chiaro e più scuro pur rimanendo lo stesso. Ecco che color viene da celare, per apparire ed essere in qualche modo ri-velato.
Quindi secondo lei il colore ha a che fare con l’ombra, ha una natura umbratile come scrivono Kircher e Goethe, rifacendosi all’idea aristotelica che i colori scaturiscono dall’opposizione del bianco e del nero?
Leonardo riprende i temi filosofici di Aristotele e del trattato Dei colori del discepolo Teofrasto: bianco e nero in sé non esistono, se non nella natura originaria ed intrinseca dei quattro elementi. Alchimia e astrologia diventano così i campi sollecitati dal colore fino alla scienza moderna. L’Ottica di Newton si afferma ancora in mezzo a queste vecchie scienze come un capitolo molto seducente in quanto experimentum crucis. Vale a dire la luce entra in un prisma di vetro, si disperde nei sette colori, ma i sette colori possono ritornare nel raggio originario della luce. Ammesso che si possa definire la luce come bianca, questa luce diventa bianca secondo Newton con la sua trottola cromatica; in un certo senso la luce, che fluttua “come un campo di grano”, sembra prevalere sull’ombra. Ma, come si saprà in seguito, i colori sono additivi: quando mescolati vanno verso il bianco essendo immateriali, mentre i colori sottrattivi in Kircher e Goethe sono materie e pigmenti che, mescolati, danno il colore della cenere e del carbone. Anche ora il colore delle immagini del nostro smartphone, virtuale o reale che sia, è additivo rispetto alla stampante, che è necessariamente sottrattiva. Anche per i non addetti ormai davanti allo schermo di un computer: RGB (rosso/verde/blu) è la mescolanza additiva della luce, CMYK (ciano/magenta/giallo/nero) sono i colori dell’ombra, cioè della pittura e della stampa.
A proposito di ombre: secondo lei è vero che, in un ritratto, una luce proveniente da sinistra tende a drammatizzare la figura, a renderla più ostile, mentre un volto amabile preferisce una luce da destra? Ne accenna a proposito di alcuni ritratti di Leonardo che però poi analizza più nel dettaglio nel rapporto luce-ombra.
Per quanto riguarda la raffigurazione di volti e ritratti bisogna intenderci. Luce che viene da destra di colui che viene ritratto produce un’ombra sulla parte sinistra del volto per chi lo guarda e questo determina in qualche modo un effetto più buono e sincero (vedi la Gioconda). Mentre la luce che illumina il ritratto da sinistra e quindi con l’ombra del volto a destra produce un effetto e un carattere meno gradevole…
Non ho potuto approfondire sufficientemente questo tema in Leonardo, che è un caso a sé, perché – si è detto – dipingeva con la sinistra e scriveva con la destra. L’effetto però mi è stato confermato da fotografi, dallo stesso Henri Cartier-Bresson, e anche da Fulvio Roiter, che non si consideravano affatto bravi nella cattura di ritratti spontanei per non poter controllare la direzione della luce e quindi dell’ombra. Mettere in posa o mettersi in posa produce invece un controllo della luce, dell’ombra, del colore e quindi dell’espressione, nonché del carattere...
Nelle sue storie dei colori, tra le migliaia di racconti, analisi e suggestioni, sembra che ci sia sempre, nello studio e nella pratica del colore, qualcosa che sfugge, qualche enigma irrisolto. È così?
Sì, quel che ci sfugge è proprio ciò che ci affascina dei colori. Questo aspetto sottile di seduzione e di cattura degli occhi da parte del colore è stato anche l’aspetto subdolo che lo ha posto decisamente molto in secondo piano rispetto alla linea e al disegno. La scienza geometrica della prospettiva trionfa in un fascio geometrico e regolato di linee convergenti, ma “l’azzurra lontananza” di Leonardo è ciò che ci fa distinguere non solo gli oggetti ma il loro essere vicini o lontani rispetto all’osservatore. La “prospettiva aerea o dei perdimenti” – come è chiamata da Leonardo – sarebbe il cosiddetto “sfumato leonardesco”, cosa di cui lui non parla esplicitamente. Riuscire a dipingere questo effetto di ombra e luce è diventata la cifra di Leonardo.
Entrando nel mito: la dea Iride, dipinta da Goethe sul soffitto della sua casa di Weimar, la divinità messaggera degli dei che unisce terra e cielo, riunisce anche la percezione dei colori dal punto di vista della fisica, della chimica e della fisiologia-psicologia. In più i colori, come i suoni, si accordano tra di loro, o per similitudine o per contrasto, cioè per affinità o per complementarietà.
Un altro aspetto delle sue ricerche che trovo interessante è l’attenzione ai pigmenti. Un esempio soltanto tratto da Colore senza nome (Marsilio, Venezia 2006): analizzando le sostanze nere lei parla di nerofumo, nero di resina, nero di lampada, nero di vite, nero d’avorio, nero di mummia, nero di Francoforte e altri neri ancora. Li hai mai comprati, sperimentati e utilizzati?
Poi viene il nero… Esiste un mondo di materie nere: dal nerofumo, al nero avorio, alla miracolosa “pria mora”, fino al nero considerato il peggiore, quello di stampa o di Francoforte, che diventa il marchio della verità delle parole stampate: nero su bianco. Il nero di vite e di grafite sono i materiali per chiunque si metta a disegnare a carboncino o a matita. Il nero di mummia era invece una materia rara e costosa, più dell’azzurro oltremare. La polvere di mummie egizie frantumate nel mortaio era soprattutto una medicina, ma anche un colore: Tintoretto la usa per poter ottenere l’immortalità. In questo nero c’è anche un principio di falsificazione. Il colore testa di moro (o testa di morto) poteva essere fabbricato con tinte tanniche di quercia o di ontano, e di polvere di tabacco. È qui infatti che la storia dei colori comincia ad avere quella metamorfosi assoluta che passa alla chimica moderna per produrre tinte, esplosivi e medicinali… che sono anch’essi colori.
Nell’indagine sul verde ha scritto di non voler fare una storia del verde, ma «alcune brevi storie di un verde vecchio e nuovo, vero o falso che sia» (Verde. Storie di un colore, Marsilio, Venezia 2013). Il risultato non è però un assoluto relativismo, ma l’indagine sulla «natura intermedia [del verde] che non si perde d’animo e funziona sempre nella sua accensione e nel suo spegnimento», come nella bella favola di Goethe, Il serpente verde. Ci vuole fare altri esempi?
Le storie dei verdi, in particolare di quelli più diffusi in natura, si moltiplicano in mille sfumature: verdino, verdiccio, verdone, verdaccio, verdastro, verdemarcio, verdeacqua e perfino “verdetto”, che mostra una doppiezza, forse per le due componenti blu giallo. Nelle Affinità elettive di Goethe i principi dell’ombra (blu) e della luce (giallo) mostrano aspetti molto positivi, come bellezza, gioia e giovinezza, ma esprimono anche la natura luciferina del drago, del serpente e del demone. Ecco che il verde si nobilita con l’accostamento al blu: colori di magnanimità e salvezza – perfino negli abiti di Giuda nell’Ultima Cena di Leonardo che implorano misericordia per chi è costretto a fare un lavoro sporco. Invece l’accostamento giallo-verde produce gli effetti dell’invidia, dell’astuzia, del tradimento e della vendetta, come nei colori degli stemmi e delle bandiere di Ezzelino da Romano. Verde di rabbia si confronta con il verde d’invidia, per un travaso di bile… Dal tempo di San Francesco si suggerisce un primo tricolore bianco, rosso e verde, però al centro sta il verde-Spes, alla destra la Charitas-rossa, a sinistra la Fides-bianca. Ma il verde speranza, virtù perfetta fra le illusioni, può essere “ridotta al verde”, come dicono i poeti che vedono sfumare i loro amori come una candela arrivata al lumicino, cioè al suo “tronchetto di legno verde” che stava alla base. Ora il poeta, come tutti noi, guarda con meraviglia e timore la verde aurora boreale e il “raggio verde” che appare all’orizzonte: che siano apparizioni divine o demoniache?
In un’altra ricerca ha parlato di un affresco trecentesco dipinto nella cappella di San Giovanni della Chiesa dei Domenicani, qui a Bolzano. Tre giovani donne, destinate alla prostituzione per il fallimento del padre, vestono la stoffa del diavolo, come l’aveva definita Pastoureau, un abito a righe, e vengono salvate da San Nicolò. Ma che dire delle altre figure che, nella stessa cappella, sono dipinte con abiti a righe?
Per i dipinti della chiesa dei Domenicani di Bolzano, che ho visto e rivisto, volevo rifarmi all’apertura del libro di Pastoureau La stoffa del Diavolo, che dimostra di non aver visto il dipinto. Le tre figlie di un padre disperato sono vestite a strisce oblique bianche e nere per essere avviate alla prostituzione, se non fosse per l’intervento di San Niccolò che dona loro a ciascuna una mela d’oro… Per me quindi non si tratta dell’abito del diavolo – che è verde e poi rosso –, ma d’infamia oppure di lascivia. Nel medesimo affresco le strisce appartengono ai suonatori di viella (musica profana), posti più in basso rispetto agli angeli che suonano la musica sacra.
L’ultima domanda: che cosa la affascina del colore? come mai si è occupato così a fondo del tema del colore e ha raccolto mille e cinquecento libri sull’argomento?
Da veneto, nato nella città di Giorgione, mi son sempre chiesto come il colore che crea la luce crepuscolare del tramonto (il messaggio cifrato della pittura veneta con una luce d’ombra che viene da dentro il quadro) sia stato molto sentito, ma mai trattato nelle teorie. Colori, suoni, odori, sapori sono qualità che Galileo considerava impossibili da teorizzare come avviene invece per grandezza, lunghezza, altezza, volume … Anche se il colore non è del tutto un’opinione.
Infine, la mia raccolta di millecinquecento libri sul colore non la possiedo più, ma è ben collocata… È cominciata con un libretto di Kandinskij, Lo spirituale nell’arte (Das Geistige in der Kunst), che confronta suoni e colori e inaugura una “pittura assoluta” che noi abbiamo chiamato astratta. La psicologia della forma e la percezione visiva del colore stanno abbandonando, a spese della stessa vita dell’artista, tutta quella figurazione che si è fissata nella riproduzione della realtà, ormai interpretata dalle tecniche della fotografia, del cinema e del web.
Sì, c’è anche l’ultimo, non ultimo, libro che ho sotto gli occhi: Il colore delle cose che è anche il colore e il sapore “perduto” delle parole. Ma l’autrice è proprio la persona con cui parlo ora.