Éric Faye. Nagasaki

14 Marzo 2012

Gli oggetti cambiano di posizione, si spostano, lo yogurt finisce, il succo d’arancia in frigorifero diminuisce. Ogni giorno, qualcosa, seppur impercettibilmente, va fuori posto, cambia d’ordine. Non sarebbero altro che minuscole variazioni se l’abitante della casa dentro a cui avvengono questi strani avvenimenti non avesse eletto l’abitudine a principio vitale.

Shimura abita alla periferia di Nagasaki, conduce una vita solitaria e lavora come meteorologo, ma anche con i colleghi è parco di contatti: evita accuratamente ogni uscita conviviale o incontro che non sia strettamente professionale. Disincantato e poco più che cinquantenne, Shimura sembra aver ricomposto una frattura passata con un’ostinata abitudinarietà, unica vera protezione ad un’esistenza priva di palpitazioni.

 

L’abitudine priva di vezzi, ma semplicemente e rigorosamente basata su una totale e funzionale ordinarietà è il presente quotidiano dentro cui si muovono i due protagonisti, un uomo, Shimura, e una donna, che invade di nascosto lo spazio privato dell’uomo per procurasi un po’ di ristoro da una vita da cui è stata ormai esclusa: priva di lavoro e abitazione.

L’incontro tra i due avverrà sempre e solo in maniera filtrata, prima dagli oggetti e poi da una telecamera, solo in un’occasione si fisseranno lungamente l’uno negli occhi dell’altro in una sorta di riconoscimento identitario. Il loro è un rapporto dettato dall’assenza, ma ad altissima intensità, che muterà per sempre le loro vite. Éric Fay racconta ciò che accade quando una storia è finita: tutto nel libro è già avvenuto, dall’evocazione della tragedia nucleare nel titolo alla vita stessa dei protagonisti, dediti alla cancellazione di un passato che riaffiora ormai incomprensibile come un doloroso malessere.

 

Nagasaki (Barbès Editore, Firenze 2011, Ed. or. 2010, trad. di Tommaso Gurrieri) è la fusione di tre voci, quella di Shimura, quella del narratore, e quella della donna, una fusione al calor bianco, che acceca e rende impossibile ogni forma di ragione o di spiegazione. Il trauma non è più nelle rovine della bomba atomica né nei corpi delle vittime che ormai si sono trasformati in storie, cronache e racconti, ma nello spostamento d’aria che ha lasciato prima increduli e ora, a distanza di più di cinquant’anni, nudi. Lo sguardo dei protagonisti sembra calare su uno spazio vuoto, l’ostinazione con cui Shimura tenta di preservare la propria riservatezza è la medesima di chi sovrappone la propria intimità con i propri oggetti. La proprietà tranquillizza e risolve da un passato turbolento, politicamente radicale, ma non proprio. Piuttosto una reazione obbligata alla bomba che li ha privati d’immaginazione. Lo spazio attorno è scomparso e il vuoto attraversa gli occhi e il corpo dei protagonisti. Alla fine la lettera della donna indirizzata a Shimura è il resoconto secco di un passato ormai privo di senso e anche d’identità. Senza più storie non rimangono che le giustificazioni, ultimo e disperato segno vitale di un’esistenza in continuo abbandono.

 

Éric Faye chiude Nagasaki con una lettera che è l’ultima traccia di una storia, presa dalla realtà, ma il cui sviluppo è impalpabile, come sospeso. L’autore qui compie un lavoro archeologico, non racconta, ma ridà luce ad una serie di tracce che spetta al lettore formulare e ordinare. Il racconto degli avvenimenti è infatti lungo poco più di mezza pagina (intorno alla metà del libro), è il resoconto burocratico di un rapporto di polizia. Tutte le altre pagine si occupano di quello che succede, ogni volta, in quel preciso momento, durante quegli impercettibili spostamenti degli oggetti.

 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO