Le belle figuracce di Pischedda
Nel corso della sua carriera di studioso di letteratura italiana contemporanea – fra i suoi contributi più recenti Satta, il capolavoro infinito. Memoria e misteri nel «Giorno del giudizio» (Carocci, 2020) e La competizione editoriale. Marchi e collane di vasto pubblico nell'Italia contemporanea (1860-2020) (Carocci, 2022) – Bruno Pischedda si è concesso alcune incursioni nel terreno della fiction. Così, dopo Com’è grande la città (Tropea, 1996) e Carùga blues (Casagrande, 2003), arriva ora Muster. Una giovinezza fantastica (Zacinto Edizioni, Milano, 2024, p. 218), che va a formare con i precedenti una sorta di trittico. Tre libri che, emulsionando in varia proporzione invenzione e memoria, ruotano intorno al paese natale dell’autore, sito a una quindicina di chilometri di distanza da Milano in direzione nord-ovest, non lontano da Saronno.
La letteratura, come tutti sanno, si nutre anche di rappresentazioni di luoghi. Alcune diventano perfino proverbiali, tanto da condizionare l’atteggiamento e lo sguardo dei visitatori (è possibile vedere Trieste prescindendo dai versi di Saba? o Ferrara senza pensare a Bassani?). Altre assegnano una valenza particolare a ambienti altrimenti privi di connotazioni letterarie: per fare qualche altro inarrivabile esempio, nella coscienza dei forestieri – s’intende, dei forestieri che leggono – Aci Trezza è inscindibile dalle pagine di Verga, Malo sarebbe un posto sconosciuto senza Meneghello, l’immagine dell’Altipiano di Asiago è stata modellata da Emilio Lussu e Mario Rigoni Stern; fino al caso estremo del paese letteralmente re-inventato da un libro, il borgo di Aliano-Gagliano di Carlo Levi. La lista si potrebbe allungare facilmente; e la topografia potrebbe anche essere dettagliata, su una scala diversa, a zone precise delle città (si pensi alla zona di Roma fra Esquilino e Termini, variamente rappresentata da Tommaso Pincio e Francesca Melandri). Ebbene, a Pischedda va riconosciuto il merito, grande o piccolo che sia, di aver acquisito alla geografia letteraria il comune di Cesate: che non è un campione casuale e intercambiabile della periferia milanese, ma un luogo dotato di caratteri peculiari.
Il vecchio borgo di Cesate, rustico e contadino in origine, poi suburbano e industriale, ha conosciuto infatti negli anni Cinquanta una trasformazione importante con l’edificazione del cosiddetto Villaggio INA, al cui progetto hanno collaborato architetti di vaglia come Franco Albini, Ignazio Gardella, Lodovico Barbiano di Belgiojoso. Di qui la nascita di una compagine sociale e territoriale in cui un’eredità paesana già tutt’altro che immobile si è venuta intrecciando, negli anni del boom economico, con un imponente fenomeno migratorio. Il risultato è stata la creazione di un ambiente sociale complesso, dinamico, capace di esprimere, pur fra mille contraddizioni, un’effervescente vitalità. A questo proposito, merita una sottolineatura la varia declinazione pop dei titoli pischeddiani: prima una canzone di Gaber (Com’è bella la città), poi un mix fra l’apocope gergale d’un cognome (Carùga) e l’allusione cinematografica (Paris blues, Miami blues), infine lo schietto prelievo dialettale, magari avvertito come anglicizzante (Muster sta infatti per “mostro” e può ricordare monster), corredato da un sottotitolo iperletterario; e andrà ricordato, fra parentesi, che in veste di critico Pischedda si è dedicato anche all’autrice di Una giovinezza inventata, Lalla Romano. Non fosse per la pregnante, irrinunciabile ambiguità dell’aggettivo “fantastica”, si potrebbe proporre per Muster un sottotitolo alternativo parafrasando Anna Radius Zuccari, alias Neera: Una giovinezza del secolo XX.
Il microcosmo di Cesate (che negli anni conoscerà anche l’espansione del Villaggio Alfa Romeo) ha un fulcro preciso, quasi un perno attorno a cui ruota la maggior parte delle vicende. Si tratta di una tipica istituzione del Milanese, viva fino a non molto tempo fa (come ben sanno i lettori di Luciano Bianciardi): una latteria, esercizio che alla vendita al dettaglio univa il carattere di luogo di ristorazione rapida, nonché di ritrovo e pascolo per sfaccendati, anime inquiete, adolescenti alla ricerca di sé. Il libro non ha una trama unitaria, anche se l’andamento episodico è bilanciato da una controversa relazione amorosa che pervade la seconda parte del libro, e dall’inattesa connessione tra il finale e l’incipit. C’è invece una figura centrale, che narra in prima persona; una proiezione dell’autore, certo, ma più distaccata rispetto alle precedenti prove, tant’è che ha un nome diverso e una diversa provenienza familiare: Umberto Beretta detto Berto, originario d’una valle bergamasca, studente e poi studioso di matematica. Attorno a lui, una variegata galleria di personaggi, protagonisti di imprese e disavventure, di bravate e di pasticci, un caleidoscopio di eventi propri del picaresco suburbano: dagli scherzi pesanti alle ambizioni azzardate, dai piccoli furti agli incidenti stradali. Ma non mancano riferimenti a realtà più strutturali e concrete, come gli scioperi in fabbrica o gli infortuni sul lavoro. E sempre a proposito della testimonianza socio-topografica (cara anche al Calvino della Strada di San Giovanni, che non manca di menzionare «l’antica fabbrica d’ascensori Gazzano»), va segnalata l’evocativa occorrenza di certi nomi propri, che sanno di preziosità archeologico-industriale: ad esempio quello della Fargas, produttrice di stufe e piccoli elettrodomestici fino alla metà degli anni Settanta, che aveva uno stabilimento a Novate.
Secondo un gusto tipico di Pischedda, anche se non esclusivamente suo – si pensi al Tiziano Scarpa di Occhi sulla graticola (Einaudi, 1996) – particolare rilievo hanno le figuracce, abbastanza elaborate e frequenti da assomigliare a una sorta di firma interna. Una delle peggiori è all’origine del soprannome Muster: una galanteria che goffa è dir poco, un’allusione allo strabismo di Venere (difetto tanto lieve, com’è noto, da essere equiparato a una forma di bellezza) rivolta a una nuova venuta di cui il protagonista non s’è accorto che ha un occhio di vetro. L’età gioca naturalmente la sua parte («adolescenza e prima giovinezza sono anche il regno sovrano delle figuracce»), e il protagonista è in buona compagnia: «La sindrome gaffosa e autolesionistica era d’altronde estesa, pandemica, oltrepassava il singolo rendendosi una condizione standard». Sul piano della scrittura, generalmente spigliata e colloquiale, si notano emergenze di gusto espressionistico, proprio di un lombardesco post-gaddiano. Ecco una chiosa che riguarda il personaggio di Leo: «Figlio di una marsigliese e di un siciliano esule da Catania, ogni tanto profetava in lingua, la sua, arrotata fra le troie e gli scaricatori della Canebière, e talora con una ficcanza malandra e nobiliare alla quale noi guardavamo adoranti».
Molti, come si diceva, i personaggi, maschili e femminili: Ruspi, Tazio, Momino, Peppo Parma, Luciano, Pablo, Fabia, Anna Braghieri, Daniela, Clara. Fra gli adulti, spicca il «prete di antica nomina, don Luigi, Santomassimo per noi ricusanti, o anche Donsanto». La figura più elaborata è senza dubbio Mirella, la ragazza con il quale Berto intrattiene un rapporto tanto intenso quanto intriso di malintesi e occasioni perdute. Come spesso avviene – non solo nella trasfigurazione letteraria – lui sembra non arrivare mai, nemmeno per sbaglio, a capire lei: e lei a un certo punto si eclissa, salvo poi morire per davvero, ennesima conferma della tesi ben argomentata qualche anno fa da Francesca Serra (La morte ci fa belle, Bollati Boringhieri, 2013). A parte la storia di (o con) Mirella, fra gli elementi di coesione del racconto è la ricorrenza di pause, qualificate come «fermo immagine»: un procedimento che, precisa l’autore, ha lo scopo non di enfatizzare i picchi di «dabbenaggine sfigata», «i più solenni sputtanamenti», quanto di segnalare i quesiti rimasti irrisolti. Così funziona la memoria: uno «zampillio di figure e circostanze inspiegate, dalle quali non si riesce a prendere congedo».
Non ha infatti valore di congedo nemmeno la bella scena finale della visita al cimitero, forse non immemore del grande Raffaello Baldini di Furistir. Il protagonista, ormai in là con gli anni, recato omaggio alle tombe dei genitori, passa in rassegna quelle dei non pochi amici e coetanei mancati per le ragioni più varie: leucemia, Aids, un suicidio, un frontale con un autocarro (non Mirella, che era stata inumata a Lecce, sua città d’origine). Per inciso, e per analogia, torna alla mente un recente delicato volumetto pubblicato da Claudio Visentin, Passeggiate nei piccoli cimiteri (disegni di Elena Bonini, Ediciclo editore, Portogruaro, 2024). L’accostamento può apparire incongruo, visto che Visentin parla di visite gratuite, non motivate dalla presenza di sepolture dei propri cari, e, di preferenza, di minuscoli camposanti dell’Appennino, adiacenti a paesi a volte abbandonati. Ma c’è un’idea comune, al fondo. Lo scenario della «giovinezza fantastica» narrata da Pischedda è infatti un ambiente articolato, per certi aspetti precario, ma intimamente organico: un luogo di incontri e di confronti, di interazioni e collisioni formative, dove era, dove è stato bello crescere. Era, per dirla in una parola, una società. Per questo non stupisce che Berto non abbia messo radici negli Stati Uniti, dove lo conduce a un certo punto la professione: la bellezza delle Montagne Rocciose, la presenza di giovani di ogni parte del mondo non compensavano l’assenza dei sodali d’un tempo, un eslege creativo come Ruspi, un Momino attore porno fallito, un ex seminarista simile a un san Domenico francescano, una Anna Braghieri che con i suoi fragorosi sbadigli svegliava i pendolari sul treno. Di essere Muster, non si poteva, non si può rinunciare alla leggera.