Lady D. secondo Larraín / Spencer: scucire il destino

14 Aprile 2022

Si comincia con un doppio arrivo. Dapprima quello di un convoglio militare, che attraversa la desolata campagna invernale per consegnare le casse portavivande contenenti raffinati cibi destinati a essere cucinati per un ricco banchetto. Ci troviamo infatti, come scopriremo meglio più avanti, nella Residenza di Sandringham, dove la famiglia reale inglese ha l’usanza di trascorrere il Natale. Subito dopo, ecco arrivare anche una macchina sportiva, guidata da una delle donne più inconfondibili d’Europa (Lady Diana). Tutti, noi compresi, sanno di chi si tratta, eppure lei è confusa, da sola, procede senza meta, guarda la mappa, chiede indicazioni, cammina sbandando, non sa dove si trova, proprio come se fosse una straniera. 

 

«Fuck am I?» Dove cazzo sono? si chiede; ma intanto ecco che l’apparizione quasi fiabesca, tra i campi, di uno spaventapasseri che indossa un vecchio giaccone scolorito di tela cerata rossa accresce l’effetto di opacità, ma al tempo stesso rappresenta anche un segnale certo per la donna, che lo riconosce subito, e corre verso quel fantoccio che spunta da un paesaggio di nebbia così irreale, somigliando all’anima di un regno ultraterreno. Addosso a quel manichino è stato messo infatti un abito appartenuto al padre, che la figlia si riprende; dunque siamo a Park House, sempre nei territori della residenza reale, ma nei pressi della tenuta che John Spencer, genitore di Diana, aveva affittato e abitato fino al 1975. Sono le terre dove la principessa del Galles aveva trascorso la sua infanzia, e dove tornò, negli ultimi giorni del 1991, per trascorrere le feste assieme agli amatissimi figli, poco prima di decidere di separarsi dal marito, agli inizi del 1992.

 

 

Chi avesse preferito non guardare Spencer per disinteresse nei confronti del personaggio di Lady Diana potrebbe ingannarsi, perché l’ultimo film di Pablo Larraín, in effetti, non è una biografia. I dati appena indicati, vale a dire la circostanza dell’ultimo Natale passato in famiglia prima della rottura, sono gli unici, scarni, elementi fattuali da cui si sviluppa, attraverso un lavoro continuo di dilatazione (narrativa, visuale, drammaturgica), una successione di scenari immaginosi, onirici, paranoici, visionari, che compongono un protagonismo spettacolare e autonomo rispetto alla figura storica di partenza.

 

Spencer, infatti, è più che altro la messa in scena di un delirio (quello della definitiva presa d’atto di una crisi matrimoniale e ancor prima di identità) che scandisce, esasperandola sempre di più, la maturazione di un senso sempre più irricucibile di inappartenenza: «Come ho potuto perdermi nel posto dove giocavo?». Il senso di smarrimento e di perdita dei confini è sottolineato anche dall’interpretazione di Kristen Stewart (sì: era lei, più di tutte, che meritava l’Oscar come miglior attrice), così capace, tra l’altro (mentre corre o scappa tra le stanze di un palazzo pieno di persone che non le rivolgono la parola), così capace di inscenare uno sguardo che si posa sempre altrove, si ritrae, si nasconde, riparandosi dalla realtà in un punto fisico o interiore che la distolga. Tutto il film, infatti, costruisce e favorisce, anche visivamente, o attraverso musiche dissonanti, il senso di un mondo sotterraneo (la fotografia è di Claire Mathon, la medesima di Petite Maman, di Sciamma) straniato e straniante, pieno di fantasmi (il padre, Anna Bolena, Camilla), o di situazioni immaginarie visivamente potenti.

 

 

Anche la protagonista in un certo senso è un fantasma, come lei stessa risponde alle guardie che di notte la sorprendono mentre, tra atmosfere gotiche, procede come un’ombra, oltre il filo spinato, per tornare ai luoghi della sua infanzia, cercando di tornare a casa. 

«Ho lasciato un cappotto in macchina, voglio che tu lo pulisca» aveva chiesto la protagonista alla sua cameriera personale, all’inizio del film, appena era entrata nella camera della residenza reale, riferendosi al giaccone paterno. «Un cappotto da dove, Madam’?» replica la donna. «Da una storia antica», ribatte la principessa. Ancora la cameriera, cercando lo sguardo della sua Signora: «Quale storia antica?». «Spencer», risponde l’altra, fissando così un cortocircuito simbolico tra abito, infanzia, e ricerca di un nuovo destino da abitare: il medesimo già nominato dal titolo. 

Gli abiti non si limitano a esserci, e basta, perché si vedono abiti dovunque, in Spencer, fin dalla locandina, e secondo un sistema di rimandi e simmetrie che compongono il senso visivo e simbolico di tutto il film. L’abito è trattato infatti come segno, come metafora, come dispositivo scenico. C’è il “Fairy Dress”, il leggendario abito che si intravedeva nel primo manifesto di Spencer che ha circolato, e che evoca subito il senso di una dorata stanza della tortura.

 

Fiona Shaw interpreta Winnie in “Giorni felici” di Samuel Beckett. © Donald Cooper/Photostage.


 

Del resto, non è una novità, perché si potrebbe ripercorrere l’intera cinematografia di Larraín attraverso l’uso formale dei vestiti, trasformati in personificazioni ossessive di un trauma storico collettivo. Per esempio, si può ripensare anche al protagonista di Tony Manero (2008), che si veste come John Travolta nella Febbre del sabato sera, o al tailleur Chanel rosa macchiato di sangue, dopo l’attentato al Presidente, in Jackie (2016, di cui si era parlato qui).

 

Tony Manero.


Jackie.


L’abito è l’espressione vistosa di un destino cucito addosso, la divisa di scena del personaggio; spogliarsene, significa fuoriuscire da un’identità. Ma l’abito, per il regista di Spencer, è pure emblema di una poetica cinematografica personale che via via, anche affrontando soggetti molto diversi, è restata sempre fedele a due motivi: l’attenzione ai momenti “fatali” della storia pubblica, e al modo in cui sono passati alla memoria attraverso le immagini mediatiche; la scelta di raccontare la storia principalmente come potere e controllo delle istituzioni sui soggetti. Proprio questa ricorrenza aiuta a riconoscere quanto l’abito nei film di Pablo Larraín non sia mai soltanto decoro, costume, ma si trasformi in simulacro (delle apparenze, del potere, delle istituzioni); occasione autosufficiente di esplorazione immaginosa della forza delle illusioni. L’immagine dello spaventapasseri, a cui la protagonista toglie il giaccone del padre e metterà, nel finale, uno degli abiti scelti per lei dagli altri, fa tornare in mente i manichini delle vetrine con addosso i tailleur Chanel, su cui si posava lo sguardo della protagonista di Jackie, nel finale del film. Ma la trovata, in Spencer, di mettere sul manichino uno degli abiti preparati e etichettati dal Palazzo segna anche il momento di un riscatto, di un ritorno all’identità “Spencer”, nel segno della rinuncia a staccarsi dal destino di regina (lo stesso gesto con cui scuce le tende), mantenendo, anche agli occhi del mondo, l’identità di madre dei propri figli. 

 

 

 

L’iconico abito da fiaba con cui Lady Diana vomita nel cesso, resta a palazzo; ma è indossando il giaccone logoro del padre che la donna si ricongiunge alla sua storia antica, interrompe la battuta di caccia reale (mettendosi al centro della scena, con le mani allargate proprio come uno spaventapasseri); e sceglie, di conseguenza, in un film così pieno di cucine, di cibo e di metafore alimentari, di non essere cucinata, ma di scegliere lei come “cucinare” la propria immagine, di stabilire lei con quale aspetto sarà ricordata (proprio come Jackie, che scelse di scendere dall’aereo presidenziale facendosi vedere con l’abito sporco), vale a dire come “Spencer”, proprio come risponde (con l’ultima parola che pronuncia nel film) al ragazzo allo sportello del fast-food, dopo essersene scappata a Londra coi figli. Per lei come per il cinema di Pablo Larraín, la logica del delirio, per un tempo breve ma miracoloso, diventa un antimodello vitale contro il delirio del potere. 

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