Come non fare niente / La fine dell'attenzione
Il clima delle epoche di decadenza del passato, anche remoto, era con grande probabilità molto simile a quello che attualmente stiamo vivendo, con tanto di pandemia e guerra con milioni di profughi. Si de-cade da una qualche conquista di prosperità, si assiste a un’alterazione delle sensibilità individuali e collettive generate da quella prosperità, si è attoniti davanti alle novità più radicali e sconvolgenti, non si capisce più bene come interpretarle, se come potenziali ulteriori progressi o minacce vere e proprie all’esistente. Grandi giochi emotivi mediatici. Categorie idee e principi paiono usurati, allo sbando, e le mere quantità sono soverchianti. Angoscia. Paura.
Non mi sto divertendo a raccontarla nera, mi limito solo a condividere riflessioni e stati d’animo, sensazioni, se volete, che semplicemente ci stanno opprimendo con intensità crescente. Ci sono le emergenze del nostro tempo, e parallelamente c’è una elaborazione intellettuale che le legge e ne dichiara la pericolosità; ma soprattutto c’è la fatica a “sistemarle” in un conteso teorico sufficientemente coerente: è proprio questo, l’insuccesso della ‘presa cognitiva’ sui fenomeni che a mio modo di vedere rende il momento particolarmente angoscioso.
Hai voglia a immaginare nuovi scenari e nuove dinamiche, ma gli strumenti con cui lo facciamo sono sempre più deboli, quando non diventano addirittura controproducenti. È così, dal Paradiso delle armonie razionali al naufragio nello smarrimento contemporaneo, per dirla col filosofo (Massimo Cacciari, Paradiso e naufragio, Einaudi 2022).
La fine dell’attenzione, diciamo così, è un esempio particolarmente efficace che aiuta a capire meglio (particolarmente utile Qualcuno sta rubando la nostra attenzione di Johann Hari, “Internazionale”, 28 gennaio-2 febbraio 2022). Nella società della cosiddetta “economia dell’attenzione”, la nostra “libera” capacità di concentrazione è messa a frutto dai grandi agenti economici che la catturano e la indirizzano verso scopi di profitto rendendoci sempre più “una categoria di morti viventi deprivati di originalità che hanno appena coscienza di vivere se non quando svolgono qualche attività convenzionale”, come curiosamente già scriveva Robert Louis Stevenson nel 1877 (Una apologia degli oziosi).
Nel liquido amniotico della iperconnessione il controllo sulla nostra attenzione si è danneggiato, si è come sfilacciato in tanti frammenti e questo ci sottopone a una sorta di reificazione contro la quale non c’è che l’antagonismo del rifiuto di agire: questo è il tema che l’artista americana Jenny Odell propone come estrema sfida al neo-liberismo, la più aggressiva delle forme di capitalismo, nel suo Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione (Hoepli, 2022, pagg.248). In un mondo di singoli-performer, dice, nel quale è la produttività che determina il valore di ciascuno, il solo non fare niente può diventare la risposta più dura, la massima delle insubordinazioni. Esemplare la provocazione di The Trainee, la performance artistica della finlandese Pilvi Takala che si fa assumere come impiegata e passa le giornate in silenzio a guardare la sua scrivania vuota o a salire e scendere dall’ascensore fino al punto in cui i colleghi esasperati scrivono e-mail di denuncia al capoufficio.
Va da sé che questo non fare niente è solo un eufemismo che allude in realtà a un agire alternativo capace di costruire una nuova coscienza sociale. È un problema di sottrazione, di depotenziamento della forza vitale umana che va riconquistata. Certo non è nuova l’idea di rifiutare la società in cui ci capita di vivere, in ogni epoca c’è stato chi si è misurato con questa opzione. Si tratta ora di vederne le implicazioni nel contesto globale attuale, che comprende fenomeni e masse critiche mai viste.
Il problema, dice Odell (con Gilles Deleuze), “non è più quello di fare in modo che le persone si esprimano, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio, a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire”, p.2). Per questo è del come più che del se “uscire” da questa società che dobbiamo occuparci. Con piglio tutto americano, cioè molto pragmatico, l’autrice analizza quella che chiama l’“anatomia del rifiuto”, da Diogene il Cinico del IV secolo a. C., alle comuni degli anni ’60, al “rifiuto sul posto” di Bartleby lo scrivano, il gesto che forse li riassume tutti: con il suo “preferirei di no”, il personaggio di Herman Melville non si sottrae al fare, ma “scava una sorta di lingua straniera dentro la lingua stessa, per rendere silenzioso l’intero confronto, per farlo cadere nel silenzio” (p.73).
Viene in mente l’“economia generale del dispendio” di Georges Bataille per cui “malgrado la razionalità indichi nell’utilità il movente principale delle azioni umane, le sfere più importanti della nostra esistenza – si pensi all’erotismo, all’arte, alla cultura, alla religione, al pensiero stesso – si reggono sulla nozione di spreco, di consumo improduttivo. (…) come il sole, che effonde incessante i suoi raggi su ogni cosa” (così sintetizza Andrea Tagliapietra nel suo prezioso Il dono del filosofo, Einaudi 2009, p.23).
La follia di parole e immagini dell’economia dell’attenzione, confondendo la connettività con la sensibilità (Bifo Berardi, p.84), ci sottrae al mondo. E ciò che ci serve, ormai, è il suo recupero nella sua sostanzialità spazio-temporale. Per questo abbiamo bisogno di “nuovi esercizi di attenzione”, a cominciare dal modo in cui percepiamo gli altri: dobbiamo passare dal contatto di estraneità dell’Io-Esso all’intimità dell’Io-Tu – per riprendere L’io e il tu di Martin Buber del 1923, che Odell recupera. Bellissimo l’esempio della “community network” di Nextdoor (…la porta accanto): un servizio di social networking di quartiere realizzato per mettere in contatto i vicini tra loro, proprio quelli che poi incontri per strada o al supermercato (p.178).
Insomma, secondo la scrittrice americana, si tratta di “recuperare il contesto” in cui si vive, lo “spazio dell’apparire”. Come diceva anche Hannah Arendt: “Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere insieme delle persone. (…) Solo dove gli uomini vivono in una prossimità tale che le potenzialità dell’azione siano sempre presenti, il potere può restare con loro” (Vita activa. La condizione umana, Bompiani 2009, p.185). Forse più che di un recupero fattuale dovremmo preoccuparci di ricostruire una “tensione a” riconsiderare il contesto empirico in cui ci muoviamo. Che so, una sorta di nuovo luddismo che disinneschi l’economia dell’“always on” e ci restituisca l’umana attenzione.
Pare che una volta Jaques Lacan in un seminario in cui erano presenti Barthes, Sartre, Lévi-Strauss, Pontalis, Starobinski abbia urlato: “La realtà è dove s’inceppa!” (lo ha raccontato Daniel Pennac in Repubblica, 04.08.2019). Io credo che non ci sia miglior viatico di quell’urlo: nel fango di una evidente de-cadenza contemporanea serve partire dal punto in cui la realtà s’inceppa, e riattivare le capacità “incendiarie” della nostra intelligenza. Per uscire dalla miseria in cui è precipitato il simbolico come ci ha fatto capire Bernard Stiegler con La miseria simbolica (vol.1 L’epoca iperindustriale e vol.2 La catastrofe sensibile, Meltemi, 2022). Per una riappropriazione del potenziale generativo del pensiero nostro e quello delle macchine nostre creature. Per un nuovo poiéin.