Compassione e giudizio / Considerazioni sulla guerra
Come ogni guerra, anche questa che il potere russo ha portato in Ucraina, è un teatro di morte e di violenza. L’atto del distruggere – vite, abitazioni, legami, istituzioni – soltanto in apparenza è strumento per un’affermazione di supremazia, di dominio territoriale, di controllo; nei fatti disvela la pulsione più propria di una politica fondata sul mito della potenza e non sulla cura della res pubblica, sui fantasmi del sacro suolo e non sulle regole del vivere civile: una pulsione che consiste nel togliere volto, pensieri, affetti, cioè singolarità vivente e senziente ai corpi di migliaia o milioni di individui, per il fatto che in un dato momento vengono considerati, in certo modo identificati, soltanto come appartenenti a un Paese ritenuto un pericoloso campo di minaccia. È dalle terre di confine che giungono sempre le minacce. Le motivazioni belliche invocano le loro ragioni, esibiscono i loro obiettivi geopolitici. Solo che nel dare forma visibile a queste ragioni, nel perseguire questi obiettivi, scelgono la via della cancellazione: di vite umane, di vite animali, di ambienti, di storia e cultura.
La politica delle armi, se osservata a distanza di qualche decennio dagli accadimenti, si è sempre rivelata come il rovescio dell’umano, e del razionale, e del sensibile. Abolizione, o sospensione, di quel sentire che fonda il sé sul riconoscimento dell’altro. Dinanzi a quel che accade in Ucraina, nelle sue regioni periferiche e nelle sue città, la condanna e l’indignazione non può che rivolgersi verso il potere politico russo e il loro primo rappresentante, ma allo stesso tempo lo sguardo e la premura e l’ansia non possono distogliersi dal dolore dei singoli, dalle morti, dai profughi, dai feriti. La compassione non può essere separata dal giudizio. E c’è ancora un altro passo nel cammino di comprensione: compassione e giudizio non possono essere riservati a un solo campo.
Accanto alle donne e ai bambini ucraini gli effetti della guerra li patiscono, in modi certo non cruenti, anche i russi, non solo per via delle sanzioni che colpiscono più i poveri dei possidenti, ma anche per via delle libertà sospese, delle opinioni censurate, dei dissensi perseguitati. In una guerra anche chi appartiene alla parte che ha generato il conflitto è esposto alla sofferenza. Un corpo ferito, e un corpo privato con violenza della vita non ha più un’appartenenza, è solo un corpo ferito, solo un corpo senza vita, e per questo la pietà, o il soccorso, non distinguono, per loro natura, il ragionevole dall’irragionevole, la causa giusta da quella ingiusta.
Quanto alle armi, la loro capacità distruttiva e la loro alleanza con la morte, con la produzione di morte, non sono neutralizzate dal fatto che chi le adopera, o lo vende, o le dona, lo fa per una causa ritenuta giusta. La loro funzione ultima è quella di uccidere e ferire.
Un punto d’osservazione difficile, quello di chi si pone nella posizione che ha la pace come orizzonte necessario, e per questo, come del resto recita la nostra stessa Costituzione, “ripudia la guerra”. Quell’articolo della Costituzione bisognerebbe scriverlo a grandi lettere sulle pareti di ogni fabbrica che produce e vende armi: l’asprezza della contraddizione potrebbe forse suggerire qualche passo in più nella critica politica della produzione di armi. Sul piano poi delle relazioni internazionali la grande questione del disarmo, e la via degli accordi progressivi tra organismi politici sovranazionali sulla dismissione di armamenti letali e di armi nucleari appare un’illusione sfiorata alcuni decenni orsono e ormai tramontata. Le spese militari nella loro roboante e proterva crescita offendono la povertà, sbeffeggiano le diseguaglianze. Irridono a ogni forma di cultura.
Un’ultima considerazione. La prossimità, l’aiuto, il soccorso rivolti alla popolazione ucraina, l’accoglienza messa in campo per i profughi, tanto più possono attingere a una compassione per dir così pura, e profonda, quanto più includono nell’orizzonte dello sguardo e della cura, e nelle ragioni dell’indignazione, altri feriti, o sottoposti a violenze, sotto altre latitudini, sotto altre condizioni. Si tratta insomma di non respingere tra gli invisibili i campi profughi libanesi, le metodiche occupazioni e aggressioni nella striscia di Gaza, i campi-lager libici, e così via.
Un’enumerazione amarissima che dovrebbe includere quel che nel passato recente è stato frettolosamente nascosto e che i nomi di Baghdad o Kabul o Damasco possono evocare. Un’enumerazione che non può distogliere e sperdere la cura, ma può anzi di volta in volta radicare questa cura su ragioni non di schieramento politico ma semplicemente umane. Possono sembrare considerazioni di comoda astrazione, che sfuggono al dovere di prendere posizione, e schierarsi, e resistere, eppure da molti anni organizzazioni come Emergency o Medici senza frontiere, e tante altre a loro simili, non fanno che muoversi, con ammirevole determinazione e dedizione, in questo orizzonte. Il loro punto d’osservazione, e non le logiche politiche e di sopraffazione e di radicamenti territoriali e nazionalisti, può dischiudere un nuovo sguardo. Forse, un nuovo tempo.