Va pensiero del Teatro delle Albe / La luce ustoria dei fiammiferi
Va pensiero, ultimo lavoro del Teatro delle Albe, coprodotto da Ravenna Teatro con Emilia Romagna Teatro Fondazione, avrebbe dovuto essere, in origine, un lavoro su Giuseppe Verdi. Invece è diventato un nuovo capitolo della serie di opere epico-didattiche delle Albe, quelle lunghe e popolose, corali, nel senso che richiamano a sé tutta la comunità di attori, tecnici e organizzatori della compagnia. Un’altra opera-manifesto con la drammaturgia di Marco Martinelli, come L’Avaro, Pantani, Vita agli Arresti di Aung San Suu Kyi, che sprofonda nell’attualità per condividere nei grandi teatri cittadini (dallo Storchi di Modena, all’Alighieri di Ravenna, per cominciare), una riflessione esemplare sulle miserie del mondo e sul valore dell’eresia; un’opera molto poco postmoderna nella filosofia e nella forma, che fa vibrare – attraverso simboli che si rivelano ustori anche nella società liquida e post-immunologica – l’archetipo emozionante della fiammella che resiste contro il dilagare del male, dell’uno contro i molti, della schiena che non si piega, neanche quando è spezzata: il Davide biblico, il Cristo, il Principe Costante, Aung San Suu Kyi.
La speranza risorgimentale messa in musica da Verdi fa allora da controcanto al pantano contemporaneo, riassunto in questo caso in una vicenda di mafia e corruzione di una cittadina emiliano-romagnola non ben identificata, dove un vigile urbano si “mette in mezzo” ad affari che non lo riguardano. Musiche della Traviata, del Rigoletto e del Nabucco, de La Forza del destino e del Trovatore si intrecciano, però, anche alle composizioni originali di Marco Olivieri, ai suoi suoni elettronici e tellurici; così la voce del coro Alessandro Bonci di Cesena diretto dal M° Stefano Nanni, sistemato in scena dietro un velatino, si leverà come un avvertimento dalla crosta sotto cui ribolle il male quotidiano, canterà le lacrime della terra una volta scoperchiato il vaso di Pandora, e la gioia della speranza strappata ai giorni venturi, sul lieto fine.
In realtà la vicenda del vigile, qui chiamato Vincenzo Benedetti, è tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto a Brescello, paese di cinquemila anime in provincia di Reggio Emilia, dove Donato Ungaro, vigile urbano in servizio a Milano, si è fatto trasferire, a cavallo del duemila, per tornare nei luoghi della sua infanzia e crescere i propri figli in un contesto meno inquinato. Spirito retto e coraggioso, Ungaro denuncerà apertamente, anche attraverso servizi giornalistici, infiltrazioni mafiose, collusioni politiche e abusivismi edilizi, guadagnandone atti intimidatori e licenziamento – e un processo da cui è uscito vincitore con tanto di indennizzo (dopo oltre dieci anni, neanche a dirlo). Nomi e ambientazioni in Va pensiero sono di fantasia, ma ogni riferimento non è per niente casuale. Anzi, nel testo di Martinelli ricorrono chiaramente tutti gli elementi della vicenda in questione: la dinastia politica dei Coffrini – comunisti con la Jaguar confluiti poi nel Pd, e quella dei Grande Aracri, ‘ndranghetisti calabresi trapiantati in Emilia, il comune sciolto per infiltrazione mafiosa, l’affare del secolo con l’Ansaldo, il negazionismo di convenienza dei collusi e quello popolare che rifiuta ottusamente di riconoscere l’esistenza della mafia nella terra rossa dell’accoglienza e della Resistenza.
Pur sullo sfondo della Storia ufficiale, al drammaturgo interessa la parabola del singolo, la misura dell’uomo nella smisurata vertigine del tempo e dello spazio; la leggibilità, la esemplarità, la riproducibilità della sua peripezia, nella melma di un sistema macrocosmico, politico, economico, che da groviglio è diventato proprio pantano, e che al di là delle facce riconoscibili su cui sfoghiamo, esaurendolo, tutto il nostro potenziale critico, è in realtà una enorme macchina infernale senza volto, in cui l’ideologia si confonde con le idee, e la strategia col compromesso, la corruzione e il garantismo con la furberia, la trasparenza con il populismo. Il bandolo della matassa alla fine si annida sempre in esseri umani in carne ed ossa, eretici rispetto a un sistema maggioritario.
Andando abbastanza a calco sul fatto di cronaca, Martinelli scrive quello che lui stesso definisce un romanzo teatrale sull’Italia di oggi, in cui la funzione di voce narrante è distribuita tra la figura del vigile Benedetti, che racconta la propria storia, quella del coro degli attori che interrompe lo svolgimento dei fatti per commentarli, anticiparli, giudicarli (e per commuoversi), e quella del Sindaco interpretato da Ermanna Montanari, ai cui a parte è affidata in maniera esplicita la voce dell’autore quando si rivolge direttamente al pubblico. Dentro una cornice narrativa, il romanzo procede appunto per scene, brevi e numerose, tra interni ed esterni vari segnalati dalle didascalie proiettate sullo sfondo.
Lo spettacolo, diviso in due atti, dura quasi tre ore, e riversa in scena un’orgia di realtà ben assortita: clientelismo dei partiti e carrierismo politico, abusivismo edilizio e speculazioni, ville, veline, rai e mediaset, vip e aperitivi e tuffi nelle piscine private. La trama consiste in un progressivo smascheramento di una rete mafiosa strisciante, che prospera senza morti e senza pistole, dove tutto passa attraverso piani regolatori più flessibili di quelli del Monopoli, e consulenze finanziarie, tra le banche, l’imprenditoria, le denunce insabbiate, il pizzo, l’omertà e la pavidità, soprattutto la pavidità. Non è la mafia di un preciso momento, di un preciso luogo. Perché più che il presente in senso stretto (fatto per esempio di Netflix molto più che di tv e di giornali) le Albe convocano il vasto immaginario legato alla intrinseca corruzione della società capitalistica: il male dei mali.
Abbondano i luoghi comuni. Martinelli d’altronde ha fatto del “luogo comune”, finanche la sua cifra drammaturgica (e una vera e propria canzone qualche anno fa), rovesciando la negatività dell’espressione nel suo contrario, come luogo, appunto, in cui ci si può incontrare, riconoscere e capire. La sua sintassi ricercatamente elementare, fatta di periodi brevissimi, ricca di ripetizioni, anafore e simmetrie, produce il ritmo di una canzone con relativi ritornelli. Il lessico della sua lingua inventata è costituito da parole-verbo (come il “dialetto di ferro” di Ermanna Montanari). Il fatto che nel suo racconto il vigile Benedetti esprima la felicità del ritorno a casa dicendo solamente che «aveva ritrovato i tortelli e la ciambella, di cui andava matto, aveva ritrovato i tramonti sul fiume» non significa semplificare i sentimenti di un uomo semplice, ma toccarli più da vicino, evocarli senza rallentamenti semantici.
In questo paesello al di qua del Po, «in una dolce cittadina circondata da valli e specchi d’acqua, là dove in un lontano passato dei monaci avevano fondato un monastero per difendersi da guerre e barbarie, per tenervi acceso un fiammifero solo di umanità», viene calato un microcosmo di politici corrotti e curatori fallimentari, in cui si costruisce il consenso popolare attraverso la complicità dei media, dove prosperano i tumori per l’inquinamento e lo smaltimento in mare o nei fiumi dei rifiuti tossici «che tanto, quelli, con i soldi che ci fanno, il mare se lo vanno a cercare da qualche altra parte».
Qui, intorno a una Piazza Mazzini di fantasia dove il vigile Benedetti (Alessandro Argnani) fa multe alle Jaguar in sosta vietata e dove non smetterà mai, fino alla fine, di lottare perché trionfi la giustizia, orbitano il boss Antonio Dragone, il mafioso che parla solo di fimmine e Lamborghini, Stefania Sacchi (Mirella Mastronardi), consulente finanziaria alla moda, la contabile che fa quadrare le tabelline alla cosca ignorante, e Edgardo Siroli (Roberto Magnani), ufficio stampa, anzi PR del sindaco, un fanatico ambizioso e pacchiano, un imbroglione manipolatore con un immaginario da Grande Bellezza, fatto di magliette bagnate, sirenette in tanga, sponsor calcistici: una moderna Dolce vita felliniana – che Martinelli condanna, perché Fellini è “l’assedio dei desideri”, il simbolo di un’Italia in cui non si riconosce.
Completa il gruppetto della vil razza dannata Sandro Baravelli (Alessandro Renda), l’imprenditore quasi onesto che fa affari più o meno disonesti, vivendo nel terrore delle intercettazioni. Licia (Laura Redaelli), invece, è la segretaria un po’ scema e un po’ oca del sindaco, che accetta qualunque umiliazione, in cambio di uno stipendio sicuro con cui pagare il corso di Yoga e di Zumba per smaltire lo schifo ingoiato di giorno – il più vero e diffuso paradosso del presente. Rosario e Maria (Salvatore Caruso, Tonia Garante), invece, sono una giovane coppia di gelatai napoletani che emigrano nell’accogliente Emilia Romagna per sfuggire alla devastazione di Napoli, e trovano un altro pizzo da pagare, e denunciano ancora una volta e ancora una volta restano inascoltati, come Benedetti. E poi c’è il contadino bonaccione Olmo Tassinari (Gianni Parmiani), ossessionato dalle nutrie e testardamente cieco di fronte all’evidenza del marcio perché «questa terra ha una lunga tradizione di accoglienza, non scherziamo», e così la colpa dei dissesti non è dell’uomo, come dicono gli ambientalisti, ma della proliferazione di quei maledetti roditori. E c’è anche il Marchesino evocato dal sindaco, il politico rampante partito dalla provincia e arrivato in parlamento, «sorriso da chierichetto pieno di sé, con la battuta sempre pronta, con quell’ego spropositato che ti esce da tutte le parti, con quell’ansia di piacere a tutti, quel rassicurare gli amici e i nemici mentre hai già pronta la corda per impiccarli. Ma come fanno a crederti? Come fanno a vedere in te il nuovo?». Ci ricorda qualcuno?
Il mondo dei cattivi di Martinelli, tutti un po’ imbecilli, macchiettistici, comici, è diviso in due: da un lato i truffaldini patentati, dall’altro i pavidi, i commessi della vita, quelli che si scaricano la coscienza perché il denaro serve, e il silenzio pure, visto che, in fondo, si deve pur vivere. Ma in generale non ci sono chiaroscuri, i personaggi sono sempre tipi, icone, maschere, nel bene e nel male, compreso il vigile protagonista, la cui integrità non vacilla mai.
Martinelli ha scritto un testo veramente sfidante per i suoi attori. Lo si nota ancora di più nell’interessantissimo incontro tra gli attori delle Albe e quelli di provenienza “esterna”. Mentre questi ultimi, Ernesto Orrico, Gianni Parmiani, Mirella Mastroianni, Salvatore Caruso e Tonia Garante, si fanno carico dei personaggi soffiandoci dentro una certa voce e una certa postura, e una pur blanda psicologia, che li rende credibili e godibili come altro da sé, gli attori delle Albe, Alessandro Argnani, Laura Redaelli, Roberto Magnani, e Alessandro Renda, pongono una profondissima distanza tra il sé e la figura che portano in scena, vale a dire che il sé se lo portano dietro, parlano una lingua in cui visibilmente non si riconoscono e lo sottolineano volutamente, giocano con un lessico volgare e pacchiano, frivolo o ottuso, che non assumono. Le Albe, cioè, sprofondano nella realtà, ma non la abitano mai del tutto, piuttosto la additano, la giudicano, la citano, la mettono in discussione.
Tornando alle figure, i confini sono netti: o buoni o cattivi, o coraggiosi o pavidi, o onesti o disonesti. La zona grigia, infatti, è tutta dentro il sindaco, “la Zarina”, Ermanna Montanari. L’unica figura plastica, umana, viva, è quella della figlia femmina di uno stalinista di ferro, che l’aveva mandata a studiare a Milano, e poi all’estero, per imporla al partito come erede della propria poltrona di sindaco. La Zarina è una donna nubile, frigida e arrogante, incapace di gestire una eredità di valori e doveri che le sono stati imposti. Fragile, rabbiosa, isterica, umanamente impastata di carne, rabbia, vergogna e viltà, si irrita per qualunque rumore nella piazza, per qualunque movimento scomposto, di fronte alla stupidità, alla semplicità, all’ignoranza. Detesta la gente volgare con cui è collusa, odia le cose sfiziose, i tanga, la volgarità, la «visione del mondo superficialmente eclettica», ricordando anche una certa spocchia di quella sinistra dalemiana che agita la penna rossa, ma con inconcludenza. Di lei, e solo di lei, sentiamo la voce interiore, i cedimenti, le motivazioni intime, la sua “nerezza” è tridimensionale e vacillante, come, nel senso inverso, era la bontà di Aung San Suu Kyi. La performatività di Ermanna Montanari, che come di consueto co-firma con Martinelli anche ideazione e regia del lavoro, il suo parlare in nome di se stessa, non viene meno affatto, nei panni di un personaggio come questo. In quella piazza, di notte, la Zarina vomita regolarmente il pane del potere che gli è stato dato dal padre, come recita sul finale in uno straordinario Padre nostro rovesciato che sembra citare il Credo blasfemo dello Jago verdiano. Il personaggio di Ermanna, in cui si presentano tutte le contraddizioni umane, è coerente con la sua “verticalità” chiaroscura. «L’arte non è al di sopra delle miserie del mondo. Noi siamo quelle miserie e la tensione a superarle», scriveva l’attrice in un testo riportato nella raccolta di scritti e interviste Primavera Eretica (Titivillus, 2014).
Il primo atto si conclude con il preludio di un atto scellerato: il progetto di costruzione di una centrale elettrica sul fiume. Il coro verdiano con La vergine degli angeli, da La Forza del destino introduce il “coro delle lacrime”: le rive dove uomini del passato «hanno lavorato come giganti, per strappare alle canne e al fango le terre sterminate, per farle buone, coltivabili», stanno per essere devastate, le nuvole diventano un cielo di piombo, una cappa soffocante, il principio di un diluvio universale. Bellissime, ancora di più nei passaggi lirici, le luci di Fabio Sajiz. Alla riapertura di sipario ciascuno ha fatto la propria parte. L’imprenditore ha gestito i contatti con la multinazionale Ansaldo, la mafia ha messo il denaro per compare i terreni ai contadini, che dovrebbe tornare indietro moltiplicato, il sindaco ha fatto modificare il piano regolatore in tempi record, e la contabile ha fatto la mediatrice, o meglio, come la definisce con spregio la zarina, la “cerniera”. Intorno a un tavolo si firma il patto scellerato.
Non solo per denaro. Ma perché, in fondo, «perché no? Non c’è più Legge per me, e forse, dentro, mi capite, dentro di me, non c’è mai stata». Cosa dovrebbe trattenere intere generazioni di figli di un secolo carico di nonsense e nichilismo, dallo svendersi, massacrare, ammazzare e rubare? Il rispetto dei principi, morali, religiosi, etici, estetici, non ha senso di per sé. La gioia intensa della ribellione e dell’eresia, quella che nasce dall’aver tenuto la “schiena dritta”, esiste laddove viene tramandata, accesa, infiammata. Tuttavia l’assenza di qualcosa di cui siamo stati privati vibra comunque, e ci tortura, come le manine degli avversari cancellati da Giustiniano che continuano a «svolazzare» nei mosaici in Sant’Apollinare Nuovo. L’ostinazione del fiammifero acceso ci incoraggia davvero, il Va pensiero cantato a luci accese in proscenio ci commuove.
In Bellezza e giustizia (Bollati-Boringhieri 2014) Luigi Zoja scrive che la necessità di giustizia non è dettata da comandamenti, ma ci viene da dentro, si impone in noi dall’interno, fa parte di una più generale ricerca di un bene assoluto, che nelle sue forme più antiche era composto inseparabilmente da giustizia e bellezza. Etica ed estetica erano inscindibili. Ciò che è giusto è bello. Qualche anno fa, proprio le Albe hanno rievocato il “sacrificio” di Jaffier in Venezia salva di Simon Weil, «dove un mercenario seicentesco che all’improvviso “vede” la bellezza della città che con i suoi compagni si sta preparando a distruggere, e si “converte”, si rifiuta al massacro, volge la tragedia annunciata in una luce imprevista». In Va pensiero Dragone vive tra maioliche argentate e colonnati neoclassici con fontana in mezzo come nelle terme dell’antica Roma, la scrivania del suo studio è un tavolo laccato d’oro kitsch, con una volgare poltrona rossa. Ancora dallo spettacolo, apprendiamo che uno dei sorvegliati speciali mandati a redimersi in terra rossa, Giacomo Riina, nipote del più famoso Totò, era anche consulente della più commerciale delle ditte di materassi industriali, la Eminflex.
In quel pamphlet divenuto celebe intitolato Il rimedio è la povertà, Goffredo Parise scrive che bisognerebbe comprare un oggetto solo quando la qualità della sua materia, la sua forma nello spazio, ci emoziona. Il teatro delle Albe ripropone una comunione di etica ed estetica di questo segno, che si oppone alla logica mercantile, idealmente e fin dove può, senza fingere di vivere fuori dal mondo. Lo spirito di “coltura teatrale” che spinge le Albe a rinnovare da oltre trent’anni la sfida di un teatro che si confronta con la polis, non proclama tanto un fare, infatti, quanto un disfare gli italiani, seguendo lo stesso principio della non-scuola. Sullo sfondo dei loro lavori c’è sempre un preciso j’accuse all’ideologia delle magnifiche sorti e progressive, del mercato, della modernità. La contro-ideologia delle Albe è sicuramente un’altra ideologia, come lo è la democrazia, come lo è qualunque sistema di interpretazione che soggiace all’organizzazione del reale. Però, proprio come diceva la leader birmana protagonista dello spettacolo precedente, «la democrazia non è perfetta, ma si dà il caso che sia migliore di altri sistemi».
Ancora in scena stasera al Teatro Alighieri di Ravenna, poi dal 9 al 14 gennaio al Teatro dell’Elfo di Milano, dal 18 al 21 gennaio al Teatro Creberg di Bergamo, dal 22 al 25 febbraio all’Arena del Sole di Bologna, dall’1 al 4 marzo al Bonci di Cesena e dal 23 al 25 marzo al Comunale di Ferrara. Marco Martinelli e Ermanna Montanari sono candidati al premio Ubu come miglior progetto curatoriale per Inferno; Ermanna Montanari ha vinto il premio della Associazione nazionale critici di teatro come migliore attrice dell’anno.