Andrew O’Hagan e la Vita Segreta / Lo scrittore come medium di massa
La Vita Segreta non è un libro su internet, come è stato da molti presentato. Sì, è vero, racconta tre personaggi che rappresentano un bel pezzo della cultura digitale favorita dall’ascesa di internet ma non è per questo che ha senso leggere il libro.
La Vita Segreta (tecnicamente una raccolta di tre saggi (long form essays) pubblicati in precedenza sulla London Review of Books) è un libro che riconcilia con la scrittura. Ancor prima di ciò che racconta, il libro è importante perché ci restituisce speranza sul ruolo dello scrittore nella società. O’Hagan trasforma lo scrittore in un medium di comunicazione di massa: uno scrittore che scompare, nonostante la narrazione in prima persona, per farsi letteralmente medium, apparato, canale di comunicazione tra il lettore e le vite dei personaggi narrati nel libro. La scrittura di O’Hagan ha il potere di portarci a pochi centimetri dalla vita e dal corpo di tre persone che non abbiamo mai incontrato e di cui abbiamo sentito soltanto parlare: Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, “Ronnie Pinn”, uno sconosciuto uomo britannico morto negli anni ottanta al quale l’autore ridà vita online creando suoi profili fake sui social media, e Craig Wright, il potenziale inventore dei bitcoin.
Qui per esempio, mentre passa mesi nel casale di campagna prestato da un amico dove si rifugia Assange, e cerca disperatamente di onorare il suo contratto come ghost writer dell’hacker australiano, riesce a farci vedere quella scena da un punto di vista nuovo:
“Era entusiasmante pensare, in quel casale così Jane Austen, che nessun romanzo aveva mai raccontato questo nuovo tipo di storia, in cui segreti militari su scala globale vengono rivelati da una combriccola di dilettanti assonnati a due passi da una cucina Aga.”
L’aura eroica o fortemente critica emanata dai diversi resoconti mediali sulla figura di Assange usciti negli anni si sgretola di fronte alla semplicità di questa frase: gli attivisti digitali che hanno rivelato i segreti diplomatici della nazione più potente del mondo non sono che una combriccola di assonnati, indisciplinati post-adolescenti chiusi in una cucina.
Aprendo il libro finiamo in uno scivolo, come un condotto chiuso, che ci trasporta virtualmente dentro una nuova stanza, in compagnia di questi 3 personaggi. La ricostruzione di O’Hagan è così vivida e ricca di dettagli che sembra di essere lì, seduti a pochi centimentri da Assange, insieme allo scrittore. Mai come attraverso questo libro ho avuto la chiara percezione, forse l’ennesima illusione, di aver capito profondamente la figura contraddittoria di Julian Assange. Nessun servizio televisivo, nessuna immagine dalla sua prigionia nell’ambasciata ecuadoriana, nessun reportage, nessun documentario video me ne ha mai restituito un’immagine così in alta definizione come quella ricreata dal suo ex scrittore fantasma. Quando la scrittura raggiunge questo livello di profondità e di vicinanza all’oggetto della narrazione lo scrittore riconquista un ruolo centrale nella società.
Ma in questa sua capacità di restituire immagini in HD, ad alta definizione, il libro nasconde un aspetto paradossale: tanto è realistico il racconto delle vite di queste tre persone, tanto è fantasmatica la presenza di queste tre persone nel mondo: tutte e tre le storie sono storie di corpi (Assange) e identità (Pinn e Wright) nascoste al mondo. Lo stesso scrittore, nella prima storia, non può rivelarsi, perché sta scrivendo l’autobiografia di Assange come ghost writer. Uno scrittore fantasma che scrive di fantasmi, in un mondo popolato da autori invisibili:
“l’impressione che il mondo di oggi sia diventato, più che mai in passato, il prodotto di autori fantasma. Non lo è forse tutta Wikipedia? Non lo è per una buona metà Facebook? E il world wide web non è un nuovo etere in cui tutti siamo perseguitati da scrittori fantasma?” (p. 22)
È un libro popolato di fantasmi, ai quali l’autore restituisce un corpo e un’identità, svelando la segretezza delle loro vite.
E una volta svelate, queste vite, si rivelano in tutta la loro inettitudine, come nel caso di Assange: “A chi gli chiedeva di lavare i piatti rispondeva che stava cercando di abolire la schiavitù economica in Cina e non aveva tempo per le stoviglie” o ancora: “Julian era spesso noioso o pesante, ma aveva una curiosa incapacità di rendersene conto. Parlava incessantemente, come se tutto il mondo gli chiedesse di farlo. Non poneva mai domande, cosa insolita per un dissidente. I sinistroidi che ho conosciuto sono sempre pieni di domande, mentre Assange, fin dal primo momento, pareva l’incarnazione di una chat room iperpnoica”
Oltre ad essere un libro sui fantasmi, è soprattutto un libro sull’identità e su quanto ci illudiamo di conoscere gli altri: O’Hagan racconta tre storie di persone che non sono quello che dicono di essere, o che sono molto più e molto meno di quello che dicono di essere, o di come sono state raccontate dai media. E il racconto è così preciso che ci sembra di vederle e di aver capito come sono davvero queste persone, crediamo di aver finalmente cominciato a capire chi sono realmente. Eppure, quelle che ci appaiono per tutto il libro come delle rivelazioni (la rivelazione della vera personalità dietro il genio di Assange, la rivelazione della vera identità di Ronnie Pinn, la rivelazione della vera identità di Satoshi, l’inventore dei bitcoin) alla fine del libro non sono che finzioni. Cioè, O’Hagan non ci racconta il falso, non travisa le parole che ha registrato dalla voce di Assange o Wright, ma il ritratto che ne esce fuori non può che essere un’approssimazione, magari molto vicina, della realtà, ma pur sempre una finzione, una storia immaginata e filtrata dallo scrittore.
“Mettiamo che tu fossi il trenta percento di Satoshi. Eri lì alla sua nascita, facevi parte di un gruppo geniale. Hai scritto del codice, hai condensato il lavoro degli altri, e hai condiviso le chiavi crittografiche. Poi, l’anno scorso, ti sei promosso a un ottanta o novanta percento. Eri già più Satoshi di quanto chiunque altro fosse mai stato, ma l’accordo, ai tuoi occhi, esigeva che tu lo fossi di più, e alla fine non ce l’hai fatta” (p. 218) … “Potrebbe essere uno dei più grandi informatici della sua generazione o un irresponsabile opportunista, o entrambi. Non possiamo saperlo” (p. 219).
Non sapremo mai se Wright sia davvero Satoshi, o se è solo il 30% di esso, se Satoshi è come Omero e ha più identità, o se davvero Wright è Satoshi all’80%. Non esiste un confine tra realtà e finzione. La membrana che separa l’ultima pagina del romanzo dal mondo fisico che sta attorno ad essa, è una membrana astratta, virtuale, e sottilissima.
Abbiamo appena finito un libro e crediamo di saperne molto più di prima sulla vita di quei tre personaggi, ma allo stesso tempo sappiamo anche che non è così, che quello che sappiamo è solo finzione, o meglio, è in parte reale e in parte finzionale, ma non ne conosciamo le percentuali, come nel caso di Wright/Satoshi.
Alla fine, e solo alla fine, capiamo perché questo libro ci parla anche di internet, parlandoci di identità: perché internet è il regno delle identità molteplici, è il medium che più di tutti ci ha permesso di sviluppare/estendere le nostre molteplici identità. Se Pessoa avesse avuto internet avrebbe forse avuto più di sei eteronimi, o almeno avrebbe creato sei diversi profili Facebook. Internet ha contemporaneamente liquefatto e rafforzato le nostre identità. Così come la stampa, sosteneva Benedict Anderson (1983) aveva rafforzato l’identità nazionale ottocentesca, opera poi proseguita da radio e tv nazionali, internet all’opposto ha rafforzato le identità dei singoli, le ha frammentate, moltiplicate, liquefatte, gli ha dato la possibilità di viaggiare nel tempo (identità basate sulla nostalgia) e nello spazio (identità diasporiche).
Ognuna delle tre figure umane raccontate nel libro riproduce una dissonanza tra l’io digitale e l’io reale, due (o più) identità che non si sovrappongono mai del tutto, che sono perennemente in conflitto.
Chi è Julian Assange? I media hanno risposte semplici e contraddittorie: un terrorista, un criminale, un hacker, un attivista, un violentatore, un idealista, un romantico, un anarchico, un filo-putiniano, un dissidente, un politico.
Questo libro invece risponde che non è possibile dare una risposta unica. Durante la rivoluzione egiziana del 2011 Hosni Mubarak tentò di spegnere la rete di telefonia mobile del paese, un servizio fornito dalla compagnia telefonica canadese Nortel. Julian e i suoi penetrarono nei server della Nortel e si scontrarono con gli hacker ufficiali di Mubarak per mandarne a monte il tentativo. La rivoluzione proseguì e Julian, “soddisfatto, si rilassò mangiando cioccolatini nella nostra remota cucina” (p. 39). “Al suo meglio, Julian rappresentava una nuova modalità di esistenza in relazione all’autorità. Non è realmente di sinistra, non saprebbe distinguere il materialismo dialettico da una scatola di noccioline. Odia i sistemi di credenze, odia tutti i sistemi, vuole essere sul serio un fantasma nella macchina, entrare nella stanza dei bottoni e spegnere le luci” (p. 39).
Ma Assange non è solo questo, è, agli occhi di O’Hagan, un paranoico, un plagiatore, un insicuro narcisista, un idealista negligente, un adulto con la mente di un adolescente che vuole diventare una rockstar… e molto altro.
“L’uomo che si era fatto carico di rivelare i segreti del mondo non riusciva, banalmente, a sopportare i propri”.