Stravinskij intramontabile
«Che cosa intende dire quando afferma che i critici sono incompetenti?»
«Intendo dire semplicemente che essi non posseggono neppure gli strumenti per giudicare la grammatica della musica. Non vedono com’è costruita una frase musicale, non sanno come si scrive musica; sono incompetenti sulla tecnica del linguaggio musicale contemporaneo. I critici mal informano il pubblico e ritardano la comprensione. Per colpa dei critici molte cose di valore giungono troppo tardi».
La bordata pubblicata alla fine degli anni ’50, nel primo volume dei Colloqui redatti dal direttore d’orchestra e fedele “famulus” Robert Craft, riassume come meglio non si potrebbe il rapporto più che problematico che Igor’ Stravinskij ebbe con i critici per tutta la vita. Un’amara sfiducia, una stizzita e ironica insofferenza che lo portò ben presto a decidere di “arrangiarsi” per affermare l’immagine, il senso, la qualità della musica che andava componendo. Le sue esternazioni iniziano con la precoce autobiografia Croniques de ma vie (pubblicata a Parigi nel 1935, quando aveva 53 anni), proseguono con la Poétique musicale (1942), che contiene e rielabora una serie di lezioni tenute ad Harvard e si sviluppano ampiamente nella serie di pubblicazioni tra fine anni Cinquanta e fine anni Sessanta in cui il musicista dialoga appunto con Craft. Sono interviste per modo di dire (il termine “colloqui” se non altro rende con più precisione l’idea della natura di questi lavori), visto che certamente non contengono alcuna domanda sgradita o difficile, o semplicemente non concordata. Di fatto, le domande giustificano il fluviale (per quanto naturalmente assai prezioso) mémoir a tesi di cui consistono questi libri, lungo il quale il musicista si racconta, rievoca gli eventi della sua vita artistica e mette a fuoco la sua idea di musica.
Se in questi casi l’estensore ha nome e cognome, e come suol dirsi ci mette la faccia (ben poco apprezzato, in molti casi, dalla vituperata categoria dei critici, specialmente quelli americani), per quanto riguarda le pubblicazioni precedenti – che recano solo la firma del compositore – è stata chiarita dagli studiosi la presenza spesso decisiva di svariati “ghostwriters”, di volta in volta ispiratori ed estensori dei testi. Il metodo la dice lunga sulla volontà di Stravinskij di cavalcare l’onda della modernità anche sul versante mediatico: lo scopo di quei libri (e dei numerosi interventi sulla stampa, spesso in prima persona attraverso le cosiddette “lettere aperte”) era portare in primo piano la figura del compositore nel febbrile e piuttosto affollato mondo musicale del Novecento, a cavallo della Seconda Guerra mondiale. Argomentando e difendendo le sue scelte di stile, polemizzando con i recensori e se necessario anche con i colleghi compositori. Indirizzando i lettori, insomma, se non proprio cercando di condizionarli. E pazienza se in più di qualche occasione, nella successione delle prese di posizione, emergevano contraddizioni dialettiche e perfino di poetica. Del resto, Stravinskij ha sempre giustamente difeso la sua libertà di cambiare opinione.
Il versante mediatico della parabola artistica e umana di Stravinskij ci appare centrale ancora oggi, pur presentando elementi inevitabilmente datati e a tutti gli effetti storicizzati. Anzi, proprio la sua straordinaria volontà di essere nel presente in tutti i suoi aspetti spinge a chiedersi come si sarebbe comportato il compositore russo – scomparso nel 1971 all’età di 89 anni – nell’era dei social network, della comunicazione diffusa e pervasiva dominata dall’incompetenza, delle narrazioni paradossali, delle “fake news”. Una risposta implicita ma chiara arriva dal più recente libro di argomento stravinskiano pubblicato in Italia, la raccolta di saggi Musica al presente, sottotitolo Su Stravinskij (Il Saggiatore 2024, pagg. 468, € 28,00): si può immaginare che l’autore del Sacre non si sarebbe tirato indietro, perché – come si legge nello “strillo” in quarta di copertina – è portatore di una “inestinguibile attualità”.
Del libro sono autori due musicologi di generazioni diverse, Gianfranco Vinay (1945) e Massimiliano Locanto (1971), entrambi autorevolmente impegnati da molto tempo negli studi stravinskiani. Il primo nei suoi saggi qui pubblicati aggiorna il “caso Stravinskij” alla luce di una sapida rilettura delle vicende biografiche, artistiche e appunto mediatiche; il secondo adotta una metodologia innovativa e per molti aspetti rivelatoria anche nell’approccio tecnico, dedicato al fatto compositivo in quanto tale. Entrambi sottolineano l’importanza, spesso sottovalutata, della relazione di tante musiche stravinskiane con il balletto. Un tipo di teatro nel quale gesto fisico, corporeo, e gesto musicale trovano una relazione rivelatoria, unica e decisiva nella definizione della modernità di Stravinskij.
I due autori sostengono la necessità di andare oltre gli schematismi delle varie fasi creative, nelle quali è definitivamente accertato il comune denominatore delle origini russe (lo chiarì nel 1996 il grande musicologo americano Richard Taruskin in Stravinsky and the Russian Traditions). E sottolineano quanto il corpus creativo stravinskiano abbia una continuità e una coerenza che va oltre gli stili, siano essi quello “barbarico”, quello neoclassico o quello modernista seriale/dodecafonico.
Quella di Stravinskij, scrivono i due studiosi a quattro mani nella Prefazione, è musica “del presente” e “sorprendente”, «che rifuggendo ogni spinta utopistica verso un avvenire idealizzato, assume continuamente una nuova luce, solleva nuovi interrogativi e assume nuovi significati rispetto al mondo che cambia». Lettura intrigante. Poi, che tale musica sia “tuttora fortemente presente nella nostra cultura”, come anche viene affermato, è assioma più opinabile, soprattutto se si fa riferimento al nostro Paese. Certo, nel mondo gli studi sull’autore russo non si sono mai fermati – l’Introduzione del libro offre una sorta di bibliografia ragionata sul loro sviluppo negli ultimi cinquant’anni, fitta di titoli e autori anglosassoni – ma in Italia l’attenzione recente a livello editoriale, nonostante il cinquantenario della morte nel 2021, non si è spinta più in là della riedizione della storica monografia di Roman Vlad , uscita per la prima volta quando il compositore era in piena attività, alla fine degli anni Cinquanta (Il Saggiatore 2021, pagg. 486, € 42,00) e progressivamente aggiornata. E di una biografia firmata per l’editore specializzato Zecchini da Alessandro Zignani. Per la Libreria Musicale Italiana – LIM, inoltre, è uscita da poco una monografia su L’uccello di fuoco dello stesso Locanto.
Non stupisce quindi che molti dei saggi compresi in Musica al presente provengano da lavori originariamente pubblicati dai due studiosi italiani nell’ultimo decennio all’estero: in Belgio, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna. E quanto ai fatti esecutivi/rappresentativi, che rimangono decisivi nel valutare la “presenza” di un compositore, si può solo osservare che Stravinskij da qualche tempo ha ormai cessato di essere una presenza costante nei programmi concertistici, con le eccezioni dei tre grandi capolavori ballettistici degli anni Dieci (L’Uccello di fuoco, Petruška e Le Sacre du Printemps) e di qualche sporadica apparizione delle composizioni della fase neoclassica. I lavori scritti con la tecnica seriale, quelli nel genere sacro e un bel po’ di musica strumentale rimangono oggi di raro ascolto dal vivo.
“L’uomo fu più famoso della sua musica”, ha scritto Alex Ross (Il resto è rumore – Ascoltando il XX secolo, Bompiani 2009, ora in edizione economica), alla conclusione di una peraltro ben argomentata e spesso lusinghiera messa a punto della vicenda artistica stravinskiana. Un’idea per molti aspetti agli antipodi del “ritratto per dettagli” delineato da Vinay e Locanto, ritratto che rende comunque importante il loro libro. Perché illumina di luce nuova quanto osservava più di quarant’anni fa Massimo Mila: «Finché esisteranno uomini per i quali siano valori positivi l'ironia, l'understatement, l'intelligenza, l'economia dei mezzi, l'asciutta esattezza delle formulazioni, la sobrietà del dire e la precisione dei contorni, l'arte di Stravinskij splenderà altissima sull'orizzonte (Compagno Strawinsky, Einaudi 1983). E perché delinea una sostanziale “attualizzazione” delle argomentazioni critiche. A dimostrazione del fatto che l’opera di Stravinskij ha tutto per resistere e che le nuove istanze della musicologia, quelle che si sono affermate dagli anni Novanta in poi, possono trovare in essa una miniera di suggestioni utili ad analisi nuove e approfondimenti diversificati.
Completato dalla pubblicazione di alcuni scritti inediti in Italia di Stravinskij, per la prima volta tradotti dai due autori (fra essi, l’illuminante introduzione destinata a una monografia del musicologo Glenn Watkins, Gesualdo da Venosa: nuove prospettive), il volume di Locanto e Vinay è suddiviso in tre parti. Nella prima, Suono, gesto, parola, tempo, l’accento è posto sulla musica stravinskiana specialmente all’epoca dei successi con i Ballets Russes e nella prima fase neoclassica. Si mette a fuoco il carattere anti-realistico e anti-naturalistico del suo linguaggio, la sua lontananza dalla parola in quanto agente significante. Ovvero si sottolinea la sostanziale oggettività del suo stile – ben prima dell’avvento delle astrazioni del periodo neoclassico. E si chiarisce quanto sia legato alla “corporeità”. Ma si indaga anche in che misura le abitudini compositive pratiche del musicista russo, che utilizzava sempre il pianoforte nella prima fase creativa, abbiano avuto un ruolo fondamentale nel creare il suo caratteristico panorama armonico sfuggente e complesso, spesso lontano da rassicuranti schemi tonali. E si capisce come i gesti quasi improvvisatori del compositore alla tastiera abbiano avuto un ruolo fondativo e decisivo per il suo linguaggio.
Già in questa sezione vengono messe a fuoco relazioni culturali fondamentali ancorché talvolta burrascose (con Gide per Perséphone, con Balanchine per Orpheus), particolarmente influenti nel determinare il linguaggio stesso delle partiture. Ma l’argomento viene approfondito specialmente nella seconda parte, Stravinskij e gli altri. Qui c’è spazio per un’ampia e circostanziata ricognizione sulle accoglienze avute dalle partiture stravinskiane per i Balletti Russi a Parigi dal 1914 al 1929, cioè da Le Rossignol a Oedipus Rex e Apollon Musagète, passando per Pulcinella, Renard, Mavra e Les Noces. Un universo cangiante e di ardua complessità, che spesso mise in difficoltà pubblico e critica. Creando le condizioni per la “strategia comunicativa” di cui si parlava all’inizio, che avrebbe sempre più preso piede a partire dagli anni Trenta.
Oltre ai gustosi dettagli sulla polemica permanente con i critici, esplosa in particolare dopo l’emigrazione negli Stati Uniti (Il Compositore e “Fratello Criticus”), si trova in questa sezione uno dei saggi più interessanti, quello firmato da Massimiliano Locanto che ha per titolo “Obiter dicta”. L’immagine di Verdi nello specchio di Stravinskij. Insieme a quello che subito lo segue (Il passato reso presente: Stravinskij e Carlo Gesualdo), il lavoro offre una serie di puntualizzazioni sia sulla musica “alla maniera di” che sul citazionismo che sembra spesso dominante nella produzione stravinskiana non solo nella fase neoclassica ma anche in quella seriale. Notazioni illuminanti per capire le apparenti “giravolte” del musicista russo anche rispetto alle sue proclamate e talvolta, nel corso del tempo, contradditorie preferenze. Tutte posizioni in realtà strettamente collegate – causa ed effetto insieme – a una prassi creativa che trasforma il soggettivo in oggettivo. Fermo restando il totem a cui Stravinskij rimase fedele per tutta la vita: la non espressività della musica.
Nella sezione Musica, media, rimediazioni sono infine raccolte le riflessioni sul problematico rapporto di Stravinskij con il cinema, compresa una nitida analisi della “elaborazione” che della musica del primo Quadro del Sacre fu realizzata da Leopold Stokowski per il cartone animato celeberrimo di Walt Disney, Fantasia (1940). E compreso, specialmente, il catastrofico tentativo di approccio alla televisione con The Flood (1962), flop doloroso dopo il quale Stravinskij dovette prendere atto dell’impossibilità di proporre a un pubblico di massa una musica modernista.
Infine, l’approfondito esame della “ricostruzione” della coreografia di Vaslav Nižinskij per il debutto del Sacre nel 1913, realizzata a fine anni Ottanta e successivamente approdata in video in tre differenti versioni, conduce Gianfranco Vinay all’unico testo scritto appositamente per questo libro. Si tratta di una Postilla in tempore belli nella quale la vicenda biografica del compositore russo “cittadino del mondo” viene esaminata da un lato chiarendo lo spirito eurasiatico, implicitamente slavofilo, del lavoro che porta in scena gli arcaici e cruenti “Quadri della Russia pagana”, e dall’altro considerando il suo possibile legame ideologico con il nazionalismo alla base della guerra d’invasione dell’Ucraina scatenata due anni fa da Putin.
Stravinskij fuggì dalla Rivoluzione russa prima in Francia e poi negli USA, argomenta Vinay, e fu sempre considerato di tendenze conservatrici. Ma soprattutto negli anni del Sacre, secondo le linee dell’eurasismo, era anti-tedesco e quindi antieuropeo, e considerava la decadenza zarista frutto di un’esagerata commistione con il mondo occidentale. Posizioni poi attenuate ma sempre presenti sottotraccia, anche nel rifiuto della tendenza tipica del realismo socialista sovietico a riappropriarsi in chiave populista della tradizione mitteleuropea. La collocazione culturale del maggior capolavoro stravinskiano e in generale della sua produzione – conclude Vinay – obbliga a una visione stereoscopica fra Occidente e mondo slavo: «Il che non significa una conciliazione fra le due idee. L’arte, quella vera, si sa, risolve i problemi in modo enigmatico: interpella, pone delle domande, inquieta».
Per fortuna non risulta – almeno finora – che Le Sacre du Printemps sia stato strumentalizzato in chiave ideologica, come di recente è avvenuto, sconsideratamente, per il Boris Godunov di Musorgskij.