Death Education / Covid-19: il tabù della morte
Sabato 12 settembre, alle 9,30, un centinaio di persone si è dato appuntamento su una piattaforma online per dialogare insieme per quattro ore – con la tecnica dell’Open Space Technology – a partire dalla domanda “Di cosa abbiamo bisogno per commemorare i nostri cari morti durante l’epidemia di Covid-19?”. La tecnica dell’Open Space Technology, nata 35 anni fa da un’intuizione di Harrison Owen, prevede che i partecipanti possano lavorare come meglio credono, discutendo riguardo a temi proposti sul momento e secondo le modalità di lavoro ritenute più utili e produttive. Escluse quindi le lezioni frontali e il linguaggio accademico, cento persone di età e di estrazione sociale e culturale differente hanno condiviso liberamente le proprie esperienze e opinioni sul lutto al tempo del Covid-19, introducendo istanze di riflessione sotto la guida di un gruppo di facilitatori (tra cui il sottoscritto).
Pertanto, operatori sanitari, volontari, esponenti di associazioni e persone comuni in lutto durante la pandemia, provenienti da tutta Italia, hanno occupato in un primo momento uno spazio online comune per definire le caratteristiche dei lavori da svolgere, dividendosi in un secondo momento in piccoli gruppi all’interno di alcune “stanze” chiamate “giardini virtuali” per discutere di lutto, di riti funebri, nonché di morte e mortalità in senso generale. Alla fine, è stato stilato insieme un report sui punti principali emersi durante le conversazioni, in modo da trarre più indicazioni utili su cui imbastire future attività. L’iniziativa, gratuita e patrocinata dalla Croce Rossa, dalla Federazione Cure Palliative e da altre associazioni e fondazioni impegnate nella cura e nell’assistenza dei malati, è frutto delle idee della Scuola Capitale Sociale, la quale ha creato un corso – “la condivisione sociale del lutto da Coronavirus” – caratterizzato da quattro incontri online e gestito da professionisti e docenti nel campo dei Death Studies.
Più unica che rara, questa iniziativa, nel mettere a frutto con intelligenza le potenzialità delle tecnologie digitali per rendere possibile la condivisione di idee in uno spazio pubblico orfano momentaneamente di presenza fisica, ha altresì portato alla luce il bisogno di affrontare senza peli sulla lingua quello che continua a essere il tabù per eccellenza della nostra società: la morte. “Non resti incinta se parli di sesso, non muori se parli di morte”: le sagge parole di Susan Barsky Reid, una delle ideatrici dei Death Café, eventi pubblici no-profit intenti a rendere le persone consapevoli della propria mortalità all’interno di una cornice in grado di metterle a proprio agio (pasticcerie, torterie, bar, ecc.), non riescono purtroppo ancora a fare breccia nella società italiana. Lo dimostra la totale indifferenza mostrata in questi mesi dalle istituzioni pubbliche nei confronti dei percorsi di Death Education, assolutamente necessari dopo un lockdown primaverile contraddistinto dalla quotidiana sensazione di essere in pericolo di vita e dalle ricorrenti immagini dei morti e dei morenti sui social network e nelle trasmissioni televisive. Questa indifferenza, effetto primo della decennale rimozione della morte dallo spazio pubblico, ha prodotto nel corso dei mesi estivi – e sta continuando a produrre durante l’attuale recrudescenza del virus – due atteggiamenti opposti ma ugualmente problematici.
Il primo atteggiamento riguarda quel numero sostanzioso di cittadini che, dopo aver trascorso le vacanze estive senza prestare particolare attenzione alle regole stabilite dallo Stato, sta ora maturando una crescente insofferenza nei confronti della pandemia, ritenuta fonte di inaccettabili limitazioni alla propria libertà individuale. Insofferenza da cui seguono forme estreme di negazionismo e di ridimensionamento del pericolo.
Alla base di questo atteggiamento non vi è soltanto la superficiale convinzione di essere invulnerabili e immuni a qualsivoglia rischio, nascondendo dal proprio sguardo il significato mortale della propria esistenza; vi è anche un’interpretazione approssimativa, retorica e insana di una domanda filosofica che è, invece, di per sé legittima: che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza? La legittimità di questa domanda deriva dalla consapevolezza dei rischi sociali e culturali che scaturiscono dall’applicazione dell’etica e della morale al processo biologico della morte, determinando una sua radicale medicalizzazione (tema su cui la bibliografia scientifica e umanistica è diventata nel corso dei decenni sterminata, soprattutto man mano che le evoluzioni tecnologiche hanno reso sempre più problematica la definizione del limite tra il vivere e il morire). Vi è, infatti, la ricorrente tendenza nella società contemporanea ad attribuire un valore morale negativo alla morte, il cui rapporto con la vita viene regolato dalla dialettica tra le categorie di giustizia e ingiustizia.
Vivere è giusto, morire è ingiusto: è difficilmente contemplabile una morte “naturale”, quale evento o processo del tutto indipendente dalle attività dell’uomo e implicito nelle leggi stesse della vita. L’unica forma di giustizia ammessa è quella che mette ogni individuo nella condizione di vivere a tempo indeterminato; l’interruzione della vita viene, pertanto, compresa come la più radicale delle ingiustizie che possa capitare a un essere umano. Morire diviene imprescindibilmente un male e un errore, a cui l’uomo è obbligato a porre rimedio con tutti gli strumenti medici e tecnologici a disposizione. Ne consegue la stretta relazione tra la causa del decesso e la colpa umana. Una colpa attribuita tanto a coloro che avrebbero dovuto impedire a tutti i costi il decesso non riuscendoci (i medici) quanto a coloro che si sono ammalati, come se la malattia fosse sempre e solo l’effetto di un comportamento irresponsabile (non è un caso che, attualmente, chi contrae il Covid-19 si affretti ad affermare in pubblico di aver comunque rispettato tutte le regole imposte dallo Stato).
Pertanto, la legittimità della domanda summenzionata si collega alle conseguenze negative di quel duplice processo di rimozione sociale e di medicalizzazione del morire, da cui derivano l’esclusione reciproca tra la vita e la morte (per cui la morte sembra cominciare solo nel momento in cui la vita finisce), la mancanza di parentela tra la salute e la malattia, l’equivalenza tra il vivere e il funzionare e, infine, la trasformazione definitiva dell’essere umano in una “unità standardizzata di malattia”, per usare le preziose parole del medico Iona Heath.
L’interpretazione approssimativa, retorica e insana di questa legittima domanda deriva dall’incapacità di comprendere il rapporto vigente tra la specifica natura di una pandemia e il riconoscimento della mortalità come ciò che definisce ogni essere umano, nessuno escluso. Il contagio del virus fa sì che il destino di tutti dipenda dalla libera scelta di ognuno. Questa scelta, pertanto, non può in alcun modo prescindere né dall’obiettivo di preservare la salute propria e altrui né dalla considerazione della mortalità quale processo pienamente integrato nella vita di ogni singolo appartenente alla comunità. Detto in altre parole: se è necessario interrogarsi sulla plausibilità di una società che non ha altro valore che la sopravvivenza in una situazione di normalità, implicando una riflessione attenta sul legame vigente tra il vivere e il morire e sulle interferenze tecnico-sanitarie consentite all’interno di tale legame, non lo è ugualmente in una situazione in cui un virus determina il destino mortale dell’intera comunità, rendendo ciascuno responsabile della vita altrui.
Il secondo atteggiamento riguarda un numero altrettanto sostanzioso di cittadini che, nel corso dell’ultimo anno, ha preso una decisione radicalmente opposta: rimanere reclusi nei propri spazi abitativi per evitare qualsivoglia rischio sanitario, ponendo di fatto sotto vetro la propria vita quotidiana e convivendo con incipienti patologie di natura psicologica. Sembra che costoro abbiano, di colpo, riscoperto la propria fragilità esistenziale al punto di scegliere l’esclusiva sopravvivenza a scapito di ogni altro valore. Come se nel periodo precedente alla pandemia non ci fosse sufficiente coscienza del legame indissolubile tra l’essere vivi e il quotidiano rischio di non esserlo più, a causa della propria costitutiva vulnerabilità e mortalità.
I dati che provengono da Telefono Amico Italia sono allarmanti: “quasi duemila le richieste di aiuto ricevute da Telefono Amico Italia, una cifra raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2019”, leggiamo il 4 settembre su Tgcom 24. In questa recente intervista, la psicologa Gloria Volpato ha descritto in modo meticoloso gli effetti nefasti del lockdown, dal punto di vista psicologico, nella martoriata provincia di Bergamo: un numero crescente di pazienti abusa di medicine autoprescritte e di psicofarmaci per rimediare all’insonnia e all’ansia, o vive con l’ossessione quotidiana di essere un potenziale untore, isolandosi volontariamente dagli altri, o, ancora, incrementa in maniera eccessiva le attività fisiche, ammettendo di non essere più in grado di gestire il controllo dello spazio pubblico in cui vive. L’aumento della sindrome da stress post-traumatico è spiegato mediante una vincente metafora: “per capirci, è come se l’evento traumatico sia un alimento che la psiche non digerisce e che viene messo in un freezer. Uno va avanti con la sua vita, ma è una persona che funziona ma non vive. Sembra stare bene ma nel tempo può sviluppare sindromi più complesse come stati depressivi, ansia e attacchi di panico che altro non sono che attacchi acuti di solitudine. Non avendo elaborato questo materiale ‘messo’ in freezer, la psiche mette in atto delle difese verso la realtà”. Difese che portano all’isolamento casalingo e, dunque, all’alienazione rispetto a uno spazio pubblico risultato all’improvviso pericoloso per la propria incolumità.
Il comun denominatore di questi due atteggiamenti differenti è, a mio avviso, la scarsa dimestichezza con il pensiero della finitezza e della mortalità, la quale produce i numerosi e variegati effetti appena indicati. Senza riflessioni metodiche, attente e continuative nel tempo, riguardo al rapporto tra un’emergenza sanitaria e l’innata mortalità che caratterizza ogni essere venuto al mondo, risulta assai difficile barcamenarsi tra le mille difficoltà psicologiche, esistenziali e sociali prodotte da situazioni particolari come quella che stiamo vivendo. In questi giorni, per esempio, l’opinione pubblica è rimasta colpita dalle dichiarazioni dell’ex deputata di Forza Italia, Nunzia de Girolamo: contratto il Covid, la donna ha spiegato ai giornalisti che la sua principale difficoltà è quella di rapportarsi correttamente alla propria piccola figlia che, terrorizzata dal contagio, ha cominciato a piangere e a disperarsi, associando il Covid-19 alla morte.
Torna utile, pertanto, tornare con la mente all’esempio iniziale relativo all’attività svolta in Open Space Technology sulle piattaforme online, per capire che le tecnologie digitali possono riempire uno spazio lasciato erroneamente vuoto, incentivando quei percorsi di Death Education ignorati dalle istituzioni pubbliche. Lo mettono bene in luce alcune importanti iniziative che si sono sviluppate principalmente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Penso, per esempio, ai cosiddetti Death Positive Movement e ai Death Doulas, i quali utilizzano i social network e ogni altro spazio online per affrontare collettivamente – senza fronzoli – il tema della morte e del lutto in relazione alla pandemia (si veda, a proposito, questo interessante articolo). Docenti universitari, medici e professionisti nel campo delle cure palliative e delle onoranze funebri conducono conversazioni quotidiane sul tema del fine vita, mettendo a frutto le caratteristiche specifiche di ogni luogo online: tra i tanti progetti, voglio menzionare Going with Grace, che integra il lavoro svolto su un sito web ufficiale con la pagina Instagram corrispondente, e TalkDeath, una pagina presente su Facebook che condivide solo articoli incentrati sul fine vita.
In particolare, Going with Grace ha la capacità di mettere a frutto la natura propria di Instagram, incentrata prevalentemente sulle immagini fotografiche e sui video, per veicolare messaggi utili alle decine di migliaia di followers: dai meme sul carattere temporaneo della vita ai video con le testimonianze dei malati. Significativo è il fatto che all’hashtag #deathdoula corrispondano oltre 24.000 post sul solo Instagram (a cui si uniscono centinaia di pagine su YouTube). A unire queste iniziative è l’applicazione alle preoccupazioni relative alla fine della propria vita, al tempo del Covid, di quel particolare sostegno a cui rimanda il termine “doula”. Il gruppo di ricerca di Boston Ariadne lab, a sua volta, ha pubblicato in Rete una guida alla conversazione con i pazienti e con coloro che temono la morte a causa del Covid-19, dando istruzioni relative alle formule linguistiche da utilizzare, alle modalità di compilazione dei testamenti, alle questioni più dolorose in presenza di un lutto. Pare che il kit predisposto sia stato scaricato da novemila persone.
In altre parole, è stato intensificata un’attività online di Death Education, che sia nella realtà americana che in quella britannica viene portata avanti da diversi anni, come dimostra l’ormai celeberrima pagina Ask a Mortician su YouTube di Caitlin Doughty, i cui libri stanno cominciando a essere tradotti anche in italiano (Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio è del 2018, mentre un mese fa è stato pubblicato Il mio gatto mi mangerà gli occhi?).
Secondo quanto riporta un sondaggio dell’organizzazione di beneficenza Hospice Uk, gli effetti di queste iniziative si sono fatti concretamente sentire: nel corso del 2020 il 40% dei britannici che ha perso un familiare a causa del Covid-19 ha espresso le sue ultime volontà, mentre un terzo ha pianificato il suo funerale (meno di un quinto di tutti i britannici ha fatto finora una di queste due cose, cfr. a proposito il seguente articolo). Addirittura, secondo questo altro articolo del New York Times, vi è stato un aumento esponenziale di richieste di pianificazione delle proprie eredità non solo materiali ma anche digitali (come la scrittura di un ultimo tweet da pubblicare una volta deceduti, a dimostrazione del ruolo sempre più significativo delle tecnologie digitali nella vita quotidiana delle persone).
A mio avviso, occorre imitare questi progetti anche in Italia, mettendo a frutto il potenziale sociale e comunitario della dimensione online. In tal modo, è possibile offrire ai percorsi di Death Education quella visibilità necessaria affinché le istituzioni pubbliche prendano coscienza del problema e delle necessità di rompere il tabù pubblico della morte. Ovviamente, è impensabile eliminare del tutto la paura, l’ansia, il dolore che derivano da un pericolo, fino a qualche mese fa non previsto, e dalla perdita improvvisa di un numero sostanzioso di persone amate. Tuttavia, una riflessione metodica, attenta e guidata dai professionisti nel campo del fine vita garantirebbe una maggiore razionalizzazione dei comportamenti individuali e collettivi, la quale può in un certo qual modo limitare le conseguenze negative dei due atteggiamenti sopra descritti a favore di una più equilibrata convivenza nello spazio pubblico, soprattutto ora che siamo in attesa di una seconda significativa ondata del contagio da Covid-19.