Raffaello e l’alfabeto degli esseri celesti
Il San Sebastiano (1501-1502 ca.) di Raffaello, dell’Accademia Carrara di Bergamo, regge una freccia nella mano destra, simbolo del suo martirio scampato, e guarda assorto verso una vicina lontananza. Il manto rosso è bordato con caratteri di un alfabeto che non sembra appartenere alle famiglie dei linguaggi conosciuti. Nella mostra Raffaello, l’eco del mito sono presenti scritture segrete, in forma di ornamentazioni epigrafiche, anche sulle vesti delle Madonne e dei santi dipinti dai maestri guardati da Raffaello, quando era dodicenne: nella Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni evangelista e Agostino (1494) di Perugino, nella Madonna della Pace (1495 circa) di Pintoricchio.
In numerosi casi della storia dell’arte, tra Duecento e Cinquecento, molti pittori hanno racchiuso nelle aureole dei santi, e dipanato sui manti o sui troni, caratteri di una lingua sconosciuta, una lingua dei cieli, pronunciata iconicamente per gli occhi che sanno intuire i messaggi spirituali. A volte sembrano segni di alfabeti pseudocufici o di altre culture. Il senso sotteso crea un'attesa entro la quale stabilire un contatto con una realtà nimbata dall'oro della rivelazione. Evocano un’alterità, l’ignoto.
A prescindere dal vero significato degli alfabeti presenti sui manti e nelle aureole degli angeli e dei santi, i segni misteriosi alludono a una lingua evidentemente di origini celesti, visto che orna gli abiti di coloro che sono in paradiso. Gli artisti traducono in segni grafici una sorta di lingua silente, un linguaggio mistico, perfetto o divino. Cercano di rendere visibile una possibilità misterica, una lingua edenica, utilizzata dagli angeli e dai santi per comunicare tra loro e con gli iniziati. E immagino che sia una sorta di langue des oiseaux, cioè un linguaggio segreto, simile a quello che era parlato dai trovatori nella Francia del medioevo, con giochi di parole e simbolismi che nascevano dall'omofonia.
Anche gli iniziati alla Qabbalah, i maghi del Rinascimento e gli alchimisti avevano ideato linguaggi segreti, per proteggere la sacralità dei testi divini, le pratiche occulte e le formule prodigiose. Non è improbabile che i pittori avessero condiviso un alfabeto comune nelle loro opere, inserendo anche segni che potevano essere compresi solo dagli appartenenti alla corporazione a cui avevano aderito. O questi alfabeti sono un’invenzione personale, con lettere grafiche nate dall’estro del momento? Col tempo, studiosi seri e ispirati faranno luce sulla questione. Già qualche passo è stato fatto. Sulla bordatura del manto, nelle vesti, o nelle rifiniture degli abiti, sono state individuate reali lettere degli alfabeti arabi e ebraici, parole e frasi tratte dal Corano o dal Talmud, copiate dagli artisti da manufatti religiosi o da codici miniati o da tappeti. In alcuni casi sono riportati segni di sigilli magici o di pratiche alchemiche.
A volte vi sono motti in forma cifrata. O all’interno di un alfabeto di invenzione vengono poste parole, nomi, messaggi, date.
Ma a prescindere dal significato dei caratteri, in molti dipinti a soggetto sacro sembra che gli artisti suggeriscano che sia avvenuto un atto rituale, un evento sovrannaturale, come se il Creatore dopo aver plasmato il Figlio (e qualsiasi individuo) gli avesse donato anche alcune parole segrete, quell'enigma della psiche, che la persona sentirà di dover comprendere per tutta la sua vita: la ricerca del vero senso delle cose, attraverso la decodificazione delle parole del Verbo. E anche per mezzo del silenzio che precede e segue l’azione del Verbo: “La grande pittura dà l'impressione che Dio sia in contatto con un punto di vista sul mondo, con una prospettiva, senza che né il pittore né chi ammira il quadro s'intromettano a turbare il faccia a faccia. Da qui il silenzio nella grande pittura. Per questo non c'è grande pittura senza santità o qualcosa di molto simile. Non è difficile capire la bellezza di certe sculture negre quando si sa che uno stregone passa sette giorni in preghiera prima di fare un feticcio” (Simone Weil, Quaderni, vol. III, Adelphi, p. 36).
Raffaello doveva amare particolarmente la presenza di alfabeti misteriosi sulle vesti dei santi. Nella sua produzione pittorica le lettere criptiche compaiono in molte opere, in maniera insistita: Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Francesco (1501-1502), ora a Berlino, nello Staatliche Museen; Crocefissione (1502-1503) della National Gallery di Londra; Madonna Solly (1500-1504), ora alla Gemäldegalerie di Berlino; Sposalizio della Vergine (1504), nella Pinacoteca di Brera a Milano; Pala Ansidei (1505), ora alla National Gallery di Londra; Madonna Terranuova (1504-1505), alla Gemäldegalerie di Berlino; Madonna del prato (1506 ca.), al Kunsthistorisches Museum di Vienna; Madonna (La bella giardiniera), 1507, custodita nel Musée du Louvre, a Parigi; Pala Baglioni (1507), nella Galleria Borghese, a Roma; Sacra Famiglia Canigiani (1507-1508), nell’Alte Pinakothek di Monaco; Grande Madonna Cowper (1511), ora alla National Gallery of Art di Washington.
E i segni dei pittori italiani si collegano ad altri alfabeti, più arcaici, sorti con l’idea di trasmettere concetti e significati con l’uso delle immagini e dei linguaggi.
Nel 2009 Giuseppe Sermonti propone di far risalire la nascita degli alfabeti fenicio e greco dalle costellazioni celesti, legando così la grafia del cielo con quella della scrittura (L’alfabeto scende dalle stelle. Sull’origine della scrittura, Milano 2009). In questa visione l’uomo si pone in contatto diretto col cosmo: con i suoi pensieri e parole cerca di unire il suo destino al movimento dei corpi celesti. Dalle stelle alle lettere, dai segni celesti agli alfabeti simbolici, dalla mente cosmica a quella umana, si pensa che l’alfabeto sia stato ideato nella prima metà del secondo millennio avanti Cristo. Ma in realtà da oltre un decennio si è intuito che già i dipinti sulle pareti delle grotte preistoriche erano accompagnati da segni, che anticipavano di 25.000 anni le più antiche testimonianze alfabetiche. Gli studiosi hanno riconosciuto una trentina di segni astratti ricorrenti sulle pareti di grotte del Paleolitico superiore (europee, africane, americane, australiane e asiatiche), tracciati “tra le righe” nelle grandiose pitture a soggetto animale e venatorio (Si veda: Genevieve von Petzinger e April Nowell, Il codice dell’età della pietra. Come non ci eravamo accorti dell’origine della scrittura, in New Scientist, 20 febbraio 2010).
Questo alfabeto primordiale si ricollegava probabilmente a osservazioni astrali, e ai cicli che determinavano riti e momenti topici della vita di un gruppo. I cicli parietali preistorici sono composizioni collettive, perfezionate in almeno 20.000 anni, da centinaia di generazioni. I segni astratti (e i loro significati) venivano tramandati nel corso del tempo dallo sciamano depositario di una tradizione ancestrale al nuovo adepto, individuato per tramandare il sapere degli avi e i messaggi delle divinità.
Nei tempi arcaici cominciarono anche a catasterizzare, ovvero ad attribuire il nome di una divinità, di un eroe, di un personaggio mitologico o di un animale a una costellazione. Gli artisti, nella loro immaginazione, hanno cercato anche di mettere in atto un’operazione inversa.
Cioè hanno adottato un asterisma per nominare cose terrene, ovviamente risolto con traduzioni in immagini, visioni, suoni e con altre delocazioni. Gli uccelli migratori partono in stormi verso il loro destino, viaggiano anche nel buio più scuro della notte, volano leggendo il cielo, le luci delle costellazioni, elaborano dati astronomici con una percezione originaria e immediata, seguendo un orientamento innato. Probabilmente qualcosa del genere era presente anche nelle persone nomadi del Neolitico, che sapevano colloquiare con i cieli e col mondo. Con gli occhi rivolti verso le costellazioni e i movimenti luminosi nei cieli notturni i più visionari e sapienti acuirono una propensione a tracciare segni tra le numerose stelle, e questi segni li proiettarono anche sulle rocce e sulle cose del mondo.
Nel corso dei millenni gli alfabeti si moltiplicarono, esponenzialmente fino al mito di Babele e ancora oltre. Vi furono alfabeti condivisi dal popolo e altri che furono utilizzati solo da sacerdoti, da élite, da gruppi di potere, da iniziati. Gli artisti del Medioevo e del Rinascimento si sono rivolti a questa tradizione per immaginare il volo degli angeli, le migrazioni degli esseri celesti, i messaggi degli dei pagani o del Dio dei tre monoteismi?
Raffaello e l'eco del mito, a cura di M. Cristina Rodeschini, Emanuela Daffra e Giacinto Di Pietrantonio, GAMeC di Bergamo, 27 gennaio 2018 - 6 maggio 2018