Cannes. Parte 3 / Kristen, I love you (storie di altri mondi)
Nella proiezione ufficiale di ieri, Aquarius del brasiliano Kleber Mendonça Filho, il cast del film, durante la sfilata sul tappeto rosso al Grand Théâtre Lumière ha mostrato dei cartelli alle telecamere che denunciavano l’atmosfera di sospensione democratica che sta vivendo il Brasile negli ultimi mesi: “In Brasile c’è stato un colpo di stato”; “il mondo non può accettare questo governo illegittimo”; “maschilisti, truffatori e razzisti sono diventati ministri”. È uno di quei rari momenti in cui la bolla spazio-temporale che contraddistingue Cannes in questi giorni viene spezzata e ci si ricorda, per un momento, che in effetti un mondo fuori dalla Croisette esiste ancora. Anche all’ottavo giorno di Festival.
Un festival del cinema può essere un’esperienza estremamente spossante. Non è tanto la stanchezza fisica (si tratta pur sempre di andare al cinema), quanto la fatica mentale di entrare e uscire continuamente da una storia, da delle identificazioni, da delle percezioni e sensazioni. È per questo che i giudizi – spesso un po’ irresponsabilmente perentori – che vengono sentenziati sui film a Cannes andrebbero sempre presi con le pinze: perché il test più importante per un film – quello del tempo – è l’unico impossibile da emettere a poche ore di distanza da una proiezione. Un film – e questo è vero soprattutto per certi film di un certa densità, come vedremo sarà il caso di Assayas – avrebbe bisogno di un po’ di vuoto percettivo, prima e dopo la visione; e avrebbe bisogno anche di tempo per essere discusso e pensato, magari insieme a quella comunità di critici cinematografici che troppo spesso preferisce appassionarsi di stelline, voti e giudizi e quasi mai dell’atto di pensare un film (magari lasciando per un momento sullo sfondo il proprio idiosincratico giudizio soggettivo, che poi non vuol dire nient’altro che lasciare sullo sfondo il proprio narcisismo). Invece qui a Cannes si finisce spesso per vedere 4 o 5 film in un giorno e per limitare il proprio lavoro all’emissione numerica di un voto (al più, argomentato in un paragrafo o poco più).
In questa bolla emozionale dove si entra e si esce in continuazione da mondi diversi è facile dimenticarsi dell’esistenza del nostro mondo (Gilles Deleuze diceva che era proprio questo il merito più grande del cinema: farci credere in questo mondo). È per questo che il brasiliano Aquarius è non solo un film efficace e convincente, ma anche un film importante soprattutto in questi giorni, visto che non è possibile non vedere un cortocircuito tra quello di cui parla il film (la bolla immobiliare brasiliana, ma anche la sua società oligopolista e razzista) e quello che sta accadendo in quel paese.
Ma facciamo un passo indietro e riassumiamo brevemente il contesto dell’“azione” degli attori di Aquarius. Dilma Rousseff è stata accusata a più riprese di corruzione e a seguito di un lungo e controverso iter parlamentare è partita una procedura d impeachment: si tratta di un evento che con tutta evidenza può essere definito come una versione soft di un vero e proprio colpo di stato, con il quale viene di fatto chiusa l’esperienza del Partito dei Trabalhadores al governo.
Sono stati 13 anni dove il Brasile ha avuto un enorme boom economico, con indici della povertà dimezzati, salari e PIL in crescita e una significativa ascesa della classe media del paese. Ma sono stati anche 13 anni di corruzione da parte di un potere sempre più solido da parte di una rete politico-imprenditoriale oligopolistica ristretta e legata a poche e influenti famiglie. Aquarius parla proprio di questo Brasile, e in particolare di quello che della sua crescita contraddittoria e dai piedi d’argilla è l’esito più drammatico e visibile: l’enorme bolla immobiliare che ha non solo finanziarizzato il paese ma anche ribaltato urbanisticamente molte delle sue città.
Il film, ambientato a Recife, si apre proprio con un piano sui nuovissimi grattacieli e condos che ora svettano nel centro città. Ma subito lo sguardo del regista si sposta su una delle pochissime vecchie case rimaste. Qui nell’ultimo appartamento che non è stato ancora acquisito da una real estate company che vuole radere l’intero complesso al suolo, vive Clara, la protagonista del film, una donna di 65 anni che non ne vuole sapere di lasciare la casa piena dei ricordi di una vita nonostante le più che lusinghiere offerte economiche che le vengono proposte dagli agenti immobiliari. Kleber Mendonça Filho fa un film architettonico ed è interessato soprattutto al confronto tra due diversi modi di guardare gli oggetti: quello denso di storia di Clara per cui i mobili, gli album di fotografie e persino i vinili sono densi di ricordi; e quello dell’astrattezza del capitalismo brasiliano che costruisce grattacieli radendo al suolo la vecchia parte della città e cancellando il passato. Ma questo conflitto che sembrerebbe opporre qualitativo e quantitativo, è in realtà falso. La resistenza di Clara nei confronti della gentrification di Recife non può che essere velleitaria: non soltanto perché gli immobiliaristi suoi nemici non si faranno problemi a usare mezzi ben oltre il limite della legalità, ma anche perché Clara stessa è parte delle èlite, come si vede dal vero conflitto che attraversa la città: quello tra le élite bianche e il sottoproletariato dei neri che lavorano come muratori a giornata o fanno le pulizie nella case dei ricchi.
Un altro grande sguardo su questo mondo è passato alla Quinzaine un paio di giorni fa, ed è un film indiano di uno dei grandi maestri contemporanei del detective noir: Anurag Kashyap. Il regista indiano – che negli ultimi anni ha firmato alcuni dei grandi capolavori di questo genere, come Gangs of Wasseypur, Ugly o Bombay Velvet – ha presentato uno dei film più riusciti e avvincenti della sua carriera. Il titolo della pellicola – Raman Raghav 2.0 – si riferisce a un famoso caso di cronaca nera della Bombay degli anni Sessanta: Raman Raghav era infatti un serial killer che si macchiò di decine e decine di omicidi. Tuttavia il film – come viene detto non senza ironia nell’esergo al termine degli opening credits – non parla di questo, ma dello strano rapporto tra un poliziotto e un killer nella Bombay di oggi. Ramanna, il killer, e Raghava, il poliziotto, sono infatti le due polarità “spirituali” del serial killer degli anni Sessanta. Il primo è uno psicopatico che uccide senza alcun tipo di senso di colpa o di remore, mentre il secondo è un poliziotto istericamente macho dall’altalenante virilità che si mette sulla tracce del criminale (con il quale instaura un rapporto tra l’antagonistico e il seduttivo).
Il film, diviso in otto capitoli e girato con un ritmo altissimo come accade sempre nelle opere del regista indiano, vede la progressiva ascesi perversa del poliziotto che finirà non per trovare un equilibrio alla sua tendenza autodistruttiva verso la dipendenza e la violenza fine a se stessa, ma che semmai riuscirà fino in fondo a fare della violenza una paradossale forma di legame sociale e di soggettivazione. Il cinema di Kashyap è tutto concentrato nel mostrare la natura radicalmente perversa della metropoli indiana e in questo compie una rilettura contemporanea e tardo-capitalistica del genere: se il noir tradizionalmente mostrava la dimensione nascosta e denegata della legge sociale, nel mondo di Kashyap non c’è più una vera e propria legge da trasgredire, ma è semmai la trasgressione stessa che è elevata alla dignità di (paradossale) norma sociale.
Ma Raman Raghav 2.0 non è solo un film noir, è anche un grande film politico perché ci dà quella che è forse la rappresentazione definitiva della città capitalistica perfetta: quella dove vi è una assoluta permutabilità tra tutti gli oggetti del panorama urbano. In Raman Raghav 2.0, tutto è scambiabile: la vita, gli oggetti, le armi, il silenzio, le donne etc. Anche quando vediamo compiersi i crimini peggiori, vi sono sempre dei passanti che accanto alla scena del crimine continuano imperterriti nel loro quotidiano arrabattarsi per tirare a campare, come se nulla fosse accaduto. Questa co-esistenza una accanto all’altra di ogni tipologia di merce (compresa quella umana) rende in modo chiarissimo l’assoluta indifferenza da parte del capitalismo nei confronti di qualsiasi specificità qualitativa. La metafora perfetta di questa onnipervasività della circolazione di merci non può che essere la spazzatura: il luogo dove tutte le merci vedono ricostituita l’indifferenza della loro origine. E infatti Bombay nei film di Kashyap assomiglia tremendamente a un’enorme discarica a cielo aperto (interessantissimo, come sempre, l’attenzione alla pluralità cromatica dell’immagine, come fu per Bombay Velvet). Si tratta di una poetica che viene enunciata chiaramente già dagli opening credits dove al ritmo di una techno forsennata vediamo susseguirsi immagini di gatti che rovistano nella spazzatura, gente che balla in discoteca, strisce di cocaina, campi totali sugli slums della città, escort etc.
Ma oltre ai film che hanno portato il festival a guardare a questo mondo, ci sono stati anche grandi film che ci hanno portato non tanto in altri mondi, quanto in modi alterati per abitare questo. È quello che fa Olivier Assayas in Personal Shopper uno dei grandi film di questo concorso e quello che (nonostante i fischi della proiezione stampa) forse più di ogni altro fino a questo momento meriterebbe la Palma d’Oro. Assayas ci ha sempre abituato a riflettere sul rapporto di inseparabilità tra la vita e la sua rappresentazione. In Sils Maria – in un fim così garrelliano, da sembrare quasi uno spin-off di Sauvage Innocence – Maria-Juliette Binoche interpretava un’attrice di mezza età che era chiamata dopo molti anni a rimettere in scena la pièce teatrale che aveva lanciato da giovane la sua carriera: una storia di rivalità-seduzione tra due donne con molti anni di differenza (e dove la giovane finiva per spingere la più adulta al suicidio) che inevitabilmente finiva per risvegliare in lei i fantasmi del passato.
Si sa che quando si “mette in scena” qualcosa, non si tratta mai soltanto di un gioco (l’inglese mantiene il doppio senso del verbo to play). La rappresentazione retroagisce sulla realtà. È dunque impossibile provare a separare le due cose, e tenere la vita sul binario dell’autenticità e la rappresentazione su quello della finzione. Come diceva Lacan, la verità ha sempre la struttura di una finzione, e dunque non c’è accesso alla vita se non attraverso il medium del raddoppiamento linguistico-finzionale, che però – come sempre quando si tratta di linguaggio – si porta con sé anche un effetto d’opacità e di ambiguità. Il problema è che quando la vita è inseparabile dalla sua narrativizzazione (quando è “impestata” di linguaggio), è praticamente inevitabile che sia la vita stessa a perdere la sua aura di immediatezza e a essere popolata da spettri (“che cosa vuol dire?”). La domanda su se stessi e sulla realtà che ci circonda (l’enigmatico “Sei tu Lewis? O sono soltanto io?” con cui si chiude il film) è la struttura minima del desiderio. La psicoanalisi ce lo dice in tutte le salse: il desiderio non è un oggetto di questo mondo ma una domanda. E quasi nessuno (forse soltanto Garrell) ce l’hai mai detto così chiaramente al cinema come Olivier Assayas: la vita è solo la domanda, e l’ambiguità, che viene rivolta a se stessa.
Personal Shopper è la storia di Maureen, giovane ragazza americana che lavora come personal shopper di Kyra, una modella professionista a Parigi. Il suo lavoro consiste nel girare per la città a ritirare e comprare vestiti con i quali la sua datrice di lavoro dovrà mettere in scena la propria rappresentazione di femminilità. Maureen però è anche sorella di un sensitivo – Lewis – che è da poco scomparso per una malformazione cardiaca di cui anche lei soffre, ma che pare essere ancora in contatto “spiritualmente” con lei. Maureen è insomma presa dentro due circuiti della rappresentazione o dell’inganno: quello che la lega a suo fratello medium e quello che la lega al mondo della moda (ovvero, il mondo della mascherata per eccellenza). Ma Maureen è anche un carattere mascolino e quasi asessuato (almeno fino a che non prova di nascosto i vestiti di Kyra, con i quali si trasforma immediatamente anche lei in una modella).
È quindi costantemente sulla soglia: tra questo mondo e quello dell’aldilà (Lewis), tra il maschile e il femminile, tra la rappresentazione di sé e quella di Kyra (hanno ovviamente la stessa taglia di vestiti).
Kristen Stewart non è solo l’attrice protagonista, è a tutti gli effetti la sostanza di un film davvero straordinario, che Assayas ha scritto specificamente pensando a lei e che si nutre della sua femminilità ambigua come incarnazione cinematografica della domanda soggettiva per eccellenza, ovvero del desiderio. Se il film prende la forma dell’horror – e Assayas dimostra di saper gestire i tempi e i toni del genere in modo affatto esemplare – è solo perché questa è la forma cinematograficamente più efficace per “mettere in scena” la domanda per eccellenza: “chi sono io?”, “che cosa è questo?”, “è la realtà o è la mia immaginazione?”. La fascinazione per il soprannaturale e i fantasmi può fare sorridere – come purtroppo è accaduto a molti giornalisti – solo se non si capisce che la questione fondamentale che sta dietro alla scelta del genere, come per altro la conclusione mostra in modo tutt’altro che ambiguo, è la forma della domanda, non certo l’apparizione del soprannaturale.