Al Mudec di Milano / Paul Klee, archeologo della pittura
“Nella grafica albergano i fantasmi e le fiabe dell'immaginazione,
e nello stesso tempo si rivelano con grande precisione.”
Paul Klee, La confessione creatrice
Paul Klee è uno di quegli artisti che subisce l’ingiusta condizione di essere oscurato dalla troppa notorietà. Sovente derubricato dal pubblico nella polverosa categoria dei classici scolastici, la sua opera è invece un fuoco d’artificio di scoperte, intuizioni, tuffi in profondità in epoche e culture lontane. L’occasione per guardare ad essa con occhi ripuliti dai preconcetti è la splendida mostra in corso al Mudec di Milano Paul Klee. Alle origini dell’arte, a cura di Michele Dantini e Raffaella Resch, nella quale i curatori indagano in profondità l’aspetto del primitivismo di Klee e la genesi della sua opera.
La mostra è frutto di un lungo lavoro di ricerca e raccoglie oltre cento opere provenienti da prestiti importanti, in particolare dal Zentrum Paul Klee di Berna, di cui alcune inedite in Italia. Divisa in cinque sezioni, nasce con il dichiarato intento di fare chiarezza sulle fonti del suo lavoro, percorrendo a ritroso le vie battute dall’artista per decostruire il mito del Klee “sciamano” e dare invece visibilità al “pittore-archeologo”, appassionato conoscitore della storia dell’arte, instancabile ricercatore votato alla pratica e refrattario alla seduzione della teoria pura.
Maestro indiscusso del ‘900 ma meno celebre di suoi contemporanei (si pensi all’amico Wassily Kandiskij o a Picasso), Klee è un artista la cui opera si protende in mille direzioni pur rimanendo coesa, e non a caso utilizzerà la celebre metafora dell’arborescenza in occasione della conferenza di Jena del 26 gennaio 1924 per evocare la figura dell’artista e della sua opera (“Quest'orientamento nelle cose della natura e della vita, questo complesso, ramificato assetto, mi sia permesso di paragonarlo alle radici di un albero. Di là affluiscono all'artista i succhi che ne penetrano la persona, l'occhio. L'artista si trova dunque nella condizione del tronco. Tormentato e commosso dalla possanza di quel fluire, egli trasmette nell'opera ciò che ha visto. E come la chioma dell'albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l'opera.”). Infinitamente stratificata, costruita su uno studio rigoroso e instancabile, nella sua impressionante produzione (si contano oltre diecimila opere nella sua intera carriera) si rinvengono le ragioni che hanno reso talvolta ostico l’approccio del pubblico a un artista così colto, stimato dai colleghi e dalla critica ma forse non compreso nella sua interezza e profondità.
Un percorso documentato con perizia negli studi di Michele Dantini e nel suo volume Paul Klee. Epoca e stile, lettura imprescindibile per chi voglia completare l’esperienza della mostra addentrandosi nei meandri della produzione dell’artista svizzero grazie a un volume frutto di una indagine minuziosa sulle fonti, sui testi e sui nuclei concettuali che costituiscono l’opus kleeiana, in grado di guidare lo spettatore su sentieri poco battuti, nel fitto di un bosco in cui fioriscono inaspettate gemme di senso.
La mostra si attesta su sezioni tematiche non cronologiche, che affrontano aspetti nodali della ricerca di Klee e che offrono allo spettatore una lettura originale ed esaustiva della produzione labirintica del maestro svizzero (una produzione che Giulio Carlo Argan, nella prima prefazione dei Diari, definisce un “labirinto «rettilineo»”).
Nella prima sezione sono esposti alcuni tra i lavori giovanili insieme a opere del periodo più maturo che presentano caratteri di evidente complessità: si tratta di caricature, maschere, animali, “capricci”, carte di grande bellezza dalle dimensioni spesso ridotte (regime in cui Klee riesce ad essere sublime), come Perseo (Lo scherzo ha il sopravvento sul dolore), acquaforte del 1904 o L’eroe con l’ala del 1905. Opere dai titoli talvolta folgoranti e sempre funzionali al dispiegarsi delle immagini, nelle quali Klee rivela l’amore per le riviste satiriche e il fumetto, coniugando il gusto per il dettaglio prezioso, lo studio della classicità e il tentativo di superarla attraverso un’ironia pungente che non è mai cronachistica ma anzi è strumento per la demolizione di un atteggiamento reverenziale verso il passato che rischierebbe di paralizzare l’artista, mosso invece dalla brama di costruire. Lo scarto verso il fantastico sorprende per la sua attualità ed evoca l’atmosfera di certi sogni ultraterreni di H.P. Lovercraft, pur senza sposarne l’orrore, combinato all’elemento del grottesco e alla satira, un elemento sulfureo che, soprattutto nei lavori aurorali della giovinezza, nasconde una delle chiavi di comprensione dell’approccio di Klee all’arte antica.
Ricordiamo che Klee si trova a Monaco agli inizi del secolo (tra il 1898 e il 1901), un momento culturalmente incandescente: studia presso l’Accademia sotto la guida del “dandy” Franz Von Stuck – con cui avrà sempre un rapporto ambivalente – e dove tornerà per vivervi nel 1906, anno in cui si unirà in matrimonio con Lily Stumpf. Sono anni giovanili di scoperte: terminati gli studi, tra il 1901 e il 1902 trascorre un periodo in Italia di sei mesi, un grand tour che indirizza la sua ricerca in maniera netta contribuendo a formare l’idea di sé come “primitivo moderno” (di matrice essenzialmente cristiana), scoprendo nuovi interessi dettati da un gusto squisitamente personale: mal sopporta il Barocco, preferisce Donatello a Michelangelo, si entusiasma per l’arte paleo-cristiana, il Gotico, i tedeschi delle collezioni, il Quattrocento fiorentino, la pittura pompeiana e per gli acquerelli erotici di Rodin in mostra a Roma all’Esposizione Internazionale romana del bianco e del nero, che lo colpiscono per la “sprezzatura” con cui sono realizzati e alimentano in lui il desiderio di una semplificazione primitivistica:
“294. Ormai sono tanto progredito da poter dominare la grande civiltà antica e il Rinascimento. Soltanto col nostro tempo non mi riesce di stabilire una relazione artistica. E voler creare qualcosa che non gli corrisponda mi appare sospetto.
Grande perplessità.
Perciò sono di nuovo tutto satira. Devo ancora fondermi interamente in essa? Forse non sarò mai un realizzatore? Comunque, mi difenderò come una belva.” (dai Diari, pag 69-70, Il Saggiatore, 1990)
Se Klee sviluppa l’interesse verso l’antichità a partire dal suo viaggio in Italia tra il 1901 e il 1902, la miccia innescata dalle visioni italiane deflagra in un incendio che non si spegnerà mai. Da lì in avanti si nutrirà di memorie figurative e il passato diverrà un territorio in cui muoversi con passione e competenza, rivendicando per sé il ruolo di epigono di una civiltà ormai finita. Non potendo abbracciare l’antico nella sua integrità, e accettando lo scacco dell’impossibilità di ricostituire l’immagine nella sua purezza originaria, Klee sceglie la parodia, la beffa per animare una sincopata produzione che tradisce stili e repertori eterogenei, mantenendo una coerenza di obiettivi che si snoda su percorsi affatto irregolari, una pars construens (per citare Resch) del tutto originale e che contribuirà ad attribuirgli quell’attitudine anti-nichilista che contribuirà al suo riconoscimento critico post bellico.
Sono anni intensi che sfoceranno nella svolta spirituale del dopo Guerra e successivamente lo condurranno in seno al Bauhaus, all’esperienza dell’insegnamento, tra il 1921 e il 1931; anni in cui la sua ricerca esplora una sorprendente vastità di riferimenti iconografici, e se da un lato si rivolge al passato arcaico europeo ed extraeuropeo, dall’altro la sua attenzione si posa sulla contemporaneità: Klee è un intellettuale pienamente consapevole di ciò che accade nel mondo dell’arte contingente, un viaggiatore-etnografo (e musicofilo) che guarda al lavoro di Matisse, Dufy, Picasso, Braque, de Chirico, Carrà, Chagall, Arp, Ernst (rimando ancora a Paul Klee. Epoca e stile di Dantini e al catalogo della mostra per gli approfondimenti in merito), a cui si aggiungono Cézanne, Ensor, i giapponesi, Van Gogh. Nella sua sete di esplorazione, Klee non perde occasione di posare il suo occhio cristallino su opere e autori che possano fornirgli materiale di confronto, spunti per edificare quell’architettura immensa che diverrà la sua pratica.
Tra la produzione degli anni ‘10 e ‘20 avviene uno slittamento, l’orizzonte di riferimento diventa quello delle origini dell’Occidente, la Grecia arcaica, l’Egitto, ma anche le tradizioni locali, l’arte copta, l’Islam, il repertorio celtico, l’arte bizantina, il medio oriente. Il viaggio in Tunisia del 1914 è un’epifania per l’artista che si scopre “pittore” e si apre all’indagine sul colore (Giovedì 16 aprile 1914 “Interrompo il lavoro. Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore.”) Tuttavia, la sua grande capacità di capitalizzare il proprio talento lo orienterà verso la decisione di concentrare i suoi sforzi nel disegno, che rimarrà sempre come il cuore autentico della sua opera, esercitando un primato sulla pittura (o possiamo dire sarà determinante per dare forma a quella che è una “pittura attraverso il disegno”.) che è compendiato negli scritti raccolti nella Teoria della forma e della figurazione, dove trovano spazio le lezioni tenute agli allievi del Bauhaus.
Pochi mesi dopo quel viaggio così importante in Nord Africa scoppia la Guerra e l’Europa sprofonda “tra melma e sangue”, come scrive Clemente Rebora in Viatico: Klee viene richiamato al fronte come soldato semplice dal 1916 al 1918 ma sopravvive al conflitto, mentre l’amico Franz Marc, figura chiave del Blaue Reiter, muore sul campo a Verdun. La perdita lo segna profondamente e contribuisce a ridimensionare la sua produzione satirica a favore di quella dalle chiare implicazioni spirituali. In lui si delinea una vocazione messianica (quell’“io, un cristallo” che suona come una presa d’atto di una condizione oltreumana) e l’artista si concentra su un campionario di immagini anacronistiche e antinaturalistiche, recuperando l’opera di Albrecht Dürer, il gusto per il barbarico, gli evangeliari, i codici miniati medievali che racchiudono quel portato mistico a cui aspira l’espressionismo del Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro fondato da Kandiskji e Marc nel 1911. Diviene così “illustratore cosmico”, mantenendosi fedele al piccolo formato e ribadendo l’idea che la contemporaneità non possa aspirare alla dimensione monumentale, propria dell’antichità. Ed è nella seconda sezione della mostra che sono raccolti i lavori che illustrano questa svolta ascetica, in cui le immagini sembrano appartenere a una dimensione più alta e vibrano di una differente intensità, come il Cristo geometrizzante e quasi suprematista del 1926, l’acquaforte psicografica Piccolo Mondo (1914), Sommo guardiano (1940) o il sintetico Ragazza esotica del tempio (1939), dai riverberi “matissiani”. Le immagini si fanno dense – vengono paragonate a pietre preziose per il carattere di imperturbabilità che le contraddistingue, oggetti dove riecheggia un mistero sovrannaturale e un ordine teso a superare il caos di ciò che è transitorio e afferisce all’umano. Di queste opere colpisce il senso di mistero ma anche quella capacità di muoversi dentro e fuori la storia dell’arte, attraverso la scelta di un repertorio di assoluta coerenza; l’indagine tesa a indagare la differenza tra decorazione e spiritualità li rende degli enigmi figurativi mai completamente risolvibili e alimenta una tensione tra ciò che è terreno e ciò che è divino, un dramma che percorre l’intero pensiero figurativo di Klee.
La sezione “alfabeti e geroglifiche d’invenzione” pone l’accento invece sulla produzione legata alle cosiddette psicografie, composizioni che si nutrono di segni linguistici e “lingue celesti”. Klee fa un ampio uso di grafemi dalle provenienze più disparate nelle proprie composizioni: edotto in merito alle scritture antiche, come le rune o l’alfabeto cuneiforme, si diverte a creare segni che assumono significato all’interno di una specifica composizione, gode del piacere tassonomico che scaturisce dalla serie e dall’elenco, costruisce ideogrammi, simboli e forme che rimandano alla natura e alla biologia, oppure impiega elementi con pura funzione grafica da lettering, rivelando un interesse rivolto sia all’aspetto figurativo che simbolico dell’alfabeto, sperimentandone un utilizzo all’interno delle proprie opere che ha una eco in una più ampia ricerca condivisa da altri autori contemporanei impegnati in riflessioni parallele (su tutti Kurt Schwitters). Ecco quindi Turbato (Confuso, 1934), tempera su tela in cui dipinge entrambe le facce, o Serie sovrapposta di piccoli elementi (1928), che rimanda ai motivi ornamentali tessili e al gusto risalente agli anni giovanili per la decorazione. Tra le opere della sezione spicca Angelo in divenire, olio su tela del 1934, che incanta per intensità ed equilibrio, forse una delle più belle in mostra, dove Klee riprende la figura dell’angelo, intermediario tra il mondo empirico e quello celeste, qui sfrangiato di ogni orpello per farsi forma-idea che connette due mondi: “Gli angeli kleeneiani rovinano su sé stessi e loro atteggiamento ricorrente è il dubbio: circostanza che li rende umani assai più che divini.” (M. Dantini, Paul Klee. Epoca e stile, Donzelli Editore, pag 126).
Accanto alla sala sono raccolti alcuni reperti etnografici della collezione del Mudec, manufatti che chiariscono alcuni tra i riferimenti visivi di quel Klee “antropologo del possibile”, che guarda all’arte extraeuropee attraverso le riviste specializzate e le mostre, che acquista acquerelli di minareti e moschee durante il viaggio in Tunisia, colleziona manufatti e utilizza il patrimonio ornamentale dell’arte islamica e orientale come un serbatoio espressivo dal quale attingere. Splendida la Tavola matrice per la stampa proveniente dalle Isole Trobriand, che potrebbe provenire da una civiltà aliena, o il frammento di tessuto peruviano della cultura Huari, con il gioco dei colori e l’equilibrio gioioso degli intrecci degli ocra, dei rossi e degli indaco. I pattern, gli elementi ideografici e gli stenogrammi, gli elementi della natura stilizzati fino a diventare simboli arcani, la sapienza compositiva, il senso ritmico e l’ordinamento spaziale dei reperti alimentano il suo immaginario e lo accompagnano fino all’ultimo periodo della vita, quando malato ed esiliato dai nazisti, si dedicherà ostinatamente a una produzione incentrata su schemi ornamentali ripetuti, quasi rituali, rinunciando volontariamente a un registro psicologico che avrebbe gravato l’immagine di un sentimentalismo a cui Klee è stato sempre assolutamente refrattario.
Il mondo primitivo per Klee è rappresentato anche dall’infanzia, territorio inesplorato dove la forza creatrice trova piena espressione e spazio vergine per la figurazione. Nel 1907 nasce il figlio Felix, che diventa fonte di riflessione e di ispirazione per l’artista (annota nei suoi Diari, in un gita nell’estate del 1911 in barca, “un piccolo demonio, una creatura tanto indifesa”). Negli anni compresi tra il 1916 e il 1925 costruisce per lui circa cinquanta marionette, di cui alcune sono visibili nel teatrino costruito per l’occasione. Fatte di materiali di recupero, sono composte di cartoncino, scampoli di tessuto, conchiglie, noci, materiale elettrico e si ispirano a conoscenti o a figure della tradizione nordica, rivelando un gioioso gusto per l’assemblaggio e per il pastiche di marca dadaista.
L’ultima sezione racchiude i mondi infiniti di “policromie e astrazione”. L’“arte di idee” di Klee si dispiega in una sinfonia ritmica fatta di variazioni sul tema, moduli, vibrazioni cromatiche, rimandi all’Egitto cristiano; sono opere dove l’astrazione – intesa come religione dell’arte in grado di trascendere quel materialismo visto come causa dell’orrore della Guerra – da un lato emerge come forma contenente un’implicita critica culturale, dall’altra si abbandona a riflessioni più puramente formali, dove rientrano studi compositivi, memorie paesaggistiche, architetture, costellazioni di segni luminosi. Klee “Svolge cioè una sorta di commento figurato alle difficoltà dell’immagine religiosa o «spirituale» di cui non cerca però (se non occasionalmente, e in via congetturale) di restaurare l’autorità perduta.” (M. Dantini, Paul Klee. Epoca e stile, Donzelli Editore, pag 129). La malattia del corpo che lo colpisce nel 1936 e lo condurrà alla morte nel 1940 è anche la malattia dell’immagine: le figure e i paesaggi naturali che galleggiano in una dimensione “orfica”, percorsi da un senso di automatismo e di ripetizione programmatico, si moltiplicheranno sfociando nella produzione febbrile degli ultimi anni. Nell’ultima sezione della mostra però non c’è spazio per una meditazione dolorosa: opere come Roccia artificiale del 1927, con le piramidi grafiche in rosso sanguigno che pulsano su un fondo nero, animato da una presenza immateriale, Senza titolo (Sentieri intorno alla roccia bruna), olio e penna del 1932, con la sua compattezza materica di graffito, patchwork, incisione, o Nella stanza delle donne (1938), meditazione sul femminile che guarda e prende le distanze dai corpi-monumento di Picasso, rappresentano gli enti di un universo tutt’altro che rarefatto, sontuoso per ricchezza inventiva e per intensità. Di questo Klee così concentrato, così stoicamente volto al compimento di una vita da artista “cosmico”, rimane la parabola di una freccia numinosa che attraversa un cielo stellato segnando una traiettoria di desiderio che attraversa tutto il Novecento e si proietta oltre. Un cristallo che continua a brillare.