Breve storia dell’antisemitismo americano. 2
Il 17 novembre 2023, un mese e dieci giorni dopo l’attacco di Hamas a Israele, e davanti alle immagini delle rovine di Gaza, un amico ebreo americano che vive in un paese del Centroamerica mi ha mandato un lungo messaggio dal quale estraggo questa frase: “La questione israeliana sta rovinando i miei ultimi anni. Sono devastato nel vedere che la sindrome della Shoah si riduce al punto che siamo noi i nuovi nazisti, come forse lo siamo stati contro i cananei e i filistei, combattendo anche allora per lo stesso immaginario pezzo di terra. Eppure sono incapace di reagire. Se un altro paese facesse quello che abbiamo fatto noi ai palestinesi sarei contro al cento per cento, ma il mio destino gli è legato anche se cerco di nascondermi (come un bravo nazista?) nell’America Latina”.
Per contrasto, mi è tornata alla mente una conversazione avuta parecchi anni fa con un anziano ebreo, che non potrei veramente definire amico. Era stato in un campo di prigionia, anche se per poco. Era riuscito a fuggire e a unirsi alla Resistenza, anche se solo nelle ultime settimane, ma non l’ho mai sentito accusare i nazisti. Sosteneva che Primo Levi era uno che si lamentava troppo e che l’unico vero nemico era l’Islam. Una volta mi chiese, perché l’America non si decide una buona volta a far fuori tutti i musulmani? Siccome conoscevo, diciamo così, il suo particolare senso dell’umorismo, gli risposi che l’impresa era piuttosto vasta, andava dal Marocco all’Indonesia, e anche Hitler avrebbe avuto dei problemi a portarla a termine. Ma lui non stava scherzando. Mi fece una ramanzina sul rispetto che si deve agli anziani e mi ricordò che ai suoi tempi un giovane (anche se io non ero più un giovane) non avrebbe osato rispondere in questo modo a una persona di una generazione precedente alla sua.
Come muoversi tra simili estremi? Tra un ebreo sinceramente di sinistra, disperato all’idea di essere diventato il nuovo nazista, e l’ebreo ultrasionista che non ha timore di un nuovo olocausto diretto contro due miliardi di nemici? Credo che in mezzo ci stano, stretti, tutti gli altri. Milioni e milioni di persone nessuna delle quali, forse, riuscirà mai a formulare lo stesso giudizio di chi gli sta vicino e che cercherà invano una conferma di quello che crede giusto o sbagliato.
Come ho anticipato nel primo articolo di questa serie, qui darò qualche indicazione sull’antisemitismo americano, che ha una storia non trascurabile. Nella prima metà del ventesimo secolo i suoi rappresentanti più vistosi sono stati Henry Ford (che favorì la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion, il falso pamphlet sionista confezionato dalla polizia zarista nel 1903) e Charles Lindbergh (il cui estremo isolazionismo prima dell’attacco di Pearl Harbour aveva una dichiarata componente antisemita). L’antisemitismo decrebbe gradualmente dopo la Seconda guerra mondiale, al prezzo però di rompere quella che avrebbe dovuto essere un’alleanza ideale tra i due popoli della diaspora, i neri e gli ebrei. L’alleanza era stata sancita, benché precariamente, a livello sindacale come anche artistico (ne fa fede il numero di musicisti ebrei che adottarono il jazz), ma fu tutt’altro che stabile anche nei suoi momenti migliori. Tra i bianchi come tra i neri, ben pochi erano disposti ad accettare che gli ebrei (il cui diritto alla cittadinanza venne garantito da George Washington con una lettera alla congregazione di Newport, nel Rhode Island, nell’agosto del 1790) si stessero facendo strada rapidamente nella società americana.
Negli anni Venti, a Harvard e a Yale si diceva apertamente che venivano ammessi troppi studenti ebrei. Bisognava elaborare dei test d’ingresso basati sul loro “carattere” (erano sufficientemente americani? faceva bene l’America a fidarsi di loro?), che ne potessero limitare il numero. Negli stessi anni Marcus Garvey, fautore del nazionalismo nero, iniziò una campagna di boicottaggio contro i negozi gestiti da ebrei, accusati di praticare prezzi troppo alti per i neri. Nel 1930 il nazionalista nero Wallace Fard Muhammad fondò la Nation of Islam, eretta intorno ai dogmi di quella che di fatto era una nuova religione, e che l’Islam infatti non riconosce. Negli anni Cinquanta, a i primi albori del movimento per i diritti civili, circolava una battuta tra le famiglie dell’alta borghesia della East Coast: “Faresti ammettere un nero al tuo country club?” “Be’, almeno non è ebreo”.
È a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, precisamente dalla guerra del 1967 tra Israele e i paesi arabi, che possiamo datare un’aperta rottura tra la comunità ebraica ormai entrata a far parte dell’establishment e quella nera che nonostante la conquista dei diritti civili nel 1964 se ne sentiva, e con ragione, ancora ai margini. Data da quegli anni la conversione all’Islam di vari esponenti dell’attivismo nero, sia attraverso la Nation of Islam, che nel frattempo si era avvicinata all’Islam sunnita, sia per vie più ortodosse. A partire dal 1977, però, sotto la guida di Louis Farrakhan, la Nation of Islam si è evoluta in senso apertamente razzista (anti-bianco, antisemita, anti-LGBTQ), anche se il suo peso non è mai stato molto rilevante. Più importante ai nostri fini è un breve articolo, uscito nel 1984, in cui lo scrittore nero James Baldwin accusò gli ebrei americani di avere tradito la causa comune nel momento in cui avevano “deciso” di diventare bianchi (J. Baldwin, “On Being White… and Other Lies”, Essence, April 1984).
Baldwin voleva ricordare agli ebrei che, se credevano d’ora in poi di essere trattati come bianchi, si illudevano. Successivamente, nei circoli radicali neri gli ebrei cominciarono ad essere definiti “bianchi funzionali” o “che passano per bianchi” (espressione mutuata dal fenomeno del passing – neri dalla pelle molto chiara che i bianchi non distinguono da altri bianchi). A partire dagli anni Settanta, i neri d’America hanno visto nei rapporti tra Israele e la Palestina lo specchio della loro discriminazione. Finché, nell’estate del 2020, dopo l’uccisione di George Floyd, mentre in America erano in corso le manifestazioni di Black Lives Matter, un murale di George Floyd apparve a Gaza City: una risposta e una conferma da parte dei fratelli palestinesi, la cui conseguenza è stata un ulteriore distacco fra neri ed ebrei, tanto da far dire ad alcuni che non c’era più differenza tra appoggiare Israele e appoggiare il Ku Klux Klan. Non è servito a nulla che nell’estate del 2020, sempre a seguito dell’uccisione di George Floyd, sul “New York Times” sia apparsa una pagina di sostegno a Black Lives Matter firmata da 600 associazioni ebraiche. Nel 2021 molte sedi di Black Lives Matter hanno dichiarato pieno sostegno ad Hamas. Dopo il 7 ottobre 2023 la sede di Chicago ha pubblicato la foto di uno dei parapendio usato dai militanti di Hamas durante la loro sortita, con la scritta: “Stiamo con la Palestina”.
Ai gruppi white supremacist e neonazisti, come quelli responsabili della manifestazione a Charlottesville, in Virginia nel 2017 (nella quale una persona rimase uccisa), non importa nulla dei palestinesi, ma hanno colto l’occasione per accentuare il divario tra le due razze sostenendo che i palestinesi hanno il diritto di dire, come loro fanno da anni, che “gli ebrei non ci sostituiranno”. Ai primi di novembre il National Justice Party, un gruppo neonazista e negazionista della Shoah (ma perché mai un nazista dovrebbe negare la Shoah? Non dovrebbe esserne orgoglioso?), si è unito a una manifestazione in favore della Palestina davanti alla Casa Bianca, chiedendo la distruzione di Israele. Siccome la confusione non ha fine, parecchi neonazisti sono anche convinti che i neri siano alleati con gli ebrei.
Su tutto un altro piano, il 31 gennaio 2022, l’affermazione dell’attrice e personalità televisiva afroamericana Whoopi Goldberg, secondo la quale la Shoah non ha niente a che fare con il razzismo (“Sono bianchi che lo fanno ad altri bianchi; quindi, ve la dovete vedere tra di voi”, ha detto agli altri ospiti del programma “The View”), è stata, nonostante le scuse il giorno dopo e la sua temporanea sospensione dal programma, il coronamento antistorico di una rottura storica, le cui radici risalgono a un secolo fa.
In grandissima maggioranza, gli studenti americani che hanno manifestato in favore della Palestina non sono antisemiti, a meno che non li si voglia rubricare come “antisemiti funzionali”. La loro visione del mondo è però strutturata secondo una distinzione antropologica tra oppressori e oppressi che rende molto facile cadere in semplificazioni non così lontane da quella enunciata da Whoopi Goldberg. La divisione passa da un lato tra bianchi (caucasici europei, anglosassoni, ebrei, in parte anche i giapponesi, perché considerati ormai occidentalizzati) e dall’altro i POC (persons of color), categoria ulteriormente specificata in BIPOC (black, indigenous, and persons of color). Che tra le “persone di colore” siano inclusi popoli la cui pelle è molto chiara non turba chi ha coniato questa classificazione. Recentemente, in un’accesa discussione che si è svolta sulla chat di un’associazione internazionale di musicologi, un professore coreano si è chiesto perché mai lui dovesse essere considerato una “persona di colore”, e se per caso gli anglosassoni che lo definivano in tal modo ritenessero di essere “persone senza colore”. È stato accusato di razzismo (dagli anglosassoni) e per questa ragione – come anche per altre – è stato espulso. (Ma forse, dico forse, la sua esternazione meritava almeno una discussione. Definirsi implicitamente “senza colore” non potrebbe essere un’altra forma di supremazia? Se tutti sono “di colore”, ma io no, ne segue che tutti sono “differenti” tranne me, che incarno dunque la tanto detestata “norma”.)
La conclusione è questa: se gli ebrei sono diventati bianchi e i palestinesi sono persone di colore, gli ebrei (tutti, non solo gli israeliani) sono corresponsabili del suprematismo bianco che opprime ogni persona di colore. E se i palestinesi sono persone di colore, allora non possono avere nessuna colpa perché ciò violerebbe il principio in base al quale non si può incolpare una vittima. Una delle ragioni per cui Tabia Lee, afroamericana e direttrice del programma “Diversità, Equità, Inclusione” del De Anza College in California, è stata licenziata nel 2023, è per aver criticato pubblicamente l’equivalenza automatica tra ebrei e oppressori. (La distinzione assoluta tra bianchi e persone di colore aiuta anche a capire perché sia così difficile riscontrare, tra i giovani americani e non solo, una sincera solidarietà con l’Ucraina. Russi e ucraini sono solo “bianchi che lo fanno ad altri bianchi”, come direbbe Whoopi Goldberg. Come si fa a scegliere da che parte stare?)
Semplificando molto, è questo il percorso mentale ed emotivo grazie al quale studenti in gran parte bianchi (e quindi oppressori) si sono trovati nei lawns e negli yards (i prati centrali delle università), come in un rituale di purificazione comune, a gridare il loro entusiasmo per la rivolta anticoloniale incarnata da Hamas. Senza tale sfondo concettuale non si può nemmeno capire come mai tre associazioni di studenti LGBTQ della Columbia University abbiano stabilito, fin dal 2016, che la Palestina è “l’avanguardia della nostra liberazione collettiva”, decidendo di ignorare che a Gaza chi compie atti omosessuali rischia da tre anni di prigione alla condanna a morte. Proprio nel febbraio del 2016, infatti, Mahmoud Ishtivi, allora uno dei capi di Hamas, accusato di sottrazione di fondi e omosessualità, è stato torturato e ucciso dalla sua stessa organizzazione. Nel 2021, il Williams Institute della University of California a Los Angeles ha stilato una classifica delle nazioni più aperte a chi non è conforme alla sessualità binaria. La Palestina è al numero 130 su 175, dopo lo Yemen, l’Arabia Saudita e la Repubblica Democratica del Congo. Israele è al 44.
Eppure, non solo si può stare con la Palestina, ma si deve. Non con Hamas e con i suoi parapendio; con quello che la Palestina vuole essere e che ancora può essere. Chiunque abbia a cuore la pace nel Medio Oriente, e dunque nel mondo intero, deve stare con la Palestina. E si può stare con Israele, anzi si deve, ma non con Israele che uccide venti palestinesi per ogni ebreo, perché questo, oltre ad essere orrendo, non serve a nulla. È vero che in guerra tali sproporzioni sono ben note, e in particolare lo sono state nel Novecento. Prima delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, 67 città giapponesi vennero bombardate, e non erano tutte obiettivi militari. In una sola notte, i bombardamenti americani su Tokyo bruciarono vive 100.000 persone, circa cinquanta giapponesi per ognuno dei 2400 americani uccisi a Pearl Harbour. Nel documentario The Fog of War (2003), il generale Curtis LeMay ammette che se gli americani non avessero vinto la guerra sarebbero stati loro ad essere processati per crimini contro l’umanità.
Poniamo la questione in modo più diretto: se nel 1945 gli italiani avessero avuto i social media a disposizione a mostrargli in tempo reale gli effetti dei bombardamenti degli alleati sull’Italia e sulla Germania, o se avessero potuto seguire la guerra in televisione come si è cominciato a fare all’epoca del Vietnam, avrebbero davvero accolto gli americani come liberatori? Nessuno nega che il nazismo dovesse essere sconfitto a qualunque costo, ma la domanda, che in passato era impensabile, oggi va posta. E dopo l’11 settembre non sappiamo forse che un’organizzazione terroristica non è un esercito e non si elimina radendo al suolo un’intera nazione? Nel 2014, nella “guerra dei 50 giorni” di Israele contro Hamas, oggi dimenticata, morirono 73 israeliani e 2.200 palestinesi. È forse servita a qualcosa? Metà degli abitanti di Gaza ha meno di diciotto anni. A cosa serve far guerra a loro?
Già il 12 ottobre, pochi giorni dopo l’attacco di Hamas, e prevedendo che la risposta di Israele sarebbe stata terrificante, Michelle Goldberg sul “New York Times”, aveva avvertito: “La distinzione tra civili e combattenti deve essere rispettata. Nessuna causa, giusta o altrimenti, giustifica l’uccisione di bambini”. L’autrice faceva anche notare, però, quanto lei stessa e altri ebrei, tutti “di sinistra”, fossero stati colti di sorpresa dall’indifferenza – o dall’entusiasmo – dei loro amici non ebrei, anche loro “di sinistra”, rispetto alla violenza dispiegata il 7 ottobre. E si chiedeva se chi idolatra la violenza rivoluzionaria del terzo mondo non lo faccia per compensare la propria impotenza o addirittura la propria crudeltà, repressa dalle buone maniere dell’Occidente. Il che, aggiungerei, vale anche per chi giustifica a priori qualunque reazione venga da Israele.
Niente dimostra il fallimento della distinzione antropologica tra oppressori e oppressi meglio di chi non ha voluto vedere la violenza sessuale usata da Hamas come arma di guerra, le donne decapitate e bruciate, con il grembo trafitto da chiodi o quelle o con i seni tagliati mentre venivano violentate. È un tema che ho toccato anche nell’articolo precedente e che purtroppo dovrò riprendere, non perché io pretenda di spiegare le “ragioni” di ciò che è successo, ma perché ci porta a una preoccupante riflessione sulle categorie con le quali l’Occidente che si definisce progressista gestisce le proprie contraddizioni. Ne parlerò nel prossimo articolo.
(continua)