Anticamente moderni / Strade e palazzi di Milano e Lombardia
I resti di un’esperienza di avanguardia nell’edilizia civile milanese si trovano dietro i bidoni della spazzatura al civico 29 di corso Magenta. Lo segnala la storica dell’architettura Roberta Martinis nel saggio Anticamente moderni. Palazzi rinascimentali in Lombardia in epoca sforzesca (Quodlibet, Macerata 2021).
Martinis svolge una scrupolosa indagine sull’architettura civile lombarda degli ultimi vent’anni del Quattrocento, chiedendosi “se sia la cerchia milanese legata all’umanesimo antiquario a creare le condizioni di committenza per accogliere le sperimentazioni formali di Bramante, Battagio e De Fondulis” (p. 11), o se abbiano influito le “mentalità diffuse […] che attraversano obliquamente le aree dei linguaggi”, come sostiene Manfredo Tafuri in Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti (Einaudi, Torino 1992, p. 9). Autore di sonetti ma anche attento critico e “maestro” di stile letterario, Donato Bramante studia il linguaggio architettonico come un filologo un documento letterario e un grammatico il sistema fonematico, morfologico e sintattico di una lingua? Saranno state le grammatiche e le filologie a favorire la nascita di un nuovo linguaggio architettonico, esso stesso considerato da Tafuri un metalinguaggio, in quanto seleziona e organizza le espressioni di più linguaggi? Che rapporto hanno i metalinguaggi con il risorgere dell’antico nelle arti visive?
Il poligrafo Pietro Aretino, divenuto un arbitro dello stile, ma anche della politica della prima metà del Cinquecento, conia la famosa definizione riferita agli edifici e alle pitture di Giulio Romano: “concetti anticamente moderni e modernamente antichi”, adottata da Martinis per indicare il rinnovamento del linguaggio architettonico nel tardo Quattrocento. Il passato risorge in un presente che lo ristruttura. Questo è il leitmotiv di una cultura che dal IV-III secolo a.C., quando i retori iniziarono a usare la lingua di Tucidide e gli scultori a interpretare i modelli di Fidia e Policleto, fa periodicamente risorgere l’antico rinnovandolo di volta in volta (Salvatore Settis, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004). Al modello architettonico destinato ad essere interpretato e variato Martinis dedica il quarto e ultimo capitolo del suo saggio, evidenziando l’apporto di Cesare Cesariano a una ricostruzione fantastica e capricciosa dell’antico, contrapposta a quella di Raffaello che nella Lettera a Leone X celebra Bramante per ragioni opposte a quelle esposte da Cesariano nel suo De Architectura translato commentato et affigurato. Il problematico risorgere dell’antico nell’età di Cesariano e Aretino, autore della lettera indirizzata a Giulio Romano, si accompagna alla fabbricazione di “concetti”. Nel saggio di Martinis affiora in filigrana un tema ricorrente nella letteratura artistica del tempo.
Si è “anticamente moderni” nei concetti prima ancora che nella forma. A questo riguardo Giorgio Vasari è esplicito: il disegno che la mano del pittore, dello scultore e dell'architetto traccia su una superficie non è che “apparente espressione, e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello, che altri si è nella mente immaginato, e fabricato nell’Idea” (Vite de' più celebri pittori, scultori e architettori, Della Pittura, Firenze 1568, I, XV). Sulla traccia di questa concezione del disegno, Federico Zuccari distingue tra disegno esterno e disegno interno, assegnando a quest'ultimo uno statuto gnoseologico (L'Idea de' pittori, scultori ed architetti, Torino 1607). Bramante è anche disegnatore e pittore di architetture in prospettiva che altri artisti interpretano, come documenta la grafica di Bernardo Prevedari incisa nel 1481. Bramante fornisce cioè delle idee che hanno un rapporto stretto con il disegno e un termine di verifica con la concretezza del costruire (Martinis, p. 65). Il “disegno interno” è inteso come operatore di scambio tra pittura, scultura e architettura. Questo potrebbe allargare il campo delle ipotesi sulla trasversalità dei linguaggi nella cultura rinascimentale, in rapporto alle strategie di produzione di senso che generano le “mentalità diffuse” di cui scrive Tafuri nel saggio citato da Martinis. Peraltro anche quello politico è un “disegno” e la definizione riferita ai “concetti” di Giulio Romano, è coniata da un arbitro della politica, non solo dello stile.
In compagnia del saggio completo, puntuale ed erudito di Martinis si può andare alla ricerca dei palazzi rinascimentali lombardi a Milano, Lodi, Piacenza, Pavia, Cremona, Crema e Vigevano. Si potrà così completare la conoscenza dell’architettura di Bramante, già ben nota a Milano per la tribuna di Santa Maria delle Grazie, la chiesa di Santa Maria presso San Satiro, i chiostri e la canonica della Basilica di Sant'Ambrogio e il tiburio del Duomo, per il quale offre una consulenza documentata in una relazione tecnica e teorica (Bramanti Opinio super Domicilium seu Templum Magnum).
Di alcuni edifici civili in Milano attribuiti a Bramante, o di ambito bramantesco, resta solo una documentazione fotografica, come il palazzo Gian Giacomo Trivulzio in via Rugabella abbattuto nel 1927. Anche la casa di Gaspare Ambrogio Visconti, sede di un cenacolo milanese e residenza di Bramante dal 1487 al 1492, è andata distrutta. Dell’edificio restano gli affreschi conservati presso la pinacoteca di Brera. Gli edifici sopravvissuti hanno subito modifiche, come il palazzo di Filippo Eustachi localizzato all’angolo tra corso Magenta e via Terraggio. Porzioni di muratura dell’edificio sono visibili nel cortile del civico 29 in corso Magenta e nell’ambiente che ospita la sala cinematografica in via Terraggio 5, ora in restauro.
Il palazzo di Bergonzio Botta ora Pozzobonelli Isimbardi in via dei Piatti al numero 4 è un altro edificio sopravvissuto attraverso rimaneggiamenti. Nel cortile si possono ammirare le modanature degli archi e il ritmo con il quale i risalti che scandiscono la trabeazione si specchiano nell’ordine architettonico sottostante. L’insieme rivela un contesto architettonico chiaramente bramantesco (Martinis, p. 146).
L’opera di edilizia civile milanese attribuita a Bramante che più di ogni altra mi affascina è l’“atriolo periptero” della casa di Ambrogio da Rosate in via San Maurilio 19, già del duca di Urbino, acquistata nel Cinquecento da Giovanni Angelo Salvatico. L’atrio è stato identificato in una stanza interna che ora si presenta in forma di due ambienti sovrapposti. La sala-atrio ottagonale aperta alla sommità è stata verosimilmente inserita nell’edificio intorno al 1477, quando il committente era Federico da Montefeltro, duca di Urbino, intenditore di architettura al quale gli Sforza donarono il palazzo. Forse è proprio questa l'occasione che potrebbe spiegare l'arrivo di Bramante a Milano. In un documento del 1521 la sala ottagonale è definita: “specie di atriolo periptero seu monoptero tholata” (Martinis, p. 177). L’atrio ricorda infatti una tholos inclusa nel corpo di fabbrica come impronta, come forma negativa e perciò sprovvista di una superficie esterna sulla quale il “lume celeste” può modulare plasticamente il ritmo chiaroscurale degli elementi architettonici.
Nel suo trattato del 1615 Vincenzo Scamozzi divide in sei parti il lume naturale che interagisce con l’edificio (L’idea della architettura universale, parte prima, libro secondo, capitolo XIII, pp. 137-139). Il “lume vivo perpendiculare”, che nel disegno pubblicato a pagina 138 del trattato è rappresentato dalle rette oblique incrociate che penetrano attraverso l’oculo della cupola, è anche quello che illumina l’atrio attribuito a Bramante. L’illuminazione dall’alto che “si dilata con molta gratia, per tutte le parti, come non impedita di cosa alcuna” (commento di Scamozzi a un passaggio del Terzo libro di Sebastiano Serlio) è quella che meglio rende gli effetti plastici dei dettagli architettonici e delle sculture contenute nell’architettura.
Questa luce illumina la superficie architettonica interna dell’atrio-tempietto che, non avendo una corrispondente superficie esterna, richiama alla mente l’immagine dell’oggetto architettonico che ha lasciato nel palazzo Salvatico la sua impronta: un tempietto circolare, analogo a quello di San Pietro in Montorio, ora illuminato da una luce innaturale, metafisica che si dilata con “molta gratia”. La luce si è interiorizzata. Non è più la luce che illumina i tempietti immersi nella natura dipinti negli affreschi di Pompei, ma quella dei cenobi, delle biblioteche e degli studi, come quelli notarili attualmente ospitati in palazzo Salvatico. È una luce ideale.
Il mondo neoplatonico, delle idee, da Plotino in poi legate definitivamente alla luce, trova nell’atrio di palazzo Salvatico una sua singolare forma architettonica. L’atrio raccoglie la luce attraverso il “lume vivo perpendiculare” trasformandola in materia sottile che si effonde con gratia. È una luce “che altri si è nella mente immaginato, e fabricato nell’Idea”.
A Milano, in via San Maurilio 19, si trova un “concetto” architettonico della cultura rinascimentale, che si è radicato nel nostro modo di pensare per “concetti anticamente moderni e modernamente antichi”.