La semiotica del gusto di Gianfranco Marrone / Ideologie dietetiche e risotti
Se l'uomo è un animale sociale, il suo habitat prediletto è la tavola. È così che, grazie all'ultimo lavoro di Gianfranco Marrone, Semiotica del gusto. Linguaggi della cucina, del cibo, della tavola (Mimesis 2016), potremmo aggiornare il noto aforisma di Aristotele, accedendo alla costruzione del senso della socialità tramite i sensi, quelli coinvolti nel testo gastronomico. Marrone scopre la punta di “un iceberg semiotico”, giungendo ancora più in profondità, per andare “oltre il senso comune”. Non c'è dubbio che il cibo è una forma specifica di linguaggio e come tale rappresenta e significa l'uomo, gettando le basi della sua identità. Il cibo racconta e viene raccontato, trasmette e diffonde la cultura di un popolo, fungendo da memoria storica meta-sensibile in quanto “fatto sociale totale”.
Il testo gastronomico è “qualsiasi cosa, evento o situazione legato all'alimentazione, alla gastronomia e alla tavola che, a determinate condizioni formali, produce senso umano e sociale, lo fa circolare, lo traduce in altro senso”. Il testo gastronomico ha infinite varianti e combinatorie, ma è fedele a “un'organizzazione strutturale interna” che ritma i suoi tempi, le sue pause, le sue fasi, similmente allo schema di un brano musicale costituito da intro/strofa/ritornello/chiusura.
Nel volume di Marrone la stessa semiotica diventa più fruibile tramite la sua declinazione culinaria, chiarendo alcune nozioni anche a chi non ha mai avuto a che fare con la disciplina. Ad esempio se il discorso “è la dimensione sociale di linguaggio” quello “gastronomico è la socializzazione della semiotica del cibo, il luogo dove ogni suo intento significativo si stempera e al tempo stesso si invera nella realtà sociale e culturale”.
Al centro di questa “unica, troppo umana realtà” c'è l'uomo, che tramite il discorso gastronomico gestisce il suo corpo e la sua immagine, “alla ricerca di una qualche forma somatica condivisa”.
Il corpo vive attraverso il cibo, deformandosi per la sua assunzione in eccesso o in difetto, attenendosi ai canoni dell'essere in forma o del non esserlo, poggiandosi sui sostrati dell'erotismo e della desiderabilità sociale. La relazione tra corpo e alimenti, dunque, poggia non solo sulla sopravvivenza, ma anche sulla trasformazione che entrambi subiscono quando entrano in contatto, ricadendo anche sull'accezione allargata assunta dai termini adoperati per designare i meccanismi fisiologici di immissione/espulsione degli alimenti. Il termine mangiare ha diversi usi estensivi correlati alla consunzione, all'avidità, all'agonismo, al risentimento, mentre il suo processo inverso esprime figuratamente disgusto o grandi sforzi intellettuali e fisici.
Poi ci sono quelle che Marrone definisce le ideologie dietetiche, ossia una vera e propria inversione di rotta degli ultimi anni in cui si esalta il togliere invece dell'aggiungere, il modus operandi preferito dell'era McDonald e soci. All'opposizione semantica levare vs aggiungere, Marrone ne aggiunge un'altra, quella del rispettare vs mantenere, che riguarda rispettivamente le tradizioni etniche e la ricerca del naturale, quest'ultimo assurto a forma rituale del culto gastronomico.
Nella contemporaneità, scrive Marrone, “si vive da malati per morire sani”, e in effetti la sua osservazione immortala gli svariati regimi alimentari salutisti e moralisti, il boom di intolleranze, allergie, patologie gastrointestinali, che potrebbero essere il risultato o di anni di cibo confezionato o dello stress quotidiano.
Le ideologie dietetiche sono onnipresenti nell'agenda mediatica, spesso in forma polemica, e quando un brand della grande distribuzione alimentare sceglie di costruire la sua ultima campagna pubblicitaria sulla narrazione, quasi epica, di questa lotta, vuol dire che siamo giunti a un punto di non ritorno.
Ponti ha delegato all'animazione la rappresentazione dello Zeitgest alimentare, mostrando un campo di battaglia su cui carnivori lanciano carbonelle contro vegetariani, sushitariani bacchettano pastariani, crudisti infilzano vegani, fruttariani combattono con dietariani e macrobiotici. La contrapposizione mostrata dalla campagna non è solo tra le ideologie dietetiche, bensì tra un'età dell'oro in cui il cibo avvicinava le persone e l'era contemporanea in cui il discorso culinario crea tensioni. L'intento di #cibitempestosi è “fare il sapore e non la guerra”, come da manuale hippie, offrendo come panacea la bontà dei condimenti, il trait d'union fra tutte le semiosfere culinarie.
Ponti non fa altro che evidenziare ciò che Marrone chiama “il principio strutturalista” della cucina, spiegato, citando Italo Calvino, come “l'arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori”, in un'ottica meta-sensibile e sinestesica.
La guerra tra filosofie alimentari è la parodia della gastromania e dei suoi isterismi, che di sovente, e lo affermo da insider, portano vegani e vegetariani a tacciare i carnivori di cannibalismo. I cibi antropomorfi, dotati di armi, utensili da cucina, attaccandosi gli uni con gli altri dimostrano di essere tutti cannibali, non perché vogliono nutrirsi dei nemici, bensì per il loro feroce accanimento. Ogni tribù alimentare ha il suo ambasciatore, come Maestro Tofu, rappresentante dei vegani, la cui arma è una frusta, elemento dello sbattitore analizzato da Marrone nell'ambito di una sociosemiotica degli oggetti. La frusta e gli altri utensili da battaglia mostrati nello spot vanno interpretati come aiutanti da cucina, e il fatto di essere usati non più da chi cucina, ma dai cibi stessi generalmente lavorati con il loro ausilio, dimostra che, proprio come osserva Marrone, la socialità gastronomica coinvolge anche attori non umani dotati di emozioni e intelletto, capaci di fare “per noi” e “con noi”.
Nel discorso gastronomico si sostanzia non solo chi viene consumato, ma anche chi lo realizza e chi lo consuma, mettendo in gioco i rispettivi gusti. È proprio la semiotica a rendere possibile la discussione di questi ultimi, contrariamente a quanto, per perpetuare il mito, ha asserito Giulio Cesare davanti a degli asparagi al burro serviti nella residenza milanese di Valerio Leone. Il burro era sconosciuto ai romani, abituati all'olio, e considerato un'usanza barbara. Dei gusti si deve discutere e lo si fa tanto, usando come parametro di giudizio la soggettività, dimenticando che il senso del gusto riguarda pure le qualità degli alimenti. L'impiattamento può essere considerato bello o brutto, una pietanza può inebriare alcune papille gustative e demolirne altre, d'altronde, come osserva giustamente Marrone, “ogni gusto si basa su un disgusto”.
Comunicare la cucina vuol dire tradurre il cibo-linguaggio in un'altra lingua, comprensibile ai più, dotandolo di “configurazioni strategiche” che assumono senso e valori sociali e antropologici. Marrone parla dei ricettari, vero e proprio genere letterario nato per divulgare i silenziosi saperi della mano e preservarne la memoria. Le testimonianze sono molteplici, a partire dal De re coquinaria di Apicio, gastromaniaco della Roma del basso Impero, suicidatosi, secondo Seneca, per non affrontare la povertà che gli avrebbe impedito di continuare a preparare i suoi famosi banchetti. Nonostante l'identità di Apicio sia, parimenti alla questione omerica, difficile da stabilire con certezza, è indubbio che lo scritto attribuitogli è una traccia importante dei gusti dei nobili dell'antica Roma. Il libro settimo Polyteles, vivande prelibate, è una lista, con annessi tutorial per la preparazione, di ciò che avremmo trovato nel corrispettivo delle tavole stellate dell'epoca: oltre ai banali tartufi, serviti arrostiti o scottati, con miele, vino e sale, ricoprono una posizione di predominio, non si sa se dovuto all'effettiva importanza o al caso, vagine sterili e poppe di scrofa. Apicio spazia dalle proporzioni esatte degli ingredienti alla loro semplice enumerazione, rimettendosi al buon senso del lettore, a cui va in soccorso anche rispetto alla conservazione e al recupero dei cibi. Come direbbe Lévi-Strauss, Apicio si divide tra ingegnere e bricoleur, tanto da poterlo considerare come il precursore delle ricette svuota frigo o di riciclo degli avanzi delle feste.
Qualunque sia il saper-fare del lettore/esecutore, ricorda Marrone, ogni ricetta viene interpretata sino al punto di diventare un testo secondo, un patchwork costruito e confezionato con precisione filologica grazie allo studio e alla ricostruzione delle varie fonti disponibili. Si può, ad esempio, consultare un volume di Cracco e un blog qualsiasi, passando per un video-tutorial e la solita telefonata all'amico o parente bravo in cucina. Ogni ricetta viene rinegoziata rispetto a gusti, esigenze, materie prime e strumenti disponibili, lasciando spesso al caso il suo risultato, con buona pace dell'autore della ricetta che scarica ogni responsabilità sull'esecuzione. Raccontare la genesi di un piatto assomiglia a un racconto perché, afferma Marrone, riguarda un susseguirsi di “azioni che trasformano stati di cose, di soggetti che modificano oggetti”, rispetto a una determinata temporalizzazione, aspettualizzata o agogica. Si deve eseguire un programma ben preciso e portarlo a termine.
C'è un trend in atto che prevede il radicale sovvertimento del tempo della ricetta, o per meglio dire, il suo adeguamento a quello dei social network, mezzo di diffusione privilegiato di questo nuovo sotto-genere. Tutto nasce da Tasty, una sorta di progetto editoriale dedicato a video ricette formato snack, dalla durata di circa un minuto, dove l'effetto di senso invariante è, traduco semi-letteralmente, guardare il cibo, chiudere gli occhi, poggiarsi all'indietro e sospirare «sì». Chiunque di noi, avvezzo a Facebook, sarà rimasto ipnotizzato da questi video, condivisi da uno dei 52 milioni di likers della pagina, e avrà alzato il sopracciglio guardando bacon ripieno di pollo, a sua volta imbottito con formaggio, carne trita, patatine fritte e ricoperto da salse che definire caloriche è riduttivo. I video a porzione ridotta mostrano tutte le fasi di esecuzione della ricetta manifestando l'elasticità del discorso culinario, condensato grazie al montaggio accelerato dato dall'accostamento di inquadrature di breve durata, in cui sono nominati ingredienti e quantità, e dal susseguirsi di tagli netti, volti a generare l'effetto di tensione. In calce al video è presente il rimando alla ricetta per iscritto, comunque breve rispetto ai canoni.
Tasty è l'antitesi delle ricette di risotto alla milanese magistralmente esaminate da Marrone, rispetto a cui persino il blog giallozafferano, il meno esauriente del suo corpus, brilla per completezza. Se Bay prende per mano il lettore incompetente promettendogli di trasformarlo in cuoco provetto, a patto di seguire alla lettera le sue procedure scientifiche, Cracco lo accompagna in “una ricostruzione poetica del mondo naturale”, proponendo un punto di vista ludico. Entrambi hanno carattere pedagogico, ma il secondo permette anche il “tocco dello chef”. Pellegrino Artusi propone ben tre ricette di risotto, ma non si dilunga in particolari perché presuppone sia conoscenze pregresse in materia, sia una lettura delle pagine precedenti in cui sono disseminate le indicazioni sui metodi di cottura.
Giallozafferano adopera un registro linguistico adeguato al target, semplice, famigliare, ma l'esposizione non è esaustiva perché rimanda a immagini dimostratesi un supporto inefficace. La temporalizzazione è omogenea più o meno in tutte le ricette, anche se potremmo ritenere Tasty una semplificazione estrema del modello di Artusi, che prevede un mero susseguirsi di fasi, alcune spesso rese implicite come lo sminuzzare, il tagliare, ecc. I video di Tasty sono di autori ignoti e diversi, quindi mancano di omogeneità nello stile discorsivo, ma soprattutto dell'affidabilità del cuoco o del blogger le cui competenze sono ormai riconosciute. L'agogica è rappresentata dal ritmo accelerato del montaggio che illude sulla velocità di esecuzione: non c'è traccia dei tempi reali, a parte quelli di cottura, mentre valorizzazione e comprensione della ricetta sono totalmente rimandate al suo interprete. Siamo agli antipodi della nenia procedurale della mantecatura del risotto, anzi assistiamo alla sua dissacrazione nella ricetta One-Pot Lemon Pepper Chicken & Rice. In primis il riso, Arborio, strana scelta per un piatto che rimanda all'India, viene tostato in resti di sugo di pollo, cipolle, aglio e burro. Il primissimo piano utilizzato dovrebbe mostrare in poche frazioni di secondo i risultati della tostatura, abbastanza difficile da individuare visto che il fondo è colorato dalla paprika precedentemente utilizzata.
A questo punto vediamo versare il vino bianco, come da ricetta di Cracco, a cui segue un' energica mescolata e qui arriva il bello: invece di aggiungere il brodo piano piano con il mestolino, il riso è letteralmente affogato, pepato e rimescolato, processo sottolineato dall'inquadratura nel dettaglio che mostra un ribollire da zuppa. Dopo viene aggiunto il pollo, la pentola viene coperta e messa in forno trenta minuti per la cottura pilaf, generalmente associata al Basmati. Non ci aspetteremmo la mantecatura, ma c'è, eccome se c'è! Se mantecare vuol dire legare aggiungendo un grasso, Tasty fa tripletta: aggiunge burro, parmigiano e latte, più del prezzemolo. Se il risotto “dribbla” liquidità della zuppa e solidità della pasta, il riso al pollo li sussume entrambi, ma a parte la ricetta in sé opinabile, è come viene presentata in video a fare la differenza, considerando che ho impiegato il quadruplo del tempo del video a descriverla. A proposito del risotto, Marrone cita anche la descrizione barthesiana del riso giapponese, che ha due regole fondamentali: deve essere compatto, ma i chicchi devono essere ben distinti tra loro, ciò deriva dalla maggiore glutinosità del tipo di riso e dal metodo diverso di preparazione e cottura.
Traducendo in ideologia nazionalista, Marrone opera la proporzione tra lo spirito di gruppo giapponese e l'individualismo italiano, evidenziando che i piatti identificano la patria e la sua struttura sociale. Nel caso del Giappone, l'essere uniti, ma riconoscibili la dice più lunga sul loro spirito di corpo rispetto al nostro, non proprio mantecato alla perfezione. Invece, il “risotto patrio” di Gadda mette in luce che l'italiano è più spinto verso il localismo che al nazionalismo, preferendo ora la cotoletta, ora la braciola al ragù. Il cibo-linguaggio comprende modelli sociali e usi idiosincratici, specialmente quando si eleva a simbolo identitario di un paese.
Insomma, la cucina, locale o etnica, è insieme identità e alterità, punto di contatto e di contagio tra semiosfere diverse, similmente a quanto abbiamo visto con la creolizzazione delle procedure di cottura nella ricetta di Tasty.
Marrone analizza le varie sfaccettature del testo gastronomico compiendo un itinerario gustativo con tanto di tappe mediatiche (cinema, Masterchef, pubblicità), enologiche, letterarie, storiografiche, quasi 400 pagine a cui non è facile rendere giustizia in un solo articolo.
È come quando il primo sbuffo di vapore esce dal coperchio della pentola cuoci-riso: la cottura è solo all'inizio, per completare il piatto bisogna aguzzare i sensi e andare oltre quelli comuni.