La memoria e l’apocalisse sintetica / Blade Runner 2049
In una landa desolata, quasi postapocalittica, l’agente K (diminutivo di KD6.3-7, replicante della polizia di Los Angeles interpretato da un Ryan Gosling perfetto nella sua inespressività) deve “ritirare” (eufemismo per uccidere) un modello vecchio e quindi meno disciplinato di Nexus (breve ma strepitosa apparizione di Dave Bautista), umani sintetici creati dalla Tyrrell Corporation. Nebbia, un albero scheletrico, una serra in cui vengono coltivati vermi, uniche proteine che sfuggono alla rovina del mondo: Blade Runner 2049 (da qui in avanti BR2049) inizia così, in uno scenario distopico classico ma per certi aspetti molto diverso da quelli che avevano caratterizzato il primo film (Blade Runner, Ridley Scott, 1982, da qui in avanti BR) e che hanno segnato per decenni l’immaginario di tonnellate di visual artists. Una sola scena, quella iniziale, con l’uccisione dell’esemplare obsoleto e il successivo ritrovamento sotterraneo di una misteriosa urna contenente ossa, basta per suggerire qualche considerazione sull’attesissimo sequel firmato da Denis Villeneuve.
Distopie Ucroniche
John Stuart Mill, filosofo positivista, conia nel 1868 il termine “distopia” (dis-tópos), contrario di “utopia” (u-tópos). Distopia sarebbe, in altre parole, la descrizione di una società futura ipotizzata come la più spiacevole e indesiderabile tra quelle che si potrebbero realizzare. Proprio perché possibili, le narrazioni distopiche immaginano un futuro che mantiene un legame polemico e problematico con alcuni mali del presente, portandoli a conseguenze (ipotetiche) estreme.
BR2049 è però una distopia atipica: non può infatti immaginare il 2049 partendo dal nostro 2017, bensì deve farlo ucronicamente partendo dal 2019 del cult movie di Ridley Scott, che nel 1982, intercettando anche le inquietudini dell’inizio dell’era reaganiana, ipotizzava un futuro nerissimo ma assai diverso dal pur allarmante scenario che stiamo vivendo. Dal momento che la direzione artistica di questo sequel è passata nelle mani di Denis Villeneuve, regista che - analogamente a Christopher Nolan, sebbene con modalità diverse - concepisce il genere come strumento per intavolare “altri” discorsi e per stimolare domande, il progetto estetico di BR2049 si pone esplicitamente due ambiziosi obiettivi, potenzialmente in contrasto tra loro: da un lato non tradire il titolo che porta, senza finire schiacciato dal peso della sua storia; dall’altro, però, ripensare l’immaginario cyberpunk del film di Scott per rendere la sua natura distopica più efficacemente legata al nostro presente.
Il meta-blockbuster
La ripresa, ad anni di distanza, di vecchie saghe sta diventando abituale nell’industria cinematografica americana. Negli ultimi tempi è riscontrabile una tendenza che, qualche tempo fa, in occasione dell’uscita di Episodio VII - Il risveglio della forza, mi è capitato di definire metablockbuster. Si tratta di narrazioni all’interno delle quali si muove un personaggio che è, di fatto, un’estensione dello spettatore-fan, alle prese con i feticci e i gadget dei/del film originale. In Episodio VII (Star Wars: The Force Awakens, J. J. Abrams, 2015), Rey va a caccia sul pianeta Jakku di reliquie della trilogia fondativa, esattamente come i fan della saga vanno a caccia di gadget e oggetti, con la stessa idolatrica affezione.
È il cinema che si appropria e mette in scena la devozione feticistica del pubblico, cosa che fa, ad esempio, anche il film Creed (Creed, Ryan Coogler, 2015) con la saga di Rocky, in cui Adonis, figlio di Apollo Creed, è un ammiratore dei combattimenti tra il padre e Balboa tanto quanto lo siamo noi spettatori. Il rapporto che BR2049 istituisce con BR si configura secondo una modalità più o meno simile, evitando però il rischio di ridursi a una sorta di cripto-remake (rischio che Episodio VII non riusciva a evitare). Nel film di Villeneuve, il cacciatore d’androidi K, detective sintetico irresistibilmente noir, che come Sam Spade tira a campare in un condominio caotico dividendo l’esistenza con un ologramma con cui si confida (bellissima Ana de Armas), scopre progressivamente il mondo della prima saga e il mito di Rick Deckard, al punto che nella sua indagine si ritrova perfino a guardare e ascoltare (e noi con lui) scene cult del primo film.
Esplicitando questa forma di culto per BR, Villeneuve risolve quasi del tutto il “problema” di doverci fare i conti: saldato il “debito”, su alcuni aspetti il regista canadese può distaccarsene senza tradire lo spirito del predecessore e può condurre il suo (grande) film altrove.
Il mondo alla fine del mondo
La distanza estetica con il primo film è - fin dalla prima scena - notevole: là c’era una città devastata da inquinamento, industrializzazione e sovrappopolamento e tutto era buio e pioggia, qui tutto è virato verso il seppia e il grigio dalla strepitosa fotografia di Roger Deakins. Alle megalopoli immaginate nel 1982 da Syd Mead ora si affiancano spazi immensi, desertici, chiari. Sul piano narrativo la discontinuità è segnata da un blackout, un evento drammatico cui i personaggi fanno spesso riferimento, che è accaduto nel tempo che separa le timeline dei due film e che permette a Villeneuve di raccontare un mondo che sembra molto più una diretta conseguenza delle nefaste scelte che segnano il “nostro” che una continuazione della catastrofica civiltà del primo episodio: riscaldamento globale, degrado ambientale e fine degli idrocarburi, accompagnate da una decimazione della popolazione terrestre - probabilmente dovuta, oltre che alle migrazioni verso i pianeti-colonia, a una carestia, alla sparizione delle piante e alla costante assenza del sole - che ha svuotato le strade iper affollate in cui Deckard si trascinava nel primo episodio e rende tutto imprevedibilmente ordinato e asettico.
Il concept architettonico, sviluppato dal set designer Dennis Gassner, inoltre, rispetta le straordinarie idee di Syd Mead che avevano segnato l’originale, ma le porta nella direzione di uno scenario in cui tutto ormai sembra finto e innaturale, in altre parole finto e sintetico.
Umano, troppo umano, post umano
Ciò che rende BR2049 un grande film è - a partire da questo distacco con il predecessore - la sua capacità di sollevare domande resistendo alla tentazione di dare presuntuosamente risposte. Anche il film di Scott aveva questa natura felicemente problematica, ma Villeneuve - e qui so di diventare bersaglio degli strali dei fan più genuini - è un autore più introverso e raffinato: paga qualcosa in termini di potenza immaginifica, ma alza la posta intellettuale del discorso. Al centro, rimane ovviamente la domanda chiave: che cosa significa “essere umani”? Entrambi i film sostengono con chiarezza che questa domanda ha risposte molto meno scontate di quanto si pensi.
I replicanti di Scott tornavano sulla terra, guidati da Roy Batty (Rutger Hauer) per chiedere a Mr. Tyrell “più vita”. Il test a cui venivano sottoposti, il test di Voight-Kampff, misurava il loro grado di empatia; test che si scontrava con una cruda verità, cioè che gli umani “veri” a volte ne sono totalmente privi, mentre quelli sintetici possono averne molta di più.
In BR2049 il confine tra umani e replicanti si snoda inizialmente lungo un discorso “biologico”. In un mondo che ha appiattito ogni differenza razziale perché ha annullato ogni sfumatura culturale, i nuovi bersagli sono i “lavori in pelle”, come vengono dispregiativamente chiamati i replicanti. «Ogni civiltà è stata fondata su una manodopera sacrificabile», dice il nuovo guru della Tyrrell (pessimo Jared Leto), cieco magnate indovino. La manodopera sacrificabile è quella non “nata”, ma “creata” in laboratorio. È tutta qui l’essenza dell’umano, la differenza tra ciò che è naturale e ciò che è sintetico, tra il vero e la copia?
Radici
L’uomo sembra aver creato un mondo inanimato che lo ha soffocato e stritolato. È una civiltà di frammenti assemblati, di copia-incolla prodigiosi: non c’è (quasi) più nulla di nuovo, ci sono solo pezzi impunturati appartenenti un tempo a un tutto che non si riesce più cogliere nel suo insieme. L’ossessione del controllo ha eliminato tutto ciò che contiene un qualsiasi elemento di imprevedibilità. Tra umani disumanizzati e replicanti umanizzandi il confine biologico sembra l’unica barriera di imprevedibilità rimasta. I replicanti chiamano la nascita “miracolo”, proprio perché impedisce di prevedere realmente che tipo di individuo sarà generato: ciò che separa la nascita dalla creazione è appunto l’ingrediente magico, governato dal fato, che è ciò che distingue la natura dalla scienza.
Quando K pensa di essere nato e non di essere stato creato, si sente in qualche modo speciale, nonostante il capo della LAPD (Robin Wright) gli ricordi: «tu sei una copia, non hai un’anima». I replicanti, qui come nel primo film, sono dotati di ricordi impiantati artificialmente, anch’essi frammenti, hanno cioè memoria di un passato che non hanno mai vissuto. All’inizio del film, K sa bene che le sue memorie d’infanzia sono false, ma il suo inconscio vi attinge come se fossero vere per modellare la sua personalità. Mentre la narrativa ci ha abituati a personaggi sconvolti perché scoprono che ciò che credevano vero del loro passato in realtà non lo è, K è sconvolto perché suppone che ciò che credeva falso – non solo i ricordi, ma se stesso - sia in realtà vero, comincia a sperare di avere un passato, una radice nel terreno, un collegamento con la terra che unisca quel poco che è rimasto di naturale e reale. Ciò che renderebbe K reale non è se effettivamente sia nato o stato creato, ma è il bisogno di appartenenza a un tutt’uno che sembra essersi spento in quel black-out cui si fa continuo riferimento.
È su questo punto che il film, anche in maniera un po’ disordinata, solleva le domande più interessanti. Forse quindi non è solo l’imprevedibilità biologica della natura a marcare la distanza tra umano e sintetico. Forse sono la coscienza della propria storia, la percezione delle tracce che essa lascia nell’inconscio e delle proprie radici - quelle dell’albero simbolicamente avvolgono l’urna che contiene le spoglie di Rachel - gli elementi costitutivi dell’essere umano, gli strumenti che permettono all’uomo di pensarsi e percepirsi, di immaginare un futuro senza limitarsi ad assemblare pezzi di passato. Nella bellissima sequenza che segna il ritorno in scena di Deckard, in una Las Vegas abbandonata, nel casinò semi distrutto in cui vive il vecchio cacciatore di replicanti, si accende una specie di diorama con Marilyn Monroe ed Elvis Presley. Deckard, come le immagini di Elvis, come la città abbandonata, sono la storia, il grande passato che K cerca per sé, come un figlio cerca il padre.
Non c’è pubblico, ma le immagini scorrono e da un lato ribadiscono che il vero incubo che il film paventa è quello di un futuro in cui la storia è ridotta a brandelli, dall’altro si fanno apologia della testimonianza, della storia e - perché no - anche del cinema e di tutto ciò che della memoria può farsi custode, proponendo una via d’uscita a questa umanità spezzata.
Come il suo predecessore, quindi, BR2049 si chiude senza risposte ma con una nota di speranza: nell’ultima scena la neve sembra portare un po’ di innocenza e segna il finale di un film straordinario, lento e ipnotico, attuale e avvincente, austero e rigoroso, un neo-noir formalmente impeccabile ma mai lezioso, a volte maestoso e abbagliante, che regge il confronto con il predecessore e tocca temi ultimi con la potenza di una nuova mitologia.