Biennale Musica / Saariaho, la drammaturgia interiore
Intorno all’opera i nervi sono a fior di pelle. A Parma basta un manifesto pop di Verdi e il festival a lui dedicato diventa un calderone ribollente che neanche le streghe nel Macbeth. Battaglie di retroguardia, certo, tanto più se la politica più retriva si mette di mezzo, ma non inedite. E alimentate dal tamtam dei social network spesso oltre il diritto di sciocchezza. Non è un bel viatico, nel momento in cui pare che dopo la lunga eclisse pandemica stia finalmente sorgendo l’alba del ritorno alla normalità per lo spettacolo dal vivo e il traguardo della capienza piena sia a portata di mano. Ma d’altra parte bisogna annotare che certi massimalismi contro la drammaturgia – ché di questo, specialmente, si tratta: una crociata contro i registi – non sono nuovi nel mondo dell’opera “storica” e non si possono davvero addebitare agli effetti delle restrizioni sanitarie.
Intorno all’opera contemporanea, però (e se non altro...), i nervi sono distesi: il genere gode della giusta considerazione ed è coltivato con l’attenzione che si riserva ai linguaggi vivi e capaci di dire ancora molto. Una dimostrazione di grande sostanza, in questo senso, è arrivata dalla Biennale Musica, in questi giorni alla prima edizione firmata da Lucia Ronchetti, intitolata Choruses. Attenzione alla voce, evidentemente, proposta in molteplici declinazioni creativo-sonore, ma attenzione specialmente alla sua centralità nei fatti teatrali di ogni specie, dentro e intorno al suono, come il sottotitolo chiarisce senza possibilità di equivoco: “Drammaturgie vocali”.
Un’esemplare dimostrazione di quanto l’opera sia viva – e di quante fervide opportunità continui ad incontrare grazie alla nuova musica – è arrivata da una delle serate principali della rassegna veneziana, quella che ha visto la rappresentazione al teatro Malibran del titolo più recente della vincitrice del Leone d’Oro alla carriera, la compositrice finlandese Kaija Saariaho. Si tratta di Only the Sound Remains, un lavoro che ha debuttato a Parigi nel 2016, con la regia di Peter Sellars (è in commercio il Dvd di quello spettacolo, andato in scena all’Opéra) e che a Venezia è stato proposto nel nuovo allestimento curato di recente dal figlio dell’autrice, Aleksi Barrière, per una produzione finora allestita solamente a Tokyo.
Il punto di partenza sono due drammi del Teatro Nō, peraltro mediati dal punto di vista testuale dalla traduzione in inglese realizzata da Ezra Pound sulla scorta degli studi e delle prime traduzioni approntate da quella singolare figura di nipponista della prima ora che fu (a cavallo fra Otto e Novecento) lo studioso pure americano Ernest Fenollosa.
Entrambe le vicende – termine improprio, visto che il Nō consiste semmai in una sorta di rituale contemplazione di situazioni, fitta di simbolismi – hanno una connotazione esoterica, spiritica. In Sempre forte, lo spirito di uno dei guerrieri favoriti dall’imperatore, morto in battaglia, compare al sacerdote che sta officiando una cerimonia con la quale intende offrire all’altare del defunto il magnifico liuto che proprio l’imperatore gli aveva regalato, chiamato “Montagna Blu”. Tuttavia, l’incontro e la melodia delle preghiere non servono a placare i tormenti del fantasma. Ben più liberatorio è il secondo dramma, Il mantello di piume, nel quale un pescatore si trova a confronto con un Tennin, uno spirito della Luna, del quale ha casualmente trovato il meraviglioso mantello, indispensabile alla creatura eterea per tornare in cielo. Il confronto è inizialmente fitto di molte incomprensioni. Ma ben presto l’uomo riconoscerà la natura dei suoi limiti rispetto allo spirito celeste e non si opporrà ai suoi desideri, ottenendo come ricompensa una meravigliosa danza.
La musica di Kaija Saariaho costruisce su queste coordinate poetiche di rarefatta ma nitida portata emozionale una drammaturgia esemplare, nella quale l’incrocio fra la voce e gli strumenti realizza una ricchezza espressiva sempre sorvegliata, fluttuante e morbida, all’insegna di una sorta di umanistica partecipazione interiore che è forse il tratto più coinvolgente del linguaggio di questa compositrice. Dal punto di vista stilistico, le linee vocali principali, affidate a un controtenore (straordinario Michał Sławecki per nitidezza e flessuosa adesione alla parola) e a un baritono (l’ottimo Bryan Murray) affondano le loro radici nella tradizione novecentesca alta, ma aliena dai radicalismi dell’avanguardia alla cui scuole pure la compositrice finlandese ha iniziato il suo percorso creativo. Per l’assonanza tematica (mondo fantasmatico, in primis) e stilistica viene in mente il Britten del Giro di vite. Decisivo è però, anche nel trattamento delle voci soliste, l’uso da parte della compositrice finlandese dell’elettronica, impiegata sapientemente in chiave di amplificazione non meno che di elaborazione. Ne sono corresponsabili per il design del suono originale Christophe Lebreton e per l’ingegneria del suono Timo Kurkikangas. Il risultato è una sorta di aura vocale che delinea la cornice poetica di una drammaturgia fatta di parole cantate e di colori cangianti e diafani, in continuo rapporto con la flessuosissima invenzione quasi antifonale affidata a un coro di quattro vocalisti, i raffinati Else Trop (soprano) Iris Oja (mezzosoprano), Paul Bentley Angell (tenore) e Jakob Bloch Jespersen, che non per caso definiscono il loro gruppo “Theatre of Voices”.
Altrettanto decisivo è il discorso strumentale di una partitura davvero composita ma straordinariamente unitaria sul piano espressivo. Lo compongono un quartetto d’archi (due violini, viola, violoncello), flauti nelle varie tessiture (dall’ottavino al basso), percussioni e il kantele, strumento a corde pizzicate centrale nella tradizione finnica. Anche in questo caso, l’elettronica, lungi dall’assumere un ruolo meramente tecnico, serve per allargare e arricchire una tavolozza timbrica che offre comunque straordinarie suggestioni dentro a un’invenzione coesa, profonda, armonicamente del tutto libera eppure mai avulsa dalle necessità espressive della drammaturgia. E la centralità dell’invenzione strumentale è affermata anche dall’ampiezza degli interventi autonomi, veri e propri “interludi” (per usare un termine tradizionale) tutti condotti con mano sicura e pertinenti scelte dinamiche e di fraseggio dal direttore Clément Mao-Takacs.
Essenziale fino all’aforistico la regia di Aleksi Barrière (scene e costumi erano di Étienne Exbrayat), forse un po’ troppo minimalista nella seconda parte – che si sarebbe giovata di qualche suggestione in più a livello di proiezioni e luci – ma comunque coerente con le drammaturgie che si integrano nell’opera, quella orientale del Nō e quella integrale della musica, tutta giocata su un’interiorità capace di “parlare” al pubblico con istintiva forza comunicativa. La non secondaria parte coreografica, curata da Kaiji Moryama, che era anche il danzatore nello spettacolo, è stata risolta in gestualità rituale ma spesso anche istintiva, quasi improvvisatoria: una scelta idonea per dare presenza drammatica e risalto “corporale” ai personaggi-spiriti che la danza deve incarnare.
Un versante molto diverso ma ugualmente intrigante di “drammaturgia vocale” era quello promesso da un altro degli eventi maggiori di un calendario peraltro assai fitto e molto ricco anche di novità assolute – nel quale hanno avuto notevole risalto esecutivo e creativo i prodigiosi Neue Vocalsolisten di Stoccarda, insigniti di un più che meritato Leone d’Argento per il loro ruolo nella musica di oggi. Ci riferiamo alla serata “Travelling voices”, una prima assoluta su commissione della Biennale che ha aperto al pubblico – in questo caso alquanto ridotto per effetto dei distanziamenti – lo scrigno della Basilica di San Marco.
Il luogo in cui si è svolta la serata era parte decisiva del progetto di Christina Kubisch, “sound artist” tedesca che appartiene alla stessa generazione di Kaija Saariaho, quella dei compositori nati nell’immediato dopoguerra e dunque venuti a contatto con l’avanguardia radicale nelle sue ormai tarde manifestazioni, a partire dagli anni ’70. Kubisch è una specialista nello studiare e creare musica che abbia un rapporto spaziale specifico con il luogo della sua esecuzione (o riproduzione tecnica) e da questo punto di vista la secolare storia musicale di San Marco era quanto di più indicato. Si tratta infatti di un luogo la cui complessità architettonica si riflette in una problematicità acustica. Che nel corso dei secoli ha spinto i compositori che vi hanno lavorato (i maestri della Cappella Marciana) a trovare straordinarie soluzioni acustiche ed esecutive, di fatto rendendo la polifonia un effetto ambientale oltre che un linguaggio musicale, per la necessità di suddividere gli esecutori e spesso di lasciarli nascosti alla vista dei presenti. E si parla dell’arte di sommi maestri cinque-secenteschi come Willaert, Andrea e Giovanni Gabrieli, Zarlino e Monteverdi.
Da loro, per un complesso viaggio da San Marco all’altrove e ritorno, è partita Christina Kubisch. Una serie di piccoli brani polifonici di questi autori è stata registrata al Teatro Piccolo Arsenale. Il materiale musicale è stato quindi portato in altri luoghi e altri spazi fuori dall’Italia, riprodotto e ri-registrato fino a costruire una struttura sonora elettronico-vocale a 12 canali che peraltro è strutturata in entità formali ben definite: Partenza, tre Viaggi e Arrivo, per una durata di circa 25 minuti.
Il tutto è stato proposto in San Marco interpolato dai brani di partenza, se così vogliamo dire, affidati all’educatissima e sofisticata Cappella Marciana diretta da Marco Gemmani. Un confronto fra l’antico e l’attuale che in questa chiesa è prassi non insolita, se è vero che cinquantacinque anni fa, ad esempio, la prima assoluta del Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis di Stravinskij fu affiancata dall’esecuzione di brani rinascimentali.
In questo caso, gli autori antichi hanno ottenuto una volta di più l’effetto che cercavano, grazie anche alla sapiente “occupazione” degli spazi da parte della Cappella Marciana, ben visibile solo all’inizio e alla fine, poi dislocata in alte cantorie oppure proprio invisibile, ma sempre efficacemente udibile. Anche la spazializzazione della creazione di Kubisch ha raggiunto qualche buon esito (se ne sono occupati in particolare Thierry Coduys ed Eckerard Güther), ma solo in rari momenti il confronto fra l’elaborazione elettronica del suono e la vocalità di partenza si è delineata secondo una struttura capace di far cogliere antecedenti e conseguenti, cause ed effetti, colori e loro modificazioni. Nell’insieme, quindi, il concerto è parso una sorta di “installazione” sonora dentro alla quale alla parte digitale-elettronica era affidato il ruolo di rappresentare, quasi in chiave distopica, la disgregazione della polifonia, restituendo le sue sonore macerie. Ma in fondo, anche questa è drammaturgia musicale nelle voci.
Crediti fotografici: Courtesy La Biennale di Venezia – © Andrea Avezzù.