Lo humour del corpo / Lo slapstick ne “La Pantera Rosa”
Vi è mai capitato di sbattere contro un palo per strada perché troppo presi dal vostro smartphone? E di fare poker con gli spigoli del tavolo della cucina? O ancora di cadere dal tapis roulant in palestra mentre cercavate di darvi un tono con gli astanti in perfetta forma fisica? Se la risposta è sì, mi dispiace per l’imbarazzo che avete provato al momento – ne so qualcosa – ma potete consolarvi perché fate ufficialmente parte del roboante mondo dello slapstick, dove il tasso di dolore corrisponde al grado di clamore delle risa.
Il genere slapstick si assimila alla farsa poiché si basa su un humour incarnato, corporeizzato, caratterizzato da situazioni assurde dove il comico-buffone deve cimentarsi in prove fisiche, addirittura acrobatiche, azioni sfrenate, dimostrando di saper padroneggiare perfettamente il tempo e lo spazio.
La denominazione slapstick pone le sue radici proprio nell’innesco della risata, vale a dire nell’oggetto adibito a creare gli effetti sonori delle gag fisiche, durante cui gli attori si azzuffano mimando dolore, paure e panico. La parola slapstick si compone del suono onomatopeico di un bel ceffone (slap), di quelli che al cinema fanno ridere, e che non comportano indignazione per la violenza del gesto, e del riferimento diretto al manufatto in questione, ovvero due legnetti, collegati da una molla e connessi a un manico, che entrando in contatto simulano il rumore di un colpo. La tempistica, come già segnalato, deve essere sorprendentemente precisa: un paio di secondi di ritardo potrebbero comportare il fallimento della gag e la sua decodifica aberrante.
Lo slapstick-oggetto ha una storia assai antica, risalente alla commedia dell'arte, e alla spatola con cui Arlecchino, la maschera che più di tutte è associata alla mancanza di serietà, vessa il malcapitato di turno, durante le gag fisiche di cui è protagonista. Già, perché il vero discrimine sta proprio nel protagonismo assoluto del corpo, un corpo sofferente, deformato dal travestimento, grottesco e dinamico, i cui movimenti, talvolta, sono ulteriormente esasperati dagli effetti cinematografici di rallentamento e velocizzazione. È il corpo a rendere lo slapstick una commedia “bassa” in quanto si basa sugli effetti di senso prodotti dal fisico piuttosto che da arguti motti di spirito, allusivi per natura, che non innescano la risata immediata.
Le gag fisiche dello slapstick sono uno dei maggiori esempi di auto-ironia finzionale, convogliati al pubblico con performance immersive dei comici, che assurgono a figure da considerare, seguendo l’antropologo Masao Yamaguchi, come il riflesso di un meccanismo attraverso cui noi ristabiliamo la potenziale relazione col mondo reale e facciamo ripartire la nostra vita attraverso le immagini da loro convocate. In questo modo facciamo pace con il nostro lato ridicolo e goffo, esorcizzando l’imbarazzo. Yamaguchi, inoltre, afferma che gli attori dello slapstick fungono da intermediari tra gli elementi sovversivi e i pattern esistenti della narrazione trasformando la struttura in modo da farle incorporare la realtà non normativa. Insomma, in parole povere ciò che è normale e comune, come cadere, inciampare, causarsi un bernoccolo contro uno spigolo, o, più in generale, alcuni impeti di ira, viene “straniato”, reso nuovo e sorprendente, in modo da poter patteggiare con i tabù culturali, tratteggiando i limiti del socialmente accettabile, gettando nella vergogna il capro espiatorio di turno, nel nostro caso uno dei tanti personaggi della commedia slapstick.
Pensiamo a “The Pink Panther” (1963), il primo film dell’omonima saga diretta da Blake Edwards, dove il povero ispettore Jacques Clouseau, interpretato da Peter Sellers – l’unico degno di questo ruolo – a causa della sua indiscutibile ottusità, viene, nel giro di sole 11 ore, tradito dalla moglie con il ladro colpevole del furto del diamante da cui proviene il nome del film, incastrato come colpevole, e arrestato. Sembra la cronistoria di una tragedia capitata a un uomo molto sfortunato, a un capro espiatorio dal destino crudele, e pertanto sembra lecito chiederci, come suggerisce Sam Wasson nel suo libro A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards, perché ridiamo a crepapelle dinnanzi a una situazione così triste. E la risposta giunge mediante le parole dello stesso Blake Edwards: «Nel caso dell'ispettore Clouseau, lo slapstick, come ogni altro genere di commedia, è frutto del personaggio... se il personaggio incarna un certo tipo di autorità di cui tu o io potremmo ridere, e se possiamo inserire azioni violente, fisiche, come scivolare su una buccia di banana o cadere dentro un tombino, meglio è definito il personaggio, più sarà divertente».
Dunque, da un lato abbiamo il non plus ultra del socialmente indesiderabile come le corna e l’onta di un reato non commesso, mentre da un altro la nostra attenzione si focalizza sulla fallibilità dell'autorità, dove l’eccessiva fiducia in sé di Clouseau viene punita con umiliazioni corporali, oltre che morali. In questo caso il regista non si limita soltanto a gettare nella vergogna il topos del poliziotto stupido e presuntuoso, ma mette sotto i riflettori la piaga sociale degli incompetenti al potere e degli abusi sui più deboli. Edwards e Sellers, tra una risata e un’altra, portano lo spettatore a riflettere sui limiti dell’ideale di giustizia, che, come fa notare Wasson, nella saga de “La Pantera Rosa”, viene perseguita grazie alla formula ricorrente “vanagloria + gag violente = autenticità”, finalizzata a svelare la vera natura dei personaggi della narrazione, e, di conseguenza, dell’intero genere umano.
Edwards considera la sua commedia come un placcaggio a sorpresa, per scuotere il pubblico e indurlo a pensare, a rivedere i tabù della sua cultura, ragionamento che si conduce più facilmente mentre si ride.
Ogni gag viene coinvolta in un processo di drammatizzazione in quanto portatrice di una determinata ideologia mirata a riconsiderare ogni volta un aspetto diverso della giustizia sociale, facendo assumere alla saga una certa responsabilità narrativa.
Se nella pellicola del 1963 Clouseau, personaggio metà Sherlock Holmes e metà Buster Keaton, ha la peggio, in quella successiva, “A Shot in the Dark” (1964), sovverte la sua situazione risolvendo il caso senza alcuna logica, grazie a un totale ribaltamento della sua fortuna, ma almeno la sua innocenza e diligenza vengono premiate. Clouseau commette solo errori grossolani, senza riuscire ad ammetterli, ristagnando nella sua presunzione, e pertanto si rivela essere la nemesi dell'ispettore capo Dreyfus, l’incarnazione della razionalità investigativa, perché la sua idiozia fa vergognare l'uomo così tanto da portarlo alla follia, soprattutto perché non riesce a spiegarsi i suoi successi.
Possiamo categorizzare la vergogna di Dreyfus adoperando la classificazione proposta da Marco Belpoliti, vale a dire quella “di non avere successo, di non essere notati, [...] la terribile vergogna d’essere nessuno”. Clouseau alla fine dei conti attrae tutti i meriti su di sé, giungendo a occupare il posto di Dreyfus, la cui indignazione e imbarazzo si concretizzano nell'autolesionismo e nei ripetuti tentativi di uccidere lo sprovveduto nemico, causati dall'invalidamento delle basi sui l’ispettore capo cui ha fondato la sua etica professionale e individuale. Clouseau è una minaccia poiché portatore di caos e distruzione, proprio ciò che la cultura dovrebbe irregimentare e trasformare in ordine. Con la pazzia di Dreyfus, però, i ruoli si invertono e Clouseau gli passa il testimone di capro espiatorio: l’ormai ex ispettore capo viene espulso dalla società e rinchiuso in manicomio.
Ecco che la mente, quella alla base della comicità “alta”, intellettuale, ha la peggio sull’ingombrante corporeità dello slapstick, sancendo l’antropomorfizzazione della rivalità con la commedia sofisticata, anche se quest’ultima viene in qualche modo arricchita da una figurativizzazione più ampia di tutte le dimensioni simboliche dell’attività umana. Di certo la commedia slapstick è cruda e violenta, e spesso la consideriamo come una forma di riso infantile, ma Blake Edwards compie un passo in avanti, raffinandola ulteriormente: per Clouseau le bucce di banana non rappresentano una minaccia, perché la sua straripante idiozia lo sottopone a prove ancora più pericolose, come precipitare da una finestra o subire gli improvvisi assalti del maggiordomo Cato, esperto di arti marziali.
I combattimenti tra Clouseau e Cato sono un'assurda accozzaglia di tecniche provenienti da karate, judo, kobudo, la disciplina incentrata sull’uso delle armi tradizionali. Generalmente l'ispettore finge di essere colto di sorpresa perché il patto con Cato prevede un allenamento costante, soprattutto durante i tempi morti, quelli della quiete domestica. Nella maggior parte dei casi vediamo Clouseau attendere l'attacco in abiti di foggia orientale, come lo yukata, il kimono estivo, o addirittura il karategi con tanto di cintura nera, dato che, come ogni buon praticante di arti marziali, deve limitarsi a difendersi.
Le folli acrobazie dei due sono sottolineate o dalla slow-motion, che distorce visi e vocalizzazioni mettendo in rilievo sia la goffaggine nell'esecuzione delle tecniche sia i rovinosi capitomboli, oppure, come accade in “The Pink Panther Strikes Again” (1976), i movimenti di Clouseau, intento a ostentare la sua padronanza dei nunchaku, vengono velocizzati per citare la scena di “Enter the Dragon” (1973), in cui Bruce Lee, colui che ha reso popolare questo tipo di arma, si difende da un opponente armato di bastone, il cui ruolo è ricoperto da Cato, munito di bō tradizionale.
In effetti l’ispettore e il maggiordomo orientale risparmiano le urla nel fronteggiarsi, esasperando anche il kiai, cioè la potente emissione di voce, derivante da una forte espirazione, corrispondente agli attacchi più efficaci, dove si è al culmine della potenza. L'urlo è una sorta di climax della gag, che viene discorsivizzata in termini di durata e di aspettualizzazione spazio-temporale dando senso ai movimenti rallentati e velocizzati in relazione al grado di potenza dell’effetto di senso comico da indurre nello spettatore, vale a dire in continuum che va dal sorriso a fior di labbra alla risata a crepapelle.
Ogni sessione di combattimento è puntualmente interrotta dal trillo del telefono che riporta alla routine casalinga e lavorativa, ma, nonostante Clouseau in tutte le altre cose della vita sia diligente e onesto, non può ammettere di perdere con Cato, che, convinto di aver terminato l’allenamento, ogni volta viene sconfitto con uno stupido stratagemma, come mostrato nel film “The Return of the Pink Panther” (1975), in cui l’ispettore pronuncia la storica battuta «But, Cato, your fly is undone», “Cato hai la patta dei pantaloni aperta”, con lo scopo di far abbassare lo sguardo dell’uomo e metterlo al tappeto con un calcio diretto al volto.
Clouseau considera gli assalti a sorpresa come parte del ricco spettacolo della vita, giocando appunto sul suo essere l’anti-Bruce Lee, in quanto non esattamente dotato del physique du rôle, estendendo l’aura di autenticità dello slapstick alla rappresentazione cinematografica delle arti marziali, proiettate al di fuori della sfera dell’eroismo, sino a ricadere nel vortice della quotidianità più grottesca.
Nella saga de “La Pantera Rosa” la ripetizione delle stesse gag fisiche, come quella del combattimento, assume la funzione di dispositivo stereotipante che acquisisce senso nella sua formularità, in modo da strutturare il mondo a partire dal riso.
Come sottolinea Claudio Paolucci “il Riso è una delle nozioni più importanti all’interno dell’opera di Umberto Eco” perché “è legato a un divenire-basso di ciò che è alto” e mette “in discussione l'Ordine esistente col suo sistema di valori”. Lo stesso Eco ci avverte che “l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, osi finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme, o si è Rabelais o si è Cartesio”.
Il riso è dunque dotato di un potere sovversivo, fa sì che questioni serissime, di rilevanza sociale, come l’autorità e la giustizia ne “La Pantera Rosa”, possa essere presentata al grande pubblico in modo diretto, senza fronzoli e troppi giri di parole, in quell’attimo esilarante in cui si consuma il colpo al viso, autentico quanto il rumore del suo “slap”.
Nota bibliografica:
Gli studi di Masao Yamaguchi sulla cultura e l'ambiguità del buffone nel folklore e nel cinema sono magistralmente riassunti nel saggio di Ryuta Imafuku dal titolo “Masao Yamaguchi: A Hermes-Harlequin in the Field of Semiotics”, contenuto nel volume The Semiotic Web 1987, a cura di Thomas A. Sebeok, Jean Umiker-Sebeok (Walter de Gruyter 1988, pp. 93-108).
Per approfondire l'intera opera di Blake Edwards, rimandiamo al citato A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards di Sam Wesson (Wesleyan University Press 2010), disponibile online in formato e-book. L'articolo “Ci hanno portato via anche la vergogna” di Marco Belpoliti, pubblicato su La Stampa il 28 aprile 2010, è consultabile qui.
È di recentissima uscita per Feltrinelli (marzo 2017) l'omaggio di Claudio Paolucci a Umberto Eco, dal titolo Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura; mentre la citazione di Eco è tratta dal Diario Minimo, alla cui prima edizione del 1963, ripubblicata innumerevoli volte a stampa, si è aggiunto il formato digitale (Bompiani 2017).