Memoriali sonori dell’Olocausto

21 Ottobre 2023

Il viaggio comincia sull’Ettersberg, la collina boscosa nei pressi di Weimar. Un paesaggio idilliaco, uno dei luoghi del cuore di Goethe, che amava andarvi a passeggiare per poi sostare sotto una grande quercia a contemplare la natura. Ma anche il sito in cui nel 1937 – salvaguardando solo quello che si riteneva proprio l’albero prediletto dal più grande scrittore di Germania – venne realizzato Buchenwald, terrificante campo nazista di concentramento e di sterminio, dove fino alla primavera del 1945 (quando arrivò l’esercito americano) morirono decine di migliaia di persone: ebrei, oppositori politici, omosessuali. 

Si prosegue poi attraverso luoghi diversi, a volte carichi di storia e di bellezza, altre volte lontani, isolati, poco o per nulla conosciuti: da Lipsia ad Albuquerque nel New Mexico, profondo Sud-Ovest degli Stati Uniti; da Vienna a Coventry, da Garmisch-Partenkirchen a Babij Jar, alla periferia di Kiev, dove nel giro di due giorni alla fine di settembre del 1941 i nazisti trucidarono 33.177 ebrei – spingendo i cadaveri nella sorta di trincea-fossa comune sul bordo della quale avvenivano le esecuzioni a raffiche di mitra. 

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1 Richard Strauss al pianoforte nella sua villa di Garmisch.

Questa singolare e spesso drammatica geografia è delineata da Jeremy Eichler in L’eco del tempo (Marsilio Editore, traduzione dall’inglese di Francesco Peri, pagg. 432, € 22,00), libro nel quale una sintesi storico-culturale di notevole profondità, avvincente per la ricchezza di particolari rivelatori, convive con un taglio quasi da reportage giornalistico. E dunque chi legge ha anche il rendiconto di come sono, oggi, i luoghi dei quali l’autore ricostruisce la storia ma soprattutto – avendo come dichiarato punto di riferimento letterario lo scrittore tedesco W.G. Sebald – indaga la memoria: come si è formata e si è trasformata, come è stata elaborata e non di rado rimossa, come viene vissuta.

La cornice è la storia europea dopo la Grande Guerra e fino al Secondo conflitto mondiale e all’Olocausto. Ampliata peraltro da una vasta ricognizione su quanto era accaduto prima, sul progressivo tramonto del sogno culturale tedesco – quando le aspirazioni illuministiche coltivate da tanti artisti e spiriti illuminati nel tardo Settecento e nel primo Ottocento si scontrarono e finirono per soccombere alle pulsioni nazionalistiche, settarie, razziste e antisemite.

Ma il cuore del discorso riguarda la musica, della quale l’autore, critico dell’antico e autorevole quotidiano americano Boston Globe, è uno specialista, così come lo è della storia europea, argomento del suo dottorato di ricerca alla Columbia University. Non la musica del Novecento in generale, ma quattro autori per quattro capolavori. Grandissimi i primi, affascinanti i secondi, tutti nati nell’arco di meno di un ventennio dopo la fine della guerra, scelti per la forza memoriale e testimoniale che da essi si sprigiona.

Quella che emerge dalla lettura, quindi, non è una storia della musica nel XX secolo, ma una storia “attraverso” la musica di quattro composizioni per molti motivi epocali. Pagine che scaturiscono, ciascuna a suo modo, dalla memoria dell’Olocausto e della guerra più feroce e devastante (finora) nella storia dell’umanità. Ascoltando queste partiture – è la tesi di Eichler – si può percepire l’eco del tempo e dei tragici eventi a cui si riferiscono, ma anche e con altrettanta intensità quella del momento in cui sono state create. La loro esecuzione – la loro stessa esistenza – si configura come un “monumento nascosto” e nello stesso tempo come un esercizio di rielaborazione del ricordo. Musica della memoria – argomenta Eichler – e insieme memoria della musica, grazie a una facoltà caratteristica di quest’arte: se contiene il ricordo di terribili catastrofi riesce comunque a far rivivere «la promessa e la luce che ancora irradiano da epoche lontane. Insomma, quella che Walter Benjamin, con toccante semplicità, chiamava “la speranza nel passato”». Per molti aspetti, una prospettiva nuova nella discussa questione di sempre sul significato del linguaggio dei suoni, troppo spesso considerato una mera astrazione a-semantica.

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Richard Strauss nel 1945.

I protagonisti principali del libro, che si legge come un romanzo ma è nutrito da una inappuntabile precisione e ricchezza documentaria, sono Richard Strauss, Arnold Schönberg, Benjamin Britten e Dmitrij Šostakovič. Le loro composizioni al centro della narrazione sono rispettivamente Metamorphosen per 23 archi solisti (1945); Un sopravvissuto di Varsavia per voce recitante, coro maschile e grande orchestra (1947); War Requiem per voci soliste di soprano, tenore e baritono, coro di voci bianche, orchestra sinfonica e orchestra da camera (1962); la Sinfonia n. 13 per voce solista di basso, coro maschile e orchestra (1962).

I due autori di cultura tedesca hanno avuto un destino biografico e artistico molto diverso, e le loro “opere memoriali” ne sono il fedele rispecchiamento. Al momento della salita al potere di Hitler, Strauss era un musicista di chiara fama, eseguito e acclamato in tutti i teatri del suo Paese e non solo. Di lì a poco avrebbe accettato la presidenza della Camera Musicale del Reich e anche se ben presto sarebbe entrato in rotta di collisione con Goebbels e con lo stesso Führer, lasciando l’incarico, durante gli anni del nazismo e anche nel corso della guerra avrebbe improntato il suo comportamento a un’ambiguità che era probabilmente conseguenza di un opportunismo di carattere strumentale: il suo unico interesse era la sua arte, la composizione. Resta il fatto che se – ad esempio – non rinnegò mai davvero i suoi rapporti con gli intellettuali ebrei con cui collaborava (Eichler approfondisce in particolare il legame con lo scrittore e librettista Stefan Zweig, ultimo tragico simbolo della inutile speranza nell’integrazione culturale del mondo tedesco, che sarebbe morto esule e suicida in Brasile nel 1942), nemmeno prese mai chiaramente le distanze dal regime. Solo quando il suo mondo cominciò, non metaforicamente, a crollare sotto le bombe anglo-americane (colpi durissimi furono la distruzione dei teatri dell’opera di Monaco, Dresda e Vienna), il suo pensiero musicale – pur nella sostanziale sicurezza della sua villa di Garmisch – divenne “memoriale”.

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La villa costruita da Strauss a Garmisch nel 1906.

Nascevano, fra marzo e aprile del 1945, le Metamorphosen, complessa e affascinante partitura, capolavoro del genere variantistico, nella quale il tema della Marcia Funebre dell’Eroica di Beethoven emerge chiaramente solo alla fine, illuminando all’improvviso l’ascoltatore con l’evidenza della sua presenza per tutto l’arco della composizione. Sul significato autentico di questa sorta di epicedio, suggellato in partitura dalle parole “In memoriam!”, apposte dello stesso Strauss come un’imperiosa istanza, le interpretazioni sono innumerevoli, e spesso contrastanti. La più diffusa fa riferimento a una sorta di compianto per la fine di un’epoca della musica, ma questa lettura pecca di generica astrattezza.  L’idea di Eichler, invece, è di grande concretezza e suona come condanna morale dell’opportunismo straussiano. Si tratta, secondo il critico americano, di “una mesta meditazione filosofica sull’opacità del Sé”. Il musicista che aveva giustificato le sue azioni «sulla base di una dicotomia moralmente inammissibile tra l’arte e la politica, finendo per assecondare il male assoluto di un regime che, in soli dodici anni, aveva ridotto in cenere l’edificio della cultura nazionale», con questo memoriale faceva i conti con il proprio accecamento, mentre il suo mondo crollava e la sua vita si avvicinava alla conclusione (sarebbe morto quattro anni dopo). Una lettura che rende ancora più affascinante l’ascolto di questi densissimi 25 minuti di grande musica.

Se Richard Strauss fece di tutto per convivere con il nazismo, Arnold Schönberg fu tra i primi ad avvertire il pericolo, a denunciarlo, ad allontanarsi per sempre dal suo mondo, pur di evitare la sciagura che si stava abbattendo sull’umanità. Ebreo di nascita, mai praticante, convertito al luteranesimo nella cattolicissima e antisemita Vienna di fine Ottocento, l’inventore della dodecafonia sarebbe stato fra i primi artisti a sottrarsi alle politiche razziste hitleriane. Già nella primavera 1933 lasciò per sempre la Germania riparando in Francia, e più tardi quell’anno si rifugiò negli Stati Uniti, accolto con tutti gli onori tranne probabilmente quelli di una accettabile condizione economica. Fin dal breve soggiorno a Parigi il suo viaggio senza ritorno coincise con un riavvicinamento alla religione dei padri, più ideologico che concreto se è vero che quando nel 1947 mise mano alla Cantata Un sopravvissuto di Varsavia, dovette farsi aiutare dal rabbino di Los Angeles, dove si era stabilito, per quanto riguarda il testo corale conclusivo, il canto tradizionale ebraico Shemà Israel. La composizione era stata commissionata dalla Fondazione Koussevitzky di Boston, che ricevette la partitura – racconta Eichler – senza però mettere in cantiere un’esecuzione.

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Arnold Schönberg nel 1948, anno della prima esecuzione di "Un sopravvissuto di Varsavia" (foto Florence Homolka).

La musica che il filosofo Theodor Adorno e molto tempo dopo lo scrittore Milan Kundera hanno definito il più importante memoriale musicale dell’Olocausto dura appena sette minuti e mezzo, ed è scritta secondo i principi della dodecafonia. Il drammatico racconto della voce recitante, che in rigoroso Sprechgesang (il cosiddetto “canto parlato”) rievoca la distruzione del ghetto di Varsavia alla fine della lunga, gloriosa resistenza degli ebrei che lo abitavano e descrive l’abominio del campo di concentramento, assume grazie a questo linguaggio musicale, il più avanzato e rivoluzionario del Novecento, un’impronta metaforica commovente. La tragedia degli ebrei di Varsavia è “raccontata” secondo l’arte di un musicista che era stato marchiato dalla critica prona al regime nazista come undeutsch, spegnendo per sempre la sua ambizione di essere considerato il più grande compositore tedesco della sua epoca. E le straordinarie vicende della prima esecuzione assoluta dimostrano che c’era un grande bisogno di composizioni come questa – «che boicottava – annota il critico americano – in modo sistematico ogni logica consolatoria, ogni facile superamento del lutto» – per affermare il dovere della memoria. Nel clima di “amnesia collettiva”, come la definisce Eichler, dell’immediato dopoguerra, la Cantata sarebbe stata eseguita per la prima volta nella sperduta Albuquerque, nella palestra di una scuola, da parte di esecutori amatoriali, guidati però da un altro profugo proveniente proprio da Vienna, un direttore di coro e violinista ebreo di nome Kurt Fredrick. Nel ’38, dopo l’Anschluss, era riuscito a fuggire a New York; sua madre era stata arrestata prima di partire ed era morta ad Auschwitz. L’esecuzione sarebbe stata un trionfo, immediatamente ripetuta integralmente. E solo qualche tempo dopo, in Europa più che negli Stati Uniti, Un sopravvissuto di Varsavia sarebbe stato adottato dalle avanguardie. Luigi Nono, in seguito marito di Nuria Schönberg, figlia del compositore, avrebbe salutato la partitura come “il manifesto estetico-musicale della nostra epoca”, osservando anche che quella Cantata si poteva considerare come il terzo atto dell’incompiuta e drammatica opera ebraica del musicista austriaco, Moses und Aron.

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Dmitrij Šostakovič (a sinistra) insieme a Benjamin Britten (foto RIA Novosti). 

Fuori dall’area culturale tedesca, il libro indaga gli antefatti storici e le vicende compositive di due monumentali lavori nati nel 1962, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. E allo stesso tempo mette a fuoco lo straordinario rapporto fra i loro autori, l’inglese Benjamin Britten e il russo Dmitrij Šostakovič, nati rispettivamente nel 1913 e nel 1906 e destinati a scomparire a distanza di poco più di un anno l’uno dall’altro, fra il 1975 e il 1976. I due si erano conosciuti solo nel 1960, grazie al celebre violoncellista Mstislav Rostropovič, e la loro amicizia – testimoniata da un epistolario di enorme interesse – costituisce un “unicum” nella storia della musica: ciascuno proclamava l’altro come il massimo compositore del suo tempo e vedeva nell’arte dell’amico una primaria fonte di ispirazione. Ciascuno intuiva e ammirava nell’altro – nonostante la diversità delle esperienze di vita e oltre la suprema efficacia del loro linguaggio musicale – la potente soggettività che animava la sua arte.

Il War Requiem (proclamato da Šostakovič, appena lo ascoltò su un disco che Rostropovič gli aveva fatto avere oltre-cortina, la composizione più importante del XX secolo) è frutto di una commissione in occasione dell’inaugurazione del completamento della cattedrale di Coventry, quasi completamente distrutta dal sanguinoso e devastante bombardamento nazista del 14 novembre 1940. Come il progetto dell’architetto scozzese Basil Spence conserva i resti del maestoso edificio gotico e li collega a una parte in stile moderno, così la partitura di Britten si basa sulla “contaminazione” fra testi molto lontani l’uno dall’altro, l’Ordinario in latino della Missa pro Defunctis e una scelta di versi aspri e profondi di Wilfred Owen, il poeta britannico della Grande Guerra, morto venticinquenne in azione nel novembre 1918, pochi giorni prima dell’armistizio. Dunque, un memoriale doppio, che riflette da un lato sulla guerra che si era conclusa solo 17 anni prima, ma la collega anche alla Grande Guerra – l’evento più sacralizzato nel ricordo degli inglesi. E tralascia qualsiasi collegamento con l’Olocausto.

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Dmitrij Šostakovič nel 1958.

Britten, racconta Eichler, poteva avere avuto un’idea di quel che era accaduto nel mese di luglio del 1945, quando a tutti i costi aveva voluto essere il pianista accompagnatore del celebre violinista Yehudi Menuhin, inviato dagli Alleati per tenere alcuni concerti nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Bassa Sassonia. Un inferno nel quale, solo nei primi mesi del 1945, circa 35 mila prigionieri erano morti a causa del tifo. A quell’epoca, il compositore inglese era rientrato da pochi anni dagli Stati Uniti e aveva avuto modo di affermare il suo pacifismo integrale, ottenendo la qualifica di obiettore di coscienza e perciò evitando di essere coinvolto nel conflitto. Ne è espressione diretta la forza magnetica di questa partitura monumentale e profonda, drammatica e sofisticata, nella quale la riflessione sulla morte e sulla guerra diventano una universale proclamazione pacifista.

La sorte degli ebrei in Russia durante la “Grande Guerra Patriottica” – una parte dell’Olocausto minimizzata durante il conflitto e infine sempre negata dal regime sovietico – sta al centro della Sinfonia n. 13 di Šostakovič, presentata per la prima volta a Mosca il 18 dicembre 1962 con un successo travolgente, nonostante le autorità avessero cercato in tutti i modi di impedirne l’esecuzione. Erano gli anni di Chruščëv e dell’effimero “risveglio” dopo l’oppressione staliniana. Un anno prima, alla fine del 1961, un poema di Evgenij Evtušenko intitolato Babij Jar era stato fortunosamente pubblicato – come Eichler ricostruisce nei dettagli – sulla Literaturnaja Gazeta, il cui caporedattore aveva pagato questa scelta con il licenziamento. Era la prima volta che in Urss veniva svelata la tragica vicenda degli ebrei di Kiev, sterminati dai nazisti alla fine di settembre del 1941 e gettati in una immensa fossa comune scavata come una trincea. “Non esiste un monumento a Babij Jar”, inizia la poesia di Evtušenko. E prosegue con una dolente e intensa rievocazione di quell’evento sconvolgente sconosciuto al popolo dell’URSS e con un appassionato proclama di solidarietà fra russi ed ebrei. Šostakovič – racconta Eichler – decise di musicare quei versi immediatamente e chiese l’autorizzazione al poeta solo a partitura completata. Il compositore si era già avvicinato alla tradizione musicale ebraica del suo Paese durante gli anni della guerra – specialmente con un drammatico Trio per pianoforte, violino e violoncello – ma questa volta si trattava di qualcosa di più e di diverso: aveva creato lo sconvolgente memoriale di un fatto storico, una pagina capitale per scoprire e capire che cosa era accaduto a proposito di uno spaventoso crimine del quale, come dice il critico americano, i nazisti avevano fatto sparire le prove e i sovietici annientato perfino il ricordo.

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Il violoncellista Mstislav Rostropovič con Benjamin Britten dopo un concerto (foto RIA Novosti).

Accendere con il linguaggio della musica la luce della conoscenza su questo evento ha avuto una portata storica di inestimabile valore morale oltre che artistico. Qualcosa che secondo Jeremy Eichler riscatta pienamente anche le concessioni che il musicista non potè non fare al regime sovietico nel corso della sua vita. Questo riscatto etico, condotto attraverso una musica di superiore forza interiore, giustifica appieno l’illuminante definizione data al corpus delle quindici Sinfonie di Šostakovič dal grande musicologo americano Richard Taruskin: si tratta del diario segreto di una nazione.

 

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