Oggi, con chi parli?
«Pochi minuti di riflessione hanno messo i pro e i contro in così esatto equilibrio che come al solito mi sono visto costretto a non fare nulla» [Samuel Beckett]. La paralisi di cui parla Beckett ci riguarda, oggi, sia perché attiene agli spazi di azione, che per quanto riguarda il campo dialogico. Viviamo nel tempo dell’interlocutore mancato e di una crisi degli spazi del possibile. Non sappiamo con chi parlare o a chi scrivere, né con chi allearci per agire. Un silenzio rumoroso in una solitudine affollata finisce per comporre uno dei più impegnativi paradossi della contemporaneità. Seppur si possa ipotizzare che la principale parte del nostro tempo noi la trascorriamo a parlarci, cioè a parlare a noi stessi, a pensarci bene non siamo mai soli. Non fosse che per la naturale intersoggettività nella quale la nostra individuazione si definisce e dalla quale è impossibile prescindere.
L’imprescindibilità dell’altro e dell’altra e la constatazione che quando si parla e si scrive, si parla e si scrive sempre a qualcuna o a qualcuno, ci pone di fronte al paradosso doloroso della contemporaneità. Siamo immersi in una folla virtuale e reale sempre più ampia e siamo allo stesso tempo sempre più soli. Ad essere attaccata è la condizione esistenziale, che abbiamo visto essere imprescindibile per noi, di avere bisogno dell’altra e dell’altro per potersi riconoscere. La narrazione, il dialogo, la scrittura, che trovano senso nella risonanza e nel riconoscimento, oggi sono esperienze per molti aspetti costrette ad esprimersi nella deprivazione dell’alterità. E allora per chi e con chi si parla? Per chi e con chi si scrive? Non perché l’altro non esiste ma perché non riesce a divenire, nella maggior parte dei casi, un interlocutore capace di generare rispecchiamento e riconoscimento. Accade allora che ci blocchiamo nel momento delle nostre tentate espressioni in un numero sempre più elevato di situazioni, mentre in una parte non poco rilevante dei casi in cui non ci blocchiamo le nostre espressioni mostrano di rimbalzare come un boomerang ritornando vuote di senso e significato su noi stessi.
Delle tante cose che devo a Daniele Del Giudice due mi fanno costante compagnia. Sono contenute in due sue espressioni: un monito e una domanda. Il monito riguarda la cura da porre nel venire al linguaggio; la domanda è: “Oggi, con chi parli?!” Ovvero dove trovi un interlocutore col quale coltivare aspettative di comprensione cooperativa o conflittuale, ma comunque generativa? Dov’è insomma un circolo dei riconoscenti?
Prima di tutto al linguaggio si viene, alla parola si arriva, e se prevale un tempo in cui c’è un blocco ad arrivarci, conviene interrogarsi sulle ragioni e trarne frutto. Non è scontato il linguaggio. Mentre ci interroghiamo sulla sua crisi, in forma parlata e scritta, non trascuriamo l’abuso corrivo, superficiale, volgare, logorroico e grafomane che del linguaggio oggi prevalentemente si fa. Potremmo scoprire il valore e il vantaggio di attendere e l’inestimabile e prezioso significato del silenzio, insieme al suo valore generativo.
Dobbiamo certo riconoscere che il valore del venire al linguaggio forse non sta solo nella produzione effettiva di una narrazione, ma anche nell’attesa, nella predisposizione, in quel tempo perifrastico attivo il cui senso è nella sua esistenza in sé, nella sua durata, e in quello che produce non diventando narrazione esplicita. Quel valore trova una sua definizione forse ancora più precipua nell’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento, la profondità di un sentire. Inenarrabile, perciò, non è solo quello che per sue caratteristiche non si riesce a dire con le parole, ma anche quello che assume un potere trasformativo proprio in quanto non accede ad espressione manifesta e condivisa con altri.
Eppure anche chi non narra, anche chi non scrive, sta facendo un gesto per un altro o per altri. Sta cercando di contenere le spontanee e naturali manifestazioni della relazionalità umana e della nostra intersoggettività. Con quali esiti? Generativi o implosivi?
Andrea Zanzotto in un verso di Filò interrompe il testo dialettale improvvisamente, con un sintagma greco: Logos erchomenos, “lingua che viene”. Il poeta scrive di un narrare “sentito come veniente di là dove non è scrittura (quella che ha solo migliaia di anni) né grammatica: luogo allora di un logos che resta sempre erchomenos, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane quasi ‘infante’ nel suo dirsi”.
Esiste però un'altra sospensione come raggelamento della possibilità di dire e di scrivere. È la glaciazione della parola per il freddo relazionale e sentimentale nel contesto che dovrebbe accoglierla.
Non stiamo parlando di quello che non si può dire; di quello che non si riesce a dire; di quello che, dicendolo, produrrebbe solo rumore; di quello che, a dirlo, crea significati meno efficaci del silenzio; di quello che se si dicesse fisserebbe il significato paralizzandolo o saturerebbe il vuoto e la mancanza necessari all’evolversi dei significati; di quello che “ogni bel tacer non fu mai scritto”; di quello che è comunicato dal silenzio generando una profonda ricchezza di significato; di quello che se narrato finirebbe per impedire l’altrui narrazione.
No. Stiamo parlando – ed è paradossale scriverlo mentre sto sostenendo che non si può più parlare e scrivere – di quello che si potrebbe dire ma non viene detto per assenza di aspettative che sia ascoltato; di quello che si riuscirebbe a dire ma non vale la pena dirlo perché non lo ascolterebbe nessuno; di quello che scrivendolo o dicendolo aumenterebbe solo un’assordante ridondanza; di quello che scrivendolo non romperebbe il silenzio; di quello che esprimendolo aumenterebbe solo la saturazione. Accade allora che il sentimento rimanga non nato.
Viene un tempo della solitudine, un deserto che bisogna attraversare come condizione per rendere pensabile un tempo a venire che non si sa se verrà.
Michel Foucault, con la densità del suo rigore, dichiarò in una delle sue ultime interviste: “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” [M. Foucault, Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984]. Tra democrazia, totalitarismo e servitù, quindi, si pone la questione della verità, della tensione verso la verità, del senso della verità. Così come è nel dubbio e nella possibilità di non dire o dire di no che ci individuiamo e troviamo la nostra distinzione di specie. Il “potere di non” sta probabilmente alla base della libertà e della democrazia e fonda il dialogo che di quelle due esperienze è il principale fattore costitutivo.
Quando siamo diventati capaci di concepire l’oltre e di riconoscerne l’importanza? È verosimile ritenere che ciò sia accaduto con l’inizio della capacità di contenere il silenzio riflessivo, di iniziare a parlarsi nel senso di parlare a sé stessi, da cui l’evolversi del pensiero simbolico e della cooperazione e condivisione comunitaria. Il ruolo del pluralismo e della molteplicità condivisa, a partire dalla riflessione sulla molteplicità interiore, così come le funzioni svolte dalla comunicazione cooperativa, sembrano essere stati particolarmente rilevanti per tendere ad andare oltre i comportamenti individuali immediati e pratici e la semplice imitazione della consuetudine. Andare oltre vuol dire andare verso qualcuno o qualcosa che qualcuno riconoscerà. Del resto “oltre” è sia un avverbio di luogo che di tempo e rimanda, pertanto, al tempo e allo spazio. Andare oltre, perciò, indica sia la disposizione a porre al centro il futuro e non solo il presente, sia la possibilità di creare spazi di possibilità rispetto all’esistente: in entrambi i casi la capacità di contenersi e contenere è fonte del possibile.
Appare evidente come non vi sia possibilità di relazione se non come approssimazione, in quanto non c’è “logos” senza “dia”: (intersoggettività) dia-logo; e non c’è immagine senza azione (azione): immagin-azione. Ridursi e ridurre al silenzio è il contrario di far lavorare in noi la parola grazie alla risonanza dell’altro.
Oggi sappiamo che “autos” e “eteros” si diventa mediante l’essere intersoggettivi; anzi è perché si è intersoggettivi che si può divenire soggettivi; che l’intersoggettività precede e genera la soggettività possibile. A condizione che la parola dicibile lavori in noi prima di essere detta o senza che sarà mai detta. Il dialogo diviene il crogiolo in cui le resistenze soggettive indaffarate provano a rinunciare ai propri arroccamenti e grazie ai tentativi in termini di una prassi di “meno io” cercano di conquistare una “zona incontro” frutto di un ritiro identitario in grado di divenire altro, non sopprimendo le differenze, ma avanzando verso una ridefinizione che utilizzi l’intersoggettività e la relazione per accedere a una seppur parziale metamorfosi che porti entrambi, non solo a trasferire qualcosa di sé nell’altro, ma a divenire altro.
Ciò che rende tale ogni dialogo, – e quello del discorso amoroso, politico e terapeutico in particolare –, capace di sostenere l’evoluzione è la “zona incontro”, in cui l’opportunità effettiva è quella di divenire altro nell’essere ciò che si è, nel trasformare sé stessi grazie alla composizione e ricomposizione del dialogo e dell’inenarrabile. Condizione essenziale è l’altro con cui parlare, proprio quello che oggi ci manca. Non parlare ad un altro e non creare un campo dialogico vuol dire assistere a una metamorfosi dell’umano.