Agave
«I giardini municipali erano d’un gusto convenzionale e chiassoso, da cartolina patinata a colori: i mosaici di sassifraghe sui prati verdi, i lontani ventagli delle palme, le roccaglie irte d’agavi color caimano. Una volta nella loro vita centenaria, le agavi divaricano le loro foglie carnose e la sovrabbondanza dei loro umori spinge al cielo un fiore dal gambo lunghissimo ed esile.
Sarebbe venuta anche per Vanda la svolta di cedere ai fremiti che le tendevano la pelle liscia, inquietavano di piccoli morsi i suoi baci.».
È l’incipit di Flirt prima di battersi (Einaudi 2020), il racconto a lungo rimasto inedito di un giovane Italo Calvino che, per la prima e unica volta, si lascia andare a un’immagine botanica di trasparente allusione erotica. Vivaddio, a ventitré anni – probabile che la data di stesura sia il 1946 – non tutti i dispositivi di controllo e distanziamento (se non di pruderie), che fanno della prosa calviniana un impeccabile, igienico, esercizio di stile, sono attivi.
Le agavi che accendono la fantasia erotica di Calvino sono messicane d’origine; probabile siano esemplari di Agave americana L. o di Agave salmiana, le due specie più diffuse e da tempo naturalizzate in Liguria, arrivate in Europa nel XVI secolo come piante ornamentali. Certo, suona improprio l’aggettivo «esile» per uno scapo florale che s’innalza dritto e robusto per alcuni metri (5-10) e dal diametro di 5-10 centimetri. Calvino non deve aver sottoposto lo scritto al vaglio della madre botanica e del padre agronomo, entrambi scienziati di fama internazionale, ma tant’è.
Comunque, gli ottocenteschi giardini Hambury sul pendio del promontorio della Mortola, a un passo dal confine francese e vicini alla Sanremo calviniana, ospitano una notevole collezione di queste succulente appartenenti alla famiglia Asparagaceae (eh, sì, il fiore, nella fase iniziale del suo ergersi, ricorda un grosso asparago) che rendono interessante la visita anche nei mesi invernali.
Il nome Agave (“magnifica” in greco) evoca l’omonima figura mitologica della figlia di Cadmo e Armonia, dedita al culto di Dioniso che farà di Agave lo strumento di una terribile vendetta. In preda alla furia bacchica, Agave scambia con un leone il figlio Penteo, nuovo re di Tebe che non riconosce la natura divina di Dioniso proibendo in città i suoi rituali sfrenati, e lo smembra con l’aiuto delle compagne. Riacquistata lucidità e in preda alla disperazione, Agave è condannata a vagare in terre lontane. La vicenda è al centro delle Baccanti di Euripide e rientra nel ciclo tebano che ha in Edipo, anch’egli rampollo del ramo genealogico di Agave, il campione di un destino tragico e beffardo: la cecità della mente conduce all’incesto, alla cecità del corpo e all’esilio.
Insomma, il nome di derivazione mitologica di queste piante carnose e straripanti pare appropriato se son riuscite a suscitare persino in Calvino un’eccitata immaginazione.
Esistono circa trecento specie di agavi, tutte provenienti dalle regioni desertiche americane dove, presso le comunità indigene, per secolare tradizione, erano importanti nella medicina popolare (per le proprietà diuretiche, lassative, antiinfiammatorie) e ancor oggi entrano in preparazioni farmaceutiche. Alcune varietà erano e sono coltivate per diversi fini: liquori e bevande (tequila, pulque, mezcal), fibre tessili per corde e stuoie, estratti per saponi vegetali. Lo sciroppo d’agave è poi usato in cucina come dolcificante naturale.
Oltre alle già nominate, tra le più note troviamo l’Agave ferox, dalle spine marginali più aggressive, la piccola e tondeggiante Agave Victoriae-Reginae, bella in vaso come decoro d’ambiente, e l’Agave filifera anch’essa di dimensioni ridotte e compatte con foglie orlate di filamenti bianchi.
Ma osserviamo un po’ da vicino l’Agave americana: dotata di un grosso e tenace rizoma che la àncora a rocce e a terreni ripidi, forma una rosetta, alta dai due ai quattro metri, di foglie basali sempreverdi, rigide e spesse, lanceolate e ricurve, lunghe un paio di metri e larghe almeno una spanna, glauche o verdi, striate di crema o di bianco, con spine di un centimetro lungo il margine e una apicale più accentuata. Mi incanta l’impronta che, come un ricamo, rimane impressa sulla foglia appena svolta dal cuore tenero del cespo.
L’infiorescenza termina in una pannocchia ramificata in branche orizzontali, ombrellate, dai fiori giallo-verdi, tubolari e peduncolati. È pianta resistente e longeva, grazie alla sua adattabilità a suoli d’ogni genere, difficili e aspri; è essenza monocarpica, fiorisce cioè una sola volta e poi muore, non dopo aver generato nuovi germogli basali o bulbilli lungo il fusto florale, ma si propaga con facilità anche per seme.
Alcune sue caratteristiche sono state immortalate anche nell’osso montaliano della sezione Meriggi e ombre. Impresso nella memoria di molti scolari, richiamo giusto i versi finali in cui il poeta s’identifica nell’agave colta nel suo più estremo esercizio acrobatico da esperta rocciatrice vegetale:
oh alide ali dell’aria
ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie bocche e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
Tuttavia, non tutti la amano. Ippolito Pizzetti la accomuna alla Yucca e all’Aucuba per la deplorevole e «soverchiante presenza nel giardino mediterraneo» e, lungi per altro da ubbie anti-esotiche, stigmatizza la sua espansione lungo le nostre coste, responsabile della «deformazione del paesaggio». Garcia Lorca la vede come un «polipo pietrificato» che mette «cinghie di cenere/ al ventre dei monti» (da Poema del cante jondo), mentre in una drammatica poesia di Primo Levi (Agave, da Ad ora incerta) è la pianta stessa a presentarsi come inutile e brutta.
Non sono utile né bella,
non ho colori lieti né profumi;
le mie radici rodono il cemento,
e le mie foglie, marginate di spine,
mi fanno guardia, acute come spade.
Sono muta. Parlo solo il mio linguaggio di pianta,
difficile a capire per te uomo.
È un linguaggio desueto,
esotico, poiché vengo di lontano,
da un paese crudele
pieno di vento, veleni e vulcani.
Ho aspettato molti anni prima di esprimere
questo mio fiore altissimo e disperato,
brutto, legnoso, rigido, ma teso al cielo.
È il nostro modo di gridare che
morrò domani. Mi hai capito adesso?
Sorprende l’inadeguatezza di questo esordio, e valga a contestarlo quanto detto sopra sui molti pregi dell’agave. Ma, forse, l’intento di Levi era proprio di rigettare l’idea antropocentrica che siano deprecabili le piante considerate non redditizie. È tempo di considerare tutto il mondo vegetale come attore primo e fondamentale per la sopravvivenza della specie umana.