Le conseguenze geoeconomiche della guerra / La globalizzazione è finita?
Due specialisti di logistica mondiale, Sergio Bologna, presidente di AIOM, Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi di Trieste, e Giovanna Visco, blogger di Mari, Terre, Merci, intervistati da Paolo Perulli.
1. La globalizzazione è davvero finita? Il governatore della Banca d'Italia parla di pericolo che ci sia un «brusco rallentamento o un vero e proprio arretramento dell’apertura dell’interdipendenza della globalizzazione». La fine insomma del mondo così come si era andato configurando dalla fine della Guerra Fredda in poi. Con il rischio di tornare a una dimensione più regionalizzata, con minori movimenti di «persone, merci, capitali e investimenti produttivi più bassi». Ora «i progressi dell’ultimo decennio non potranno che rallentare». Condividete quest’ analisi che è propria delle élites tecnocratiche? O ritenete piuttosto che sia necessaria una profonda revisione delle modalità con cui la globalizzazione si è affermata in passato?
Sergio Bologna: Probabilmente è il concetto di globalizzazione che non basta più a contenere la complessità dei fenomeni in atto. Che cosa vuol dire? Che la circolazione delle merci e delle persone non ha più barriere? Dalla fine della guerra fredda la situazione è sempre stata così. Vuol dire che i sistemi produttivi si sono articolati su dimensioni planetarie? Quindi il re-shoring sarebbe il regresso della globalizzazione? Mi sembra un po’ curioso. Il re-shoring o il back shoring sono del tutto compatibili con l’esistenza e lo sviluppo della globalizzazione. Vuol dire che abitudini, stili di vita, di consumo, forme di comunicazione sono comuni a tutto il mondo? Con la diffusione di Internet e della telefonia mobile, dei social e dei whatsapp, ormai tutto il mondo comunica allo stesso modo ma non significa affatto che gli stili di consumo siano simili. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che la globalizzazione può convivere con fenomeni di ri-regionalizzazione, di neo-autarchie, e con tutta una serie di cose che noi non abbiamo ancora sperimentato (es. l’isolamento d’intere zone del pianeta dai collegamenti Internet) ma che sono ipotizzabili.
In questo senso io vedo la globalizzazione continuare il suo cammino ma questo cammino diventare sempre più accidentato. Io vedo le global supply chain, per esempio, diventare sempre più complesse e sofisticate ma al tempo stesso sempre più costellate da disruption, che possono diventare anche catastrofiche. E i cambiamenti climatici dove li mettiamo? Sono inimmaginabili ma siamo certi che si verificheranno e faranno del cammino dell’umanità – non solo della globalizzazione – un cammino sempre più impervio.
La mentalità da rasunàtt (con tutto il rispetto per i diplomati in ragioneria) dei nostri banchieri impedisce loro di avere una visione del futuro, continuano a trastullarsi coi punti di PIL quando siamo entrati in un’altra èra epistemologica.
Giovanna Visco: Credo che la popolosità e la gioventù di Asia, Sud America e Africa siano il principale motore della globalizzazione. È evidente che solo una larga interconnessione, o se si preferisce uno spiccato multipolarismo in termini di economia reale, può ammortizzare le tragedie prodotte dal cambiamento climatico, fare massa critica per combattere l’inquinamento di origine antropica e allo stesso tempo sperimentare nuovi sistemi che distribuiscano più equamente la ricchezza. Certo il modello non potrà essere quello spinto finora dall’Occidente, malato culturalmente e fattualmente di colonialismo, che ha prodotto un meccanismo di povertà inarrestabile. Nel mondo stanno spuntando soprattutto in Asia, ma anche in Africa, percorsi alternativi. Con il conflitto ucraino alcuni di questi stanno accelerando, il cui elemento di spicco è un processo di de-dollarizzazione.
Anche lo stesso concetto di rallentamento probabilmente sarà soggetto a cambiamento. Sono evidenti i limiti di considerazioni basate sul PIL, che non tengono conto della distribuzione reale della ricchezza prodotta e del livello di felicità delle popolazioni, che crescono così come cresce il divario della concentrazione squilibratissima della ricchezza.
In altri termini, il processo di revisione della globalizzazione si è già avviato, con conseguenze ancora difficilmente prevedibili, soprattutto per le risposte di reazione angloamericana e occidentale, dei grandi detentori di capitali che intanto si sono generati, e dei gruppi imprenditoriali apolidi, strettamente connessi agli investimenti dei fondi privati e istituzionali.
2. Come cambiano i flussi delle merci, a causa della guerra e della pressione sui porti, della interruzione delle catene globali, etc.?
Sergio Bologna: Qui i problemi cominciano a diventare molto complessi e la realtà sempre più opaca, perché man mano che il regolare flusso delle merci viene per qualche ragione interrotto, si costituisce un flusso alternativo, magari ridotto di volumi, che segue altri percorsi. Prendiamo il caso delle sanzioni. Come vengono decise c’è subito qualcuno che comincia a pensare come aggirarle e in genere nove volte su dieci ci riesce. Però questi nuovi percorsi sfuggono alla lente degli osservatori, non dico che diventano clandestini ma certamente meno trasparenti. Il sistema ha grandi capacità di adattamento. Prendiamo il caso della pandemia. Eccetto i primi mesi dove tutti erano sotto choc, poi la produzione ha ripreso, anzi con maggior vigore. La congestione dei porti, che sta creando seri problemi alla filiera del container, è stata una diretta conseguenza della pandemia, ma dopo tanti mesi non riesce ad aggiustarsi. Questo mostra che, quando diciamo problemi, diciamo qualcosa di molto serio, la cui soluzione in termini organizzativi e tecnologici non è ancora in vista.
Quindi, è vero, siamo arrivati a situazioni che non si erano mai verificate e non riusciamo a immaginare come potranno ulteriormente complicarsi. E’ giusto quindi chiedersi se il mondo cambierà rapidamente. Questa guerra in Ucraina, al punto in cui si trova nel momento in cui si scrivono queste note, un mese o poco più dopo l’intervento, avrà delle conseguenze catastrofiche. Penso per esempio alla crisi alimentare d’interi continenti. Anche questo è compatibile con la globalizzazione, i cui destini però – se proseguirà o si arresterà – ormai rappresentano, a mio avviso, un problema non rilevante.
Giovanna Visco: Più che a causa della guerra, gli effetti peggiori sono i boomerang prodotti dalle sanzioni decise in ambito angloamericano attraverso l’alleanza Nato, che cadono sui sistemi di produzione e di consumo a livello mondiale. Federazione Russa in primo luogo e Ucraina generano importanti volumi di traffico internazionale di approvvigionamento strategico. A mio modesto avviso, il persistere delle condizioni attuali più che cambiare, soprattutto assottiglieranno sempre più i flussi di molte materie prime fondamentali. Questo perché il reperimento immediato, regolare e abbondante di risorse da altri luoghi alternativi richiede processi lunghi in termini di anni e anche costosi, a cui si aggiungono le volatilità speculative del mercato finanziario, molto connesso alle materie prime, che ne condiziona anche la disponibilità sul mercato.
L’effetto dell’assottigliamento delle quantità disponibili di materie prime non può che tradursi in meno volumi di merce in circolazione; rialzo dei prezzi al consumo; aumento della disoccupazione per la chiusura di molte attività di trasformazione. Soprattutto in Europa il cui sistema di produzione e di consumo dipende dalle risorse esterne, con aumento della povertà in un contesto che da tempo disattiva costantemente gli anticorpi delle tutele sociali come sanità, edilizia popolare e istruzione. Tradotto in termini marittimi, tale situazione porta alla discesa dei noli, a meno che molte navi non vadano in disarmo, ipotesi che potrebbe spiegare la corsa di accaparramento che tuttora continua delle unità commerciali sul mercato da parte dei grandi gruppi, che intanto con la pandemia hanno accumulato guadagni esorbitanti. Avere il controllo della capacità di stiva mondiale è la condizione sine qua non per impedire la discesa dei noli e accaparrarsi i viaggi.
Se la pesante guerra geoeconomica angloamericana proseguirà, come ci si può aspettare, e l’Europa non intraprende velocemente una politica estera autonoma e indipendente a favore dei propri interessi territoriali, per i porti si apre una lunga stagione di imprevedibilità dei traffici, con movimentazioni irregolari, diradate e congestionate, che innanzitutto si ripercuotono negativamente su tutti i servizi portuali, che hanno bisogno di traffico per mantenersi, e che potrebbe degradare in una precarizzazione competitiva pericolosa per l’intero sistema economico. Un punto a favore è che un tale processo non si manifesta dall’oggi al domani in tutta la sua interezza, ma gradualmente. I primi segnali già ci sono, si tratta di elaborare risposte di sistema evolute. Questa prospettiva in Italia dovrebbe far comprendere quanto sia pericolosa la via della liberalizzazione e privatizzazione dei porti, spinta da alcuni centri di interesse. I porti non sono omologabili a una fabbrica o a un vettore. Essi sono un bene comune di fortissimo impatto diretto e indiretto sullo sviluppo dei territori, sul progresso culturale e civile, sulla salute economica del paese. Per questo hanno necessità di governance pubblica specifica e competente che metta a sistema l’interesse generale, l’interesse privato e le richieste del territorio.
3. Come si combinano geoeconomia e geopolitica, aspetti di integrazione dei mercati e delle merci e aspetti di potenza e di dominio politico (ieri da parte degli USA, oggi da parte della Russia, domani della Cina)?
Sergio Bologna: Penso che siano sempre stati strettamente collegati. Quello che accade oggi però è una loro completa dislocazione, riconfigurazione. Ed è qui che siamo carenti, è qui che non riusciamo a liberarci dall’ottusità eurocentrica. Bisogna sforzarsi di pensare il mondo da un’altra prospettiva. L’uomo occidentale oggi si trova nell’identica situazione in cui si trovava la cultura tolemaica prima della rivoluzione copernicana. L’uomo occidentale è tornato a vedere la terra piatta. Non si rende conto che si profila sempre più un continente politico, una plurinazione, formati dall’agglomerato demografico e geofisico composto da Russia, Cina e India. Il mondo va visto stando dentro questo agglomerato. Putin, a mio avviso ragiona come cittadino di questa supernazione e quindi non ha nulla a che fare con la tradizione di Pietro il Grande, non è per nulla condizionato da quei fattori d’ordine simbolico e culturale che noi continuiamo a evocare (es. la Russia nasce a Kiev) rispolverando in occasione della guerra i nostri miseri bigini di storia.
Giovanna Visco: Purtroppo spesso in Occidente si perseguono ragionamenti e logiche interpretative non empatiche, che limitano se non impediscono la conoscenza e la comprensione del resto del mondo. L’incapacità di accogliere vedute differenti dalle proprie sta generando una sorta di autodistruzione occidentale. A mio modesto avviso, la globalizzazione sarà sempre meno omologazione culturale, sempre meno consumistica anche per i danni ambientali spaventosi che ha prodotto, ma sarà dominata dallo sviluppo tecnologico applicato alle produzioni, avrà forma di accordi multilaterali di scambio e guarderà geopoliticamente al multipolarismo.
Occorre uscire dalla logica del dominio ed entrare in quella della collaborazione e della cooperazione, accettando la realtà che su questo pianeta la vita di ogni essere così come di ogni paese dipende, in relazione reciproca, dalla vita degli altri.
In questo senso andrebbe rivisitata la considerazione occidentale della Bri cinese, sdoganandola da interpretazioni geopolitiche molto angloamericane, inserendola in un panorama di opportunità infrastrutturale enorme, che deve essere governata con principi di reciprocità paritaria, depurandola dall’aut aut tutto occidentale, o la subisci o la respingi. Anche gli accordi come il Rcep in Asia o AfCTA in Africa sono iniziative estremamente interessanti, che segnano un profondo cambiamento sociale ed economico rispetto ai modelli occidentali, pur prendendone spunto.
Ma il cambiamento epocale a cui stiamo assistendo, e che sta condizionando pesantemente lo stesso conflitto russo-ucraino, è il processo di de-dollarizzazione che si sta affacciando tra i paesi economicamente più promettenti per i prossimi anni e decenni. L’India sta lavorando alla creazione di un meccanismo di commercio rupia-rubli, che prende lo yuan come moneta di riferimento, a seguito delle sanzioni e la messa al bando dal sistema interbancario internazionale SWIFT di diverse banche russe, compromettendo le transazioni commerciali. Putin ha richiesto ai paesi occidentali ostili il pagamento in rubli delle forniture energetiche.
L’Iran, nonostante le gravissime sanzioni che pesano sul paese, ha sviluppato una economia autonoma e poco fa si è dichiarato pronto a commerciare in rubli con la Federazione Russa, dando ulteriore sviluppo ad accordi già esistenti che prevedono l’interscambio commerciale nelle valute dei due paesi. La Cina sul fronte interno sta dando una forte stretta all’espansionismo dei grandi gruppi di capitale privato, guardando invece allo sviluppo della media e piccola impresa.
Con gli occhiali occidentali tutto questo non è altro che sintomo di regionalizzazione, ma in realtà sono mutazioni profonde della globalizzazione, il cui esito dipenderà anche da come l’Occidente si rapporterà.
4. Vi è in questa crisi un dualismo tra razionalità tecnica e caos, tra le pretese a un mondo perfettamente digitalizzato dalle piattaforme e gli effetti dirompenti degli stessi processi di integrazione?
Sergio Bologna: Sicuramente, anzi direi di più, parlerei di discrasia, di totale scollegamento o di totale integrazione, di processo d’identificazione tra razionalità tecnica e caos, tra logica finanziaria e caos, tra retorica umanitaria e massacro, c’è una totale confusione di valori, un totale stravolgimento di valori, a cominciare dal concetto di “verità”. C’è una guerra materiale che si combatte sul terreno e una guerra virtuale della comunicazione che si combatte sul web che non hanno alcun rapporto tra loro.
Però ci sono alcuni fatti – di cui nessuno parla – apparentemente di poca rilevanza ma inoppugnabili. La trasformazione della politica tedesca, per esempio. Per chi continua ad avere una visione eurocentrica mi pare di una certa rilevanza, o no?
Dopo la decisione del nuovo governo tedesco – coalizione SPD-Verdi – di passare a una nuova fase di riarmo, sotto la scusa di “aggiornare” i sistemi d’arma, di fare un up-to-date della dotazione militare, un partito come quello dei Grünen ha ancora ragione di esistere? Inoltre, è da un bel po’ di tempo che continuo a ripetere che l’ascesa di un personaggio come Friedrich Merz alla testa della CDU sarebbe un salto indietro della Germania, la riporterebbe all’era Adenauer. Bene, il peggio è avvenuto, oggi Merz, l’anti-Merkel per definizione, già responsabile per la Germania di Blackrock, membro di un think thank denominato “ponte atlantico” (nomen est omen) è a capo della CDU con il 95% dei voti. Probabilmente il gruppo politico più vicino a lui in Europa è il PD di Enrico Letta, rivelatosi in questa circostanza il vero partito della lobby industrial-militare. Una doppia sciagura quella italo-tedesca. Certo, rispetto alla prospettiva di una catastrofe alimentare come quella cui accennavo, sono quisquilie, ma non le prenderei sottogamba.
Giovanna Visco: È dal caos che sorgono nuovi dispositivi di sopravvivenza. L’atto creativo è connaturato e indispensabile alla sopravvivenza dello stesso pianeta. Dunque il positivismo tecnologico andrebbe perimetrato nella sua funzione di mero strumento, valutandone le opportunità di utilizzo o meno in base alle esigenze umane, sia etiche che materiali. Il tecnicismo proliferato dalla visione a compartimenti stagni funzionale ad assolvere alle esigenze di concentrazione del profitto, contiene semi di inumanità pericolosissimi, e milioni di persone in tutto il mondo ne hanno fatto già le spese, con chiusure e licenziamenti repentini e improvvisi per opportunità di bilancio. La tecnica non è la verità, ma una capacità storica dell’essere umano, che ne aumenta le possibilità, e andrebbe sempre calibrata con le conseguenze che produce.
Per quanto riguarda la regina contemporanea della tecnica, la digitalizzazione, oltre ai suoi limiti intrinsechi dettati soprattutto dal cambiamento climatico che rende molti eventi improgrammabili, pone un interrogativo molto inquietante. Per la prima volta nella storia della umanità essa produce una perfetta coincidenza con la società civile, portando a una sovrapposizione perfetta dello Stato sull’interezza della sua popolazione, con gravi lacerazioni nel diritto e nel suo rapporto con la libertà individuale. In altre parole, la deriva autoritaria con il controllo centralizzato di tutte le manifestazioni della vita sociale umana e di quelle culturali imponendo un pensiero unico, come già vediamo in questo periodo, è dietro l’angolo.
Questo suggerisce la necessità di limitare il business miliardario della informatizzazione e della digitalizzazione, deprivandole delle pretese politiche di governo delle cose umane. Limitarne l’applicazione solo laddove necessario e attrezzarla con molti dispositivi di sicurezza, non solo contro gli hacker, ma anche dell’intelligenza umana, dovrebbero diventare istanza e obiettivo prioritari. Mi ha colpito l’ondata di censura che ha distrutto per sempre materiali e testimonianze affidate alla rete. Se questi fossero stati riprodotti anche in dvd, libri, articoli su carta e diari scritti questa censura insopportabile che ha causato perdita secca di cultura umana, sarebbe stata impossibile. Credo che il virtuale andrebbe ridimensionato con la riconquista urgente dei luoghi fisici di aggregazione politica, culturale e sociale. Politica deriva dal greco Polis, un luogo dove la parola che dà vita alle idee è cruciale, dove le persone discutono liberamente sul bene comune della città, cioè di tutti, e decidono democraticamente, cioè senza guerre, sul da farsi. Bisognerebbe che in Occidente il concetto venisse ripassato.