Una mostra a Palazzo Barberini / Il potere delle immagini
Dopo mesi di chiusura e una breve riapertura il museo è di nuovo sbarrato. Zona rossa. Durante la visita a Palazzo Barberini, qualche settimana fa, in una delle rare intermissioni normali in un anno per nulla normale, penso al convalescente, l’uomo della folla di cui parlano Poe e Baudelaire, che torna a uscire dopo la malattia rimanendo abbagliato di fronte allo spettacolo della vita nelle strade. Tutto gli sembra nuovo, tutto lo impressiona. Aggirarsi in un museo, mascherina e “distanziamento”, certo, ma poter insomma finalmente guardare, e insieme ad altri. Guariti. Guariti. Ma poi, una ricaduta. L’ironia è cruda: scrivo de L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano (a cura di Michele Di Monte, Gallerie Nazionali di Arte Antica, fino al 5 aprile), una mostra che appunto interroga lo sguardo dello spettatore come componente insieme interna ed esterna delle immagini dipinte, mentre questo medesimo sguardo è di fatto annullato, ridotto alla misura delle riproduzioni, insomma senza un’esperienza da condividere o con un’esperienza solo vissuta a memoria e suggerita a parole.
Il tema della mostra è dichiarato ne Il Mondo Novo (1765) di Giandomenico Tiepolo, la piccola tela che ne apre, o chiude, il percorso. In prestito dal Prado, è un quadro a prima vista tipico del gusto di Giandomenico per l’osservazione piccante del quotidiano: in un campo veneziano una folla di spettatori, alcuni in tabarro e tricorno, altri mascherati, si assiepa per assistere a un’attrazione. Ma è proprio quel pubblico visto di schiena, e non lo spettacolo, invisibile, il soggetto del quadro, l’agente che mette in moto la macchina dell’illusione. Il dipinto rimanda insomma allo spazio posto al di qua della sua superficie, mette in crisi la sua apparente trasparenza. “Lo spettatore è già sempre all’opera, perché è già nell’opera” dice giustamente la didascalia.
Ecco dunque riuniti gli attori di un circuito da cui scaturisce quella speciale forma di esperienza che chiamiamo il mondo dell’arte o “arte” tout-court. Lo spiega bene Wolfgang Kemp nel bello ed esauriente catalogo (Campisano Editore, gli altri saggi sono del curatore, Giovanni Careri, Claudia Cieri Via, Sebastian Schütze). Da un lato l’artista e l’opera, dall’altro lo spettatore e il contesto in cui opera e osservatore stesso sono riuniti. Un rapporto che non si forma solo nel momento dell’osservazione diretta nell’ambiente reale, ma preesiste, è un “orizzonte di attesa” che orienta implicitamente percezioni e pensieri: istituzione artistica e spettatore “sono ‘previsti’, anticipati nell’opera”, e quest’ultima non esercirebbe il suo potere senza l’attiva collaborazione, la capacità di anticipazione e proiezione del secondo.
Il punto cruciale, come argomenta con finezza Michele Di Monte nel suo testo, è che noi effettivamente vediamo nelle immagini mimetiche – basate cioè su una somiglianza iconica col mondo visibile – più e diversamente di quel che vi è raffigurato. La percezione di un dipinto è sempre basata insomma su un processo di selezione, integrazione e proiezione, su una interazione profonda tra la facoltà visiva, la coscienza e la dimensione inconscia, in cui si fondono dati sinestetici, adesione affettiva, memoria individuale e messa a fuoco morale.
Sono temi che risuonano nella teoria estetica, nella storia dell’arte (Gombrich, Belting, Bredekamp, Stoichita, ne sono stati tra gli interpreti più efficaci) e nella pratica dell’arte novecentesca, almeno da quando Pablo Picasso e soprattutto Marcel Duchamp, con i suoi ready-made, ne hanno fatto un nodo imprescindibile di ogni creazione artistica moderna. È precisamente questa interrogazione insieme storica e teorica del dispositivo pittorico – che illumina a ritroso l’intera concezione della mimesis nella tradizione occidentale – il punto focale di questa mostra rara e coraggiosa: mostrare attraverso una serie di esempi storici eloquenti (venticinque le opere selezionate) come la consapevolezza della connessione attiva artista-opera-contesto-spettatore sia inscindibile dalla storia degli stili e delle personalità artistiche e come sia impossibile separare il “fare” dal “pensare” l’arte, con tutte le cautele, le complicazioni e le ambiguità che tale disposizione comporta.
Siamo di fronte alla indubbia vedette della mostra: la Ragazza in una cornice (1641, l'immagine è in fondo alla pagina) di Rembrandt. La posa è frontale, assente ogni indicazione di movimento: le mani della fanciulla posano sulla cornice nera in basso, lo sguardo è diretto, franco. Una serie di sottili artifici dinamici anima però la figura, anzitutto le mani, che “sporgono” illusionisticamente nello spazio in cui ci troviamo. Sono stratagemmi che amplificano la suggestione dell’immagine, l’effetto di reale di cui ha parlato Roland Barthes, e al tempo stesso amplificano il paradosso di un’effige posta al confine tra materia e vita, tra presenza e assenza.
Un discorso analogo si può fare per il sorprendente Davanti al cavalletto (1645 ca.) del fiammingo Jacob van Oost, in cui il taglio ravvicinato dell’inquadratura, l’asimmmetria e l’immediatezza del soggetto ricordano qualità tipiche della fotografia. La figura in primo piano (forse un giovane apprendista) appare sorpresa, a disagio sotto lo sguardo indiscreto dello “spettatore implicito” che si avvicina al quadro, visualizzato così come agente essenziale della dinamica interna dell’immagine oltre che suo destinatario.
La relazione tra rappresentazione e osservatore è articolata ancor più sottilmente nella magistrale Maddalena (1533 ca.) di Giovanni Girolamo Savoldo, in mostra nella versione dagli Uffizi, una delle quattro oggi note. La figura femminile – individuata dal solo vasetto di unguenti che costituisce l’emblema della santa – si volge verso chi guarda, sullo sfondo di un cielo che si illumina e trascolora all’alba; una seconda fonte di luce illumina la stoffa del suo manto, animandolo di riflessi cangianti. È la luce che emana dal corpo del Cristo appena risorto che Maddalena non ha ancora riconosciuto e che rimane invisibile, esterno alla scena che pure colma dell’elemento più direttamente connesso nella tradizione cristiana alla simbologia della Grazia. Allo spettatore è offerta così la possibilità di assistere al miracolo nella forma di un’esperienza vissuta interamente coi sensi e nella posizione straordinaria e privilegiata del testimone-credente.
Crucialmente, “guardare” non può essere separato da volere e desiderare. La messa in scena della seduzione erotica è il tema in effetti di molti dei quadri esposti: in forme complici e raffinate, come nel caso della trasparente favola mitologica e cortigiana Marte e Amore (1633-34) di Guercino. Il soggetto è un’invenzione originale: Venere è sorpresa da Marte in elmo e corazza nell’intimità della sua alcova mentre gioca nuda con Cupido. La ragione dell’agitazione dell’amante geloso sta tutta nei gesti degli altri due personaggi: Venere indica col dito e lo sguardo lo spettatore che implicitamente assiste alla scena, mentre Cupido lo fissa maliziosamente mentre prende la mira prima di scoccare il suo dardo. Il tema del dipinto è dunque quello classico e barocco dell’irresistibile sguardo d’amore, metaforizzato nella freccia che sta per colpire al cuore lo spettatore, punto focale e destinatario di tutta la scena. Il fatto che il committente e primo destinatario del quadro fosse il duca Francesco I d’Este aggiunge una patina di licenziosità mondana alla scena.
Più scoperto e più conturbante è il gioco della seduzione nel Nudo femminile di schiena (1735-40) di Pierre Subleyras, in cui il soggetto è privato dei consueti travestimenti mitologici attraverso i quali si era secolarmente veicolato in pittura il corpo muliebre, oggetto di fascinazione estetica almeno quanto di attrazione erotica da parte dello spettatore-voyeur. La donna appare spogliata non in senso letterale ma soprattutto perché dal suo corpo sono ormai caduti gli appigli, i riferimenti, le giustificazioni letterarie che ne avevano resa accettabile la presenza in quanto significante disponibile a ogni trattamento allegorico. Di più, qui la figura ha il volto nascosto ed espone allo sguardo indiscreto di chi la osserva letteralmente solo il tuo retro, il suo rovescio. Il nudo di Subleyras è il verso di un recto che resta invisibile, ed è per questo del tutto privo di ammiccamenti e malizia. Al contrario, impone allo spettatore il ruolo del testimone indiscreto e del voyeur di fronte al corpo di una donna che resiste alla sua trasformazione in odalisca.
Questa metamorfosi, che sarà riproposta ancor più radicalmente un secolo più tardi da Courbet e Manet, non smette di interrogarci, specialmente nel clima di sospetto, di facile indignazione e di soffocante moralismo nei confronti delle immagini che pervade il nostro presente. In che modo guardiamo? In cosa la rappresentazione si differenzia dalla realtà? Qual è la sua legittimità, il suo margine di libertà? Cosa può fare un’immagine? Le risposte, suggerisce L’ora dello spettatore, vanno cercate proprio nelle opere d’arte. Il museo è chiuso, viva il museo.
Una versione più breve di questo articolo è uscita il 28 marzo su “il manifesto” – “Alias”