Fritillaria meleagris
Non invidio molto agli inglesi. Ma per un prato di fritillarie (Fritillaria meleagris) sarei disposta a vendere l’anima. La prima volta fu lungo la ripa di un fosso del Magdalene College di Oxford: me ne innamorai perdutamente. Poi, quasi svenni alla primaverile visione degli ampi campi di Kew Gardens punteggiati di vinaccia. Dev’essere il mio gusto floreale, il quid di campestre che ancora alberga in me a farmi illanguidire di fronte a questa umile liliacea così rara da noi (la si trova solo nelle Alpi occidentali) e così generosa con Albione da parere comune e persino trascurabile agli occhi dei suoi abitanti.
Le fritillarie – badate bene: le meleagris e non le imperialis, varietà sontuosa assurta agli onori persino di un dipinto di Van Gogh – sono per me altrettanto desiderabili delle allegre blue bells (Hyacinthoides non scripta) che, con quelle, oltre Manica fioriscono in contemporanea e ammantano d’azzurro il sottobosco con la medesima prestanza propagatrice.
Dopo qualche fallimento e con molta tenacia, sono riuscita a trovare un angolo fresco del giardino dove una sparuta pattuglia di queste insolite campanule pare cavarsela discretamente. Nulla al confronto con le plaghe inglesi, ma quanto basta per farmi sognare ad ogni aprile quei campi e quelle ripe lontane, e sperare in una nuova progenie. Speranza per ora sempre frustrata: se non altro, la conta dei fiori corrisponde ogni anno ai non numerosi bulbi interrati. Ne dovrei piantare a centinaia per ottenere l’effetto spontaneo che mi ha incantata.
Ciò che mi commuove in questa campanella – la si trova anche alba, a discapito del fosco fascino della mia prediletta – è un aspetto del suo costume. Spunta piegata sul terreno, quasi vi strisciasse; poi, con una forza inaspettata, l’esile gambo s’alza a mostrare il pendulo bocciolo e le glauche, strette lance fogliari. Fors’anche per questa sua improvvisa alzata di testa gli inglesi la chiamano Snake’s head: è una mia supposizione, perché non mi contento dell’analogia vulgata tra la quadrettata corolla e la testa delle serpi. Proprio il reticolo a scacchi dei sei tepali reclinati e color del vino è all’origine della nomenclatura scientifica, che combina, per meglio dare l’idea, il termine latino fritillus, il bossolo per i dadi da gioco, e quello greco μελεαγρίς (meleagrís), gallina faraona, con un evidente rinvio alla livrea picchiettata del pennuto africano.
Comunque, gli altri nomi popolari che il fiorellino s’è guadagnato suonano tutti un po’ sinistri, come Sullen Lady, Dama scontrosa, o Leper’s bell, Campana del lebbroso. Vita Sackville-West, che vi dedica uno dei suoi ritratti raccolti in Some flowers (1937, ora nella traduzione italiana a cura di V. Petrella, Elliot 2014), oltre a darci queste informazioni sui nomignoli in voga tra i compatrioti, riserva per la campanella questa poetica quanto decadente descrizione: «meno appariscente del botton d’oro, meno spettacolare della digitale, sembra gettare un’ombra damascata sull’erba, come se il tramonto stesse scendendo sotto una nuvola temporalesca che vela il sole morente».
Ma per voi ho in serbo una storia curiosa. Coinvolge niente meno che il Bardo per eccellenza: William Shakespeare.
Nel 2015 il botanico e storico inglese Mark Griffiths fa una scoperta sensazionale. Sul frontespizio dell’Herball or Generall Historie of Plantes, un erbario del 1598 dell’orticultore John Gerard, tra una selva di simboli araldici compare l’effigie di quattro uomini. L’identità di tre di questi è presto svelata: l’autore medesimo, il botanico fiammingo Rembert Dodoens, e Lord Burghley, il più stretto consigliere di Elisabetta I, legati tra loro da una non ignota trama di rapporti amicali. Più complessa l’identificazione dell’immagine del quarto uomo: un giovane con barba e baffi che oggi diremmo da hipster, in capo una corona di alloro, vestito con una toga dalla foggia romana, una fritillaria nella mano destra e una spiga di grano nella sinistra.
Ebbene, Griffith sostiene sia l’unico ritratto di William Shakespeare redatto durante la vita del poeta. Un ritratto molto diverso da quello postumo e inespressivo che tutti abbiamo in mente. Ma che c’entra Shakespeare con gli altri tre gentiluomini? E poi quella fritillaria impugnata come un vessillo?
La spiegazione di Griffith, che ha dovuto risolvere uno di quei rebus tanto cari agli elisabettiani, pare attendibile seppur controversa. In breve, e senza inoltrarmi nei particolari pur gustosi, Shakespeare avrebbe fatto parte del circolo di Lord Burghley, mecenate anche di Gerard. Avrebbe poi aiutato quest’ultimo a tradurre il suo libro di botanica in greco e in latino, da qui il quartetto sul frontespizio con, accanto all’autore, il protettore, l’ispiratore (il botanico fiammingo) e il poeta amico e aiutante in campo.
Quanto alla fritillaria: il fiore era stato importato dalla Francia una ventina d’anni prima e introdotto, con gran successo, nei giardini di casa proprio da Gerard. Scrive Griffiths: «It was a sensational horticultural novelty, people were very excited. It was as hot as an equatorial orchid would have been to the Victorian sensibility» (...). «Era una novità orticola straordinaria, la gente era entusiasta. Era di gran moda come lo sarebbe stata un’orchidea equatoriale per la sensibilità vittoriana».
La spiga di grano rinvierebbe a un luogo della tragedia Tito Andronico, mentre la nostra campanula, nella destra del bardo poco più che trentenne, alluderebbe al poema Venere e Adone (1593), in cui il sangue versato dal giovane, sdegnoso dell’amore della dea, si trasforma non in un anemone bensì in una fritillaria meleagris. Secondo Griffiths, si tratta dell’unico riferimento alla fritillaria della letteratura elisabettiana. Ecco i versi implicati (1165-1182):
By this the boy that by her side lay kill’d
Was melted like a vapour from her sight,
And in his blood that on the ground lay spill’d,
A purple flower sprung up, chequer’d with white,
Resembling well his pale cheeks, and the blood
Which in round drops upon their whiteness stood.
She bows her head, the new-sprung flower to smell,
Comparing it to her Adonis’ breath;
And says within her bosom it shall dwell,
Since he himself is reft from her by death;
She drops the stalk, and in the breach appears
Green-dropping sap, which she compares to tears.
“Poor flower,” quoth she, “this was thy father’s guise,
Sweet issue of a more sweet-smelling sire,
For every little grief to wet his eyes,
To grow unto himself was his desire,
And so ’tis thine; but know, it is as good
To wither in my breast as in his blood.
Disse; e il fanciullo che morto le giaceva accanto
dinanzi agli occhi suoi si sciolse come un fumo,
e dal suo sangue, sulla terra là versato,
un fiore nacque, purpureo, di bianco screziato,
che ricordava le sue smorte gote e il sangue
che quel biancore imperlava di rotonde gocce.
China ella il capo, odora quel fiore sbocciato,
all’alito del suo Adone lo compara,
e dice che nel petto esso le vivrà,
poi ch’egli a lei dalla morte ora è strappato.
Ne spezza il gambo e dalla ferita goccia
una linfa verde ch’ella compara a pianto.
«Povero fiore» disse «tu sei pari a tuo padre,
oh dolce figlio d’un più aulente padre,
cui ogni pena insidiava gli occhi,
solo per sé egli crescere voleva,
e così tu vuoi; ma sappi che tanto vale
avvizzire nel mio petto quanto nel sangue suo.
(trad. di Luca Manini)
Sarà bene precisare che siamo nella Londra del 1593 devastata dalla peste, i teatri sono chiusi (vi ricorda qualcosa?) e Shakespeare, ispirato dall’Ovidio della decima Metamorfosi, filtrata però dalla lettura di Tiziano (Venere spregiata da Adone), scrive questo capolavoro in stanze di sei pentametri giambici. Un poemetto mitico-erotico che ebbe un gran successo, tanto da vedere, vivo il poeta, una quindicina di ristampe. Poema comico e tragico, erotico e patetico, da rileggere in questi tempi di moderna pestilenza, magari con una fritillaria meleagris nel bicchiere. Il modo migliore, consigliava Vita Sackville-West, per contemplare in trasparenza l’inusuale reticolo del calice e – capovolto – la sua buia profondità.