Dal gulag di Goli Otok / Ligio Zanini: dal gulag di Goli Otok
In Istria, fino al 1993, c’era un grande scrittore. Ma pochi lo sanno, ancor meno sono quelli che lo ricordano. Forse perché Ligio Zanini, a essere sinceri, non ha mai fatto niente per attirare l’attenzione dei critici, dei giornalisti, su di sé.
Del resto, per lunghi anni, la vita lo ha costretto a collezionare esperienze davvero complicate nella sua bellissima Istria. Prima il crollo dell’Impero Austro-Ungarico, poi l’arrivo dei fascisti asserviti ai nazisti. E quando pensava che i partigiani di Tito portassero pace e libertà in Istria, si era ritrovato nell’infernale gulag di Goli Otok. L’Isola Calva dove il sole non tramonta mai, perché c’è soltanto roccia e qualche stecchito arbusto arso da una calura divorante. “Che al suo confronto la Ponza di Pertini – scriveva –, era un ameno luogo di villeggiatura”.
Il paradosso della vita di Ligio Zanini sta tutto qui. Tacciato di nostalgia per l’Impero Austro-Ungarico quando tutti si dichiaravano “italianissimi”, costretto a celare il proprio antifascismo per non finire nei lager nazisti, al poeta e romanziere nato a Rovigno nel 1927, e morto a Pola nel 1993, non portò fortuna nemmeno la decisione di aderire alla lotta di liberazione al fianco dei partigiani jugoslavi. Visto che lui non voleva smettere di pensare con la propria testa. E per questo venne perseguitato, emarginato, ridotto al silenzio.
Quando Stalin decise di scomunicare Tito, il 28 giugno 1948, e il Maresciallo troncò la sua liaison con l’Urss, molti comunisti filosovietici furono rinchiusi nella prigione a cielo aperto di Goli Otok. Con l’accusa di essere dei cominformisti. Ovvero, una quinta colonna di Mosca nella Jugoslavia che si apprestava a diventare leader dei Paesi non allineati.
Da compagni di strada, all’improvviso, diventarono pericolosi nemici del popolo. Avversari, insomma, da rieducare con i metodi più brutali, fino a quando non si fossero rassegnati ad accettare il Verbo del Partito unico. Come accadde a molti dei 2500 lavoratori che dal Friuli Venezia Giulia si trasferirono nella Jugoslavia di Tito, tra il 1946 e il 1948, sognando di contribuire a creare una vera repubblica socialista, ma che dovettero rientrare in Italia alla spicciolata, nei primi anni ‘50, dopo aver scontato lunghi anni di prigione e di confino.
Lui, Ligio Zanini, non era il tipo da andare in giro a vantarsi della sua attività di scrittore. Tantomeno di quello straordinario romanzo intitolato Martin Muma. Un capolavoro del ‘900 dove trasfigurava la propria vita nel festoso, e poi drammatico, incedere nella Storia di un ragazzo “più leggero di una piuma che a cavallo della schiuma in una notte di malaluna, forte vento e di sfortuna, arrivò senza saperlo”.
Eppure, alla fine, qualcuno si è accorto per davvero di quanto il Martin Muma fosse davvero un grande romanzo. Primo fra tutti il critico letterario e docente universitario triestino Bruno Maier, estimatore e amico di Zanini. Poi, Giuliano Manacorda, professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea alla Sapienza di Roma, che definì il libro “un testo insostituibile” per capire gli anni oscuri, complicati, ambigui e dolorosissimi che stanno a cavallo della Seconda guerra mondiale.
A unirsi al piccolo coro di lodi, a un certo punto, arrivò anche la voce dello scrittore Mario Rigoni Stern. L’autore di Il sergente nella neve, Storia di Tönle, Le stagioni di Giacomo, riconobbe in Zanini non solo un compagno di viaggio nella ricerca della sempre più rara libertà di pensiero. Ma, soprattutto, il creatore di “un libro esemplare, un esempio, voglio dire, di come e perché un libro deve essere scritto”.
Adesso, il Martin Muma arriva nelle librerie italiane in una nuova, preziosa edizione. La pubblica l’editore Ronzani di Vicenza (pagg. 406, euro 19), a cura di Mauro Sambi, nella collana VentoVeneto diretta da Matteo Righetto. Questa versione propone non soltanto il testo del romanzo riportato alla sua originale struttura, senza tagli e aggiustamenti nell’abbondante punteggiatura che contrassegna lo stile di Zanini. Ma è arricchita anche da una prefazione del giornalista e saggista fiumano Ezio Giuricin e dagli scritti di Giuliano Manacorda, “Narrar parlando”, e Mario Rigoni Stern, “Laggiù, un uomo”.
Come sia nato il Martin Muma lo raccontava lo stesso Zanini nelle “Postille” che stanno alla fine del romanzo: “Martin Muma fu un simpatico personaggio del ‘Corriere dei Piccoli’ negli anni Trenta, da me ammirato prima che sapessi leggere, tanto da essere ancor oggi il mio eroe preferito. La mamma, per Martin Muma, doveva comperarmi il giornalino e la buona zia Ita mi leggeva contenta le strofette”.
Quel ragazzino, che diventerà uomo negli anni peggiori del ‘900, era il simbolo di chi “riesce a sopravvivere in un ambiente spesso ostile”. Però “senza violenza, quel che è più importante”. Ma Zanini voleva proiettare su di lui non soltanto l’ombra lunga della sua stessa vita, una sorta di “confesso che ho vissuto”. Allo scrittore rovignese serviva la figura di un piccolo principe fatto di sogni e illusioni, di passioni e curiosità, per dare voce alla sua sconfinata voglia di libertà. Al desiderio di spalancare gli occhi sul mondo, di esplorare la realtà attorno a casa e molto più in là, di conoscere persone, di imparare a scoprire il corpo delle donne e innamorarsi di loro. Senza che nessuno pensasse di dettargli regole.
Scrivendo Martin Muma, insomma, Zanini decise di imboccare la via opposta a quella battuta dai cultori del modernismo in letteratura. Quanto loro cercavano di estinguere la personalità del poeta, di nascondere l’io debordante del romanziere, affidandosi all’impersonalità del linguaggio, tanto lui costruiva una voce originale eppure personale. Mescolando, come diceva T.S. Eliot nella “Terra desolata”, “memoria e desiderio”. Sovrapponendo le parole della fantasia, del sogno, della curiosità e dell’illusione con quelle di un faccia a faccia brutale con la realtà.
Per mettere assieme questo impasto narrativo, perfetto per un narratore cantastorie, Zanini aggiungeva alla nitidezza dell’italiano le parole più immaginifiche della sua lingua madre. Quel dialetto di Rovigno, imparato fin dai primi anni della fanciullezza, che è una variante polifonica del più dotto veneto. Uno slang pieno di sfumature di colore, terragno e volatile al tempo stesso, che si rivelerà perfetto per dare voce al contrasto tra la falsità dei roboanti discorsi del Potere e la schietta lucidità della gente comune. Delle persone che faticano a mettere assieme il pranzo con la cena, ma si rivelano assai più lungimiranti di chi sproloquia sui massimi sistemi.
Non stupisce che Franco Juri, uno degli intellettuali istriani più lucidi prestato alla politica, abbia intravisto nelle pagine di Martin Muma echi della fantasmagoria latinoamericana di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Perché Zanini ha saputo far convivere nel romanzo il passo veloce della Storia e il pirotecnico fascino della saga. Senza mai nascondere il lato tragico della realtà, ha irrobustito il suo mondo narrativo con gli strumenti dell’ironia. Ridicolizzando Benito Mussolini nel personaggio di Testa Quadrata (“Dopo l’Austria comanda uno solo e anche stupido”), inchiodando il Papa al ruolo di Santo Infallibile, liquidando il cambio di regnanti con un lapidario: “Prima avevamo Cecco Peppe, sazio e lustro, ci si è voluti liberare di lui e come premio abbiamo avuto un piccolo re affamato”.
Accanto a loro, nel racconto della modesta, ma favolosa vita di Martin Muma, sfilano personaggi presi di peso dalla quotidianità. Tutti dotati di un nome indimenticabile: come la vecchia Cogometa, chiamata così per la sua bassissima statura che la faceva assomigliare a una “cogoma”, la caffettiera; o come la Sacra Famiglia del protagonista, formata da mastro Sandro-San Giuseppe, mamma Checchina-la Madonna, perseguitati tutti da Erode-Testa Quadrata: l’onnipresente Mussolini.
Più tardi compariranno sul palcoscenico delle pagine Quel tartaifel di un sergente croato, Baffetti tedeschi, l’Orda d’Oro agli ordini indiscutibili di Tito, che troppo in fretta si farà acclamare come nuovo Dio della Jugoslavia. Indimenticabile la santola Niene Basabanchi, che racchiude nel suo cognome gli orizzonti strettissimi del suo essere fin troppo osservante della religione cattolica.
Martin Muma è dotato della grazia di saper attraversare l’infanzia e l’adolescenza con incantata gentilezza. Perché Zanini voleva che quel ragazzo gracile e sensibile, bravo a scuola e dotato di un’innata, sana curiosità, esplorasse tutti i territori della vita, spesso costellati da imprevisti burroni, passaggi oscuri, campi minati.
Per questo, Zanini lascia che il suo sognatore si emozioni davanti alla bellezza del territorio dell’Istria. Che impari ad amare il mare, le isole disperse nella corrente, la vegetazione profumatissima, ascoltando la voce dei bianchissimi “cocai”, i gabbiani. E, poi, lo porta a scoprire il fascino delle cose semplici: poche amicizie, l’importanza di avere vicino affetti solidi, il piacere di trascorrere lunghe ore pescando con l’amo. Passione a cui lo scrittore sarà legato fino agli anni della vecchiaia. E che lo aiuterà a non dare eccessivo peso alle continue umiliazioni che gli infliggerà il Potere. Quando lui, bravissimo maestro di scuola elementare, dovrà rassegnarsi prima a fare il magazziniere al cantiere Stella Rossa di Pola, e il contabile in una ditta commerciale.
Una menzione a parte merita l’iniziazione erotica di Martin Muma. Perché Zanini fa incontrare al suo ragazzo la quintessenza della femminilità in una donna che proviene dalle case chiuse, ma che trova l’amore in un gentiluomo pronto a sposarla. Sarà la bionda Jole a far scoprire al ragazzo più leggero di una piuma quanta bellezza può contenere il corpo umano, demonizzato dalle chiese, umiliato e offeso dalle ideologie dogmatiche. Profanato fino a impensabili livelli nei campi di concentramento.
“Guarda Martino, come sei bello! Devi conoscerti per essere felice e per donare contentezza”, gli dirà la signora dei Sette Moreri. Impartendogli una lezione preziosa, da tenere a mente anche quando incontrerà la giovane pallavolista Silvia, futura moglie e madre dei suoi figli: l’essere umano è uno dei capolavori della Natura.
Se l’umanità, però, insiste a credere in un Dio usato per “benedire i cannoni e culo e camicia coi generali”, spesso complice “dei più ladroni e assassini del mondo”, non può pretendere di evitare le peggiori disgrazie. E così, nella seconda parte del romanzo “Dal Rubinum all’Isola Calva”, i tamburi di guerra cominciano a rullare. Trascinando con sé vaghe illusioni che nel cambiamento di fronte, di partito, nell’affidarsi a facce nuove del tutto diverse da quelle di prima, stia la vera soluzione di ogni problema.
Illusioni, sciocche, terribili illusioni. Perché nell’Istria che era stata austro-ungarica, poi fascista e nazista, non poteva risultare semplice ricomporre una divisione che aveva allungato le sue radici nell’odio etnico. Anche dopo la liberazione, infatti, la contrapposizione del tutto manichea tra diverse fazioni nazionali, politiche, umane, continuerà in forma ancora più brutale: “Pola era divisa in due fronti, ambedue violenti. Per l’uno, gli Slavi erano ancora s’ciavi, per l’altro, volere l’Italia significava esser fascisti”. Riassunta in poche parole, dette nel dialetto istro-veneto, la situazione verrà così fotografata da mastro Sandro: “Oggi potremmo essere in America, via da questa fogna: taliani magna bigoli, s’ciavoni e gnochi, tutto un dreck. Là, invece, si diventa mericani”.
Come poteva credere, Martin Muma, in un capo come Tito, in un partito come quello comunista jugoslavo, che ripeteva in continuazione il mantra: “Io sono l’Unico, non avrai altro Dio all’infuori di me”? Come poteva piegarsi all’idea che, dopo le violenze fasciste e naziste, ci fosse la necessità di essere guidati da un unico credo “che altro non è che un’associazione di scagnozzi alle dipendenze di un padrone assoluto, circondato da una nutrita cerchia di commensali, i quali si spingono, si azzuffano per adulare il capotavola”? Infatti, il ragazzo finirà per affermare in pubblico che lui non si rassegnerà mai a quella sbornia ideologica. E nemmeno al fatto che, per vincere la dittatura, sia necessario arruolare i lazzaroni.
A quel punto, Martin Muma dovrà inventarsi un modo per sopravvivere alla feroce persecuzione scatenata contro di lui. Si salverà dallo Strafauss, la solida prigione del tempo dell’Austria dov’era stato impiccato Nazario Sauro. E uscirà vivo anche dall’inferno di Goli Otok, dove i nuovi prigionieri venivano accolti dalle botte, dagli sputi e dagli insulti degli altri prigionieri. Ormai trasformati in obbedienti robot da chi voleva sradicarli dalla loro posizione di “nemici del popolo”. Sottoponendoli alla tecnica “dello scorpione tra le fiamme”: “Consisteva nel far agire le stesse vittime per autodistruggersi mentre il carnefice si lava le mani, sporche per aver soltanto acceso il fuoco”.
Salvarsi, sì, ma come? Martin Muma sperimenterà una sorta di autoipnosi. Userà la fantasia, scatenerà l’immaginazione, per illudersi di volare al di là dell’orrore visto e vissuto sulla propria pelle. “La prigione gli divenne sopportabile. Per la verità, se la rese lui, Martin Muma, tollerabile, usando la propria innata capacità: quella di volare”.
A rileggerlo oggi, Martin Muma appare come un capolavoro dai mille registri. Sa essere carezzevole e urticante, lascia spazio libero alla fantasia senza mai abbassare gli occhi davanti alla realtà. Si rivela, pagina dopo pagina, un fermo, a tratti durissimo, atto d’accusa di chi non ha fatto nulla per costruire le fondamenta di un mondo libero. Ma si è accontentato delle briciole di dignità che gli elargivano i potenti di turno.
E poi, è uno dei più centrati e sinceri racconti della tragedia del popolo istriano. Uomini e donne strumentalizzati dai fascisti per la loro fasulla propaganda che inneggiava alle origini romane dell’Istria, alla sua italianità da sempre, rinnegando la convivenza del tutto normale con genti di lingua slava. Progetto politico che voleva cancellare la commistione di stili di vita, l’amalgama indissolubile di riti religiosi, l’intrecciarsi di tradizioni culinarie, di patrimoni culturali.
Gente, quella dell’Istria, che ha poi pagato il pregiudizio covato dai comunisti titini, capace di scatenare la caccia spietata ai nemici italiani, considerati in maniera ottusa e incondizionata tutti servi di Mussolini e di Hitler. Mentre chi scappava, e si rifugiava in Italia per costruirsi una nuova vita, veniva considerato sempre e comunque un fiancheggiatore dei fascisti.
Ci sono passaggi in cui la storia di Martin Muma intercetta il drammatico esodo degli italiani dall’Istria. E, al tempo stesso, l’amarissima sorte toccata a quelli che decisero di restare, bollati da subito come rinnegati, collaborazionisti di Tito. Senza considerare che “sarà per merito nostro, di noi ‘rinnegati’ – scrive Zanini –, se un domani si parlerà la nostra lingua in queste terre: avremo le scuole italiane e starà a voi intellettuali onesti educare le nuove generazioni nell’amore per la nostra Nazione, nel rispetto di tutte le altre”.
Ligio Zanini, “abituato ai manrovesci” che la vita gli aveva assestato in piena faccia, ha concluso il suo cammino di uomo continuando a dichiararsi seguace fedele della libertà di pensiero. Abbandonati i panni di maestro nella scuola italiana di Valle d’Istria, conseguita una laurea in Pedagogia a 52 anni, non ha mai smesso di dedicarsi alle sue vere, grandi passioni: la pesca con l’amo e la scrittura.