"Far molto intenso lo scuro" / Leonardo da Vinci nei film di Tarkovskij
Per Andrej Tarkovskij i ritratti realizzati da Leonardo hanno qualcosa che sta al di là del bene e del male, sono manifestazioni seducenti e diaboliche, con un’attrattiva duale, contemporaneamente incantevole e ripugnante: “[…] prendiamo il Ritratto di giovane donna con un ramo di ginepro di Leonardo, che ho impiegato nel film Lo specchio nella scena del breve incontro del padre, tornato dalla guerra, con i propri figli. Le immagini create da Leonardo colpiscono sempre per due motivi. In primo luogo, per la straordinaria capacità dell’artista di guardare gli oggetti dal di fuori, dall’esterno, mettendosi da una parte, quello sguardo al disopra del mondo che è proprio degli artisti come Bach o Tolstoj. E, in secondo luogo, per il fatto che in queste immagini viene contemporaneamente percepito anche un secondo e opposto significato. È impossibile esprimere la sensazione finale che questo ritratto produce su di noi. È persino impossibile dire con sicurezza se questa donna ci piace o non ci piace, se è simpatica o sgradevole. Ella ci attira e ci ripugna. In lei c’è qualcosa di inesprimibilmente bello e, nello stesso tempo, di ripugnante, di diabolico. Ma di diabolico tutt’altro che nel senso attraente del romanticismo.
Semplicemente qualcosa che è aldilà del bene e del male. Si tratta di un fascino col segno negativo: in lei c’è quasi un che di degenere e… di stupendo. Nello Specchio questo ritratto ci occorreva, da un lato, per trovare la misura dell’eterno negli istanti che scorrevano innanzi a noi, e dall’altro, per mettere a confronto questo ritratto con la protagonista: per sottolineare così in lei, come nell’attrice Terechova, quella stessa capacità di essere al contempo incantevole e ripugnante” (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Milano 1995, p 100).
In Solaris, il volto del fantasma di Hari, la tipologia e l’acconciatura della donna richiamano alla memoria i ritratti di Cecilia Gallerani (La dama con l’ermellino), della Belle Ferronnière e il ritratto di una Sforza. Mentre il volto della protagonista di Lo specchio ricorda a volte il ritratto di “Ginevra de’ Benci” (citato direttamente da Tarkovskji nel film, in un libro dedicato a Leonardo). Quando si sofferma sui volti dei suoi personaggi, Tarkovskij lascia agire la macchina della fisiognomica introspettiva, si addentra alla scoperta di forze che agitano gli individui, vola nella coscienza per piantare un sismografo cinematografico. Entra nel soggetto, facendo parlare le cose su cui posa lo sguardo, va oltre l’apparenza, nei misteri dell’anima, nei suoi abissi, nelle sue sensazioni di solitudine, nel teatro delle passioni implose. Come Leonardo, Tarkovskij non vuol somigliare “ai belli parlatori senza alcuna sententia” e cerca un procedimento stilistico capace di far emergere il valore della vita dei “figli della natura”. Questa via percorre i campi dell’ambiguità, entro i quali l’uomo si muove tra la precarietà e la ricerca del sublime e dell’eterno. Tarkovskij è sedotto dalla theorica dell’intelletto, che Leonardo ha reso tangibile con la sua ricerca artistica.
Il pittore umanista mostra la divinità nelle persone, nella natura e nelle cose. La mostra con una maniera che fonda il suo linguaggio su una misteriosa oscurità, capace di dare gran rilievo alle figure. A Tarkovskij piace la capacità di Leonardo di far immaginare il riguardante, è sedotto dalla sua chiarezza, dall’irraggiungibilità delle sue luci. E soprattutto dall’instancabile urgenza di cogliere la verità. Quella verità polisensa, che per sua natura ama celarsi nell’apparenza ingannevole. Il regista russo insegue la conoscenza di quel lume, mai troppo chiaro, capace di far la differenza della visione del mondo, in grado di far emergere un potenziale evocante e di essudare la sua anima essenziale.
Cerca quella chiarezza poetica che mostra il non detto delle cose e delle coscienze. Da Leonardo attinge il modo di “far molto intenso lo scuro”, così da far posare la luce e la bruma dello sfumato sul mistero emanato dagli oggetti del mondo. Il troppo nero delle ombre leonardesche è funzionale per far sì che l’accordo delle luci dia rilievo, prima alle figure e alle cose, e poi all’idea.
Ma, innanzitutto, eredita l’abilità di suggerire che vi sia qualcos’altro oltre quello che viene posto davanti agli occhi. Qualcosa oltre la conoscenza scientifica dei corpi e della fisica. Qualcosa oltre la psicologia. Qualcosa al di là della fisiognomica. E questo è reso possibile per mezzo di un’arte intesa come strumento per cercare di dire la verità della vita.
Come Leonardo, Tarkovskij elabora, nella sua ricerca formale, visioni che, contemporaneamente, fermano quel passaggio fra la definizione precisa del dettaglio e la percezione dello sfumato che apre a realtà altre dell’invisibile, a dimensioni evocative e a emersioni dell’occulta trama psicologica delle persone. Le sue immagini incarnano il desiderio di tendere verso l’assoluto, l’ideale e l’infinito, sono impressioni di ciò che esprime la verità: “È difficile pensare che il concetto di immagine artistica possa essere espresso con una formula chiara, precisa e comprensibile. Questo al tempo stesso non è né possibile, né auspicabile. Posso soltanto dire che l’immagine tende all’infinito e conduce all’assoluto. […] Quando il pensiero viene espresso nell’immagine artistica, ciò significa che è stata trovata la sua unica forma, quella che esprime con la maggiore approssimazione semantica possibile l’idea che dà corpo al mondo dell’autore, la sua tensione verso l’ideale. […]
L’immagine è qualcosa di indivisibile e di inafferrabile, che dipende dalla nostra coscienza e dal mondo reale che essa si sforza di incarnare. Se il mondo è enigmatico, anche l’immagine è enigmatica. L’immagine è una sorta di equazione che indica il rapporto esistente tra la verità e la nostra coscienza limitata dallo spazio euclideo. Nonostante che noi non siamo in grado di percepire l’universo nella sua totalità, l’immagine è in grado di esprimere tale totalità. L’immagine è un’impressione della verità sulla quale ci è concesso di gettare uno sguardo con i nostri occhi ciechi. L’immagine incarnata sarà veridica se in essa si coglieranno i legami che esprimono la verità e che rendono tale immagine unica e irripetibile come la vita stessa, anche nelle sue manifestazioni più semplici” (A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, p. 97).
Sia il regista russo sia l’artista rinascimentale lavorano sulla visione che vaga per i larghi orizzonti, nelle brume che aleggiano tra lo sguardo del riguardante e i limiti lontani delle valli, dalle colline e dai monti posti sullo sfondo di soggetti analizzati in primo piano con la sonda analitica. Cercano di penetrare oltre la pelle, oltre lo scheletro, oltre il cranio, per portare in superficie l’insondato. Lavorano sulla presenza visibile di una superficie solida posta nel largo orizzonte dello sfumato onirico.
E, allo stesso tempo, dopo aver visto da vicino l’apparenza di ciò che viene percepito dall’occhio come qualcosa di fermo, portano la figura umana molto lontano, sempre più distante, sullo sfondo, nell’oscillazione perenne dell’atmosfera.
E indugiano sulla presenza fisica delle situazioni atmosferiche, sulla capacità meteorologica di influire sulla percezione e sulle emozioni delle persone. Entrano nell’atmosfera, nel tempo, nella penombra, nel turbinio degli agenti atmosferici, nella vibrazione ininterrotta che avvolge i vari campi della realtà. Entrano nell’inconscio, rallentano il corso del tempo, fanno affiorare immagini. Poi tutto ritorna nella trama sequenziale della narrazione, fino alla prossima riflessione, che apre di nuovo a un’altra dimensione della coscienza. Stanze della memoria, dunque, ma anche stato di sospensione nei vari livelli della coscienza. Dialogo tra qualcosa che sta dentro e qualcos’altro che sta fuori. Dialogo spesso silente, quasi un monologo esteriore che si decanta, posando lo sguardo sulle cose o sull’invisibilità di qualcosa che si intuisce, ma che non si coglie completamente. Il soggetto cerca la compenetrazione assoluta con l’oggetto percepito dal pensiero.
Tarkovskij è anche un esploratore dei fenomeni innaturali che stagnano nella psiche. Egli osserva il principio dell’attrazione di repulsione, ovvero, sonda il fascino seducente di qualcosa che al tempo stesso repelle una parte della coscienza. Ama indagare le contraddizioni mentali dei suoi personaggi.
Si ricorda delle suggestioni leonardesche, la profondità psicologica allusa nei volti dei personaggi ritratti, il “chiaroscuro astratto in lume universale”, il desiderio di evasione sentimentale, i fantasmi di stampo poetico reperiti dall’intelletto, e anche il paesaggio – unità topografica abitata da una presenza luministica misteriosa –, le scansioni sceniche, il senso di mistero che aleggia nella “piramide magica” della Vergine delle rocce, il flusso che vibra nel segno abbozzato dell’Adorazione dei Magi.
Cerca, come Leonardo, di rendere visibili le forze primordiali e l’armonia sovrannaturale della natura “piena di infinite ragioni che non furono mai in isperienza”. Partecipa alla ricostruzione della macchina del mondo, alla ricomposizione umanistica di un’entità meritevole d’essere intesa.
Ricrea, come il maestro di Vinci, la maniera di giungere oltre l’esperienza dell’imitazione della natura, oltre le cortine arboree, oltre gli elementi, oltre la luce e il buio, oltre il limite dell’uomo, al di là di ogni dicotomia, per vedere se balza fuori la presenza misteriosa aperta sull’infinito, quella forza (sia psichica sia fisica) che guida il mondo.
Il comune interesse per il contrasto che mette in chiaro i termini opposti ha dato luogo a opere dove il chiaroscuro e lo sfumato evocativo sono un mezzo funzionale per dare rilievo alle forme celate tra la conoscenza scientifica e l’apparenza illusoria. Ne emerge un’armonia in cui il paesaggio colloquia con l’uomo. La natura si esprime per mezzo del linguaggio concreto: il suono dell’acqua, la presenza tangibile della terra, il respiro dell’aria, il movimento flessuoso delle fiamme, il mistero palpabile di uno spirito quintessenziale.
Il regista eredita dall’umanista italiano la consapevolezza che l’anima dell’uomo e quella del mondo sono costituite della stessa sostanza. Il ruolo dell’uomo d’arte è quello di fungere da profeta, da medium, per far sì che l’anima individuale e il mondo diventino una cosa sola, e per fare in modo che la verità attingibile diventi comprensibile e concreta: “[...] l’uomo, in un certo senso, subisce una scissione, si sente responsabile per gli altri, egli è uno strumento, un medium, obbligato a vivere per gli altri e ad influire su di loro. In questo senso aveva ragione Puškin a ritenere che il poeta (e io mi sono sempre ritenuto più un poeta che un cineasta), aldilà della sua stessa volontà, è un profeta.
Egli considerava un dono terribile la capacità di vedere dentro al tempo e di predire il futuro e soffriva in maniera inimmaginabile per questo suo ruolo predestinato” (Scolpire il tempo, p. 204). Nella prima e nell’ultima scena di Il sacrificio il protagonista simbolico è un alberello, che getta nuovi virgulti dopo essersi inaridito e dopo essere stato innaffiato dalla fede e dalla autoimmolazione del protagonista. È collegato idealmente da Tarkovskij all’albero presente nell’Adorazione dei Magi di Leonardo, dentro il quale la macchina da presa entra in profondità soffermandosi su ogni dettaglio: è una proiezione ideale dell’albero inaridito, immagine delle forze misteriose che non possono essere descritte dalla parola dell’uomo, che si è svuotata ed è divenuta arida promessa di fallaci definizioni. L’asse vegetale attinge alle forze ctonie dalla sacralità della materia terrena e porta la linfa verso l’alto, in direzione del cielo, la trasforma in foglie e in frutti. L’albero di Il sacrificio è inteso come via preferenziale per poter attingere a forze spirituali, in grado di liberare il canale che porta alla sorgente vitale, spesso ostruito dall’inutilità di cose futili di cui l’individuo è circondato: “il mio intento fondamentale è stato quello di porre e di mettere a nudo le questioni vitali della nostra esistenza e di richiamare lo spettatore alle sorgenti ostruite e inaridite della nostra vita. Le immagini, le rappresentazioni visive sono in grado di fare ciò non meno della parola, soprattutto in un’epoca nella quale la parola ha perduto il proprio significato misterioso e magico, trasformandosi in vuota chiacchiera, […] cessando di significare qualcosa.
Noi soffochiamo per l’eccesso di informazione e, nello stesso tempo, i messaggi più importanti, quelli in grado di trasformare la nostra vita, non raggiungono la nostra coscienza. Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo. Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia applicando a sé le leggi della natura inanimata. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio” (Scolpire il tempo, p. 211). Nei film di Tarkovskij si intuisce la convinzione che vi sia un’analogia, di stampo platonico, tra le strutture dell’universo e il corpo/pensiero umano. Il regista applica il metodo leonardesco, e smonta la macchina universale (dell’uomo e della natura che lo circonda) per vedere i “moti dell’animo”, la dinamica espressiva delle emozioni e dei sentimenti, la creatività complessa del mondo onirico, lo sguardo introflesso, lo spirito ordinatore di una trama di oggetti assunti a simboli.