Speciale
Parole per il futuro / Teatro
Più che una parola per il futuro “teatro” sembra un ricordo vecchio, polveroso, inadatto a tempi veloci, smart, connessi. Nonostante qualcuno lo voglia digitalizzare, il teatro si basa ancora sullo scandalo della presenza dei corpi, di quell’organo che connette interno ed esterno che è la voce, profonda e estroflessa, e sulla evidenza e sui misteri della parola, che dovrebbe sintetizzare vita, concezioni, miti, apparizioni in un tempo estremamente breve. Si basa sulla concentrazione di un macrocosmo in un microcosmo, nella coagulazione di elementi che dovrebbero così rimettersi in movimento e far risplendere qualcosa d’altro dal già noto.
E poi… e poi…
Non basta questa distanza (apparente?) dai problemi centrali dei nostri tempi a mettere in sospetto nei confronti del teatro. Oltre a essere marginalizzato nel sistema culturale, sempre più un sistema dell’informazione e dell’informazione intrattenimento piuttosto che un luogo da cui guardare (theaomai) per guardarsi dentro ed essere guardati, se non bastasse questo, il sistema del teatro fa di tutto per rendersi marginale. Sforna testi assurdamente polverosi, o che nei tentativi ‘nuovi’ semplificano la realtà fino all’illustrazione o alla tautologia, alla riesposizione senza neppure troppa fantasia del già noto nelle sue linee più evidenti; oppure punta su esperienze che rimasticano all’infinito strade passate, già esplorate, con poca voglia di rischio. Nelle grandi istituzioni soprattutto, dove la restaurazione è all’ordine del giorno, sia quando si traveste da innovazione e partecipazione, ma sempre dirigistica, poco capace di far vibrare corpi e pensieri, sia quando si afferma brutalmente come presa di potere per ripristinare un vecchio ordine clientelare. Sempre, in ogni caso, le grandi istituzioni, i teatri nazionali primi tra tutti, giocano la partita degli scambi, quella autoreferenzialità del ‘grande spettacolo’ che non è auto-osservazione e esperienza deviante, trasgressiva, ma che diventa asseverazione di un sistema.
Le nuove norme ministeriali rafforzano questo stato delle cose, concedendo tempi più lunghi alle direzioni artistiche, sostanzialmente ribadendo che il sistema deve arroccarsi e produrre a fondo perduto, produrre produrre produrre, anche se nessuno vede gli spettacoli prodotti. Non esistono spazi per il nuovo, per le esperienze indipendenti, non previste da rigide griglie ministeriali quantitative. Il sistema è incancrenito su sé stesso e chi frequenta le sale lo sa bene, quando nel migliore dei casi si sbadiglia dalla noia, nel peggiore si perde quel tempo che a mano a mano che il futuro incalza si rivela sempre più fuggevole, meritevole di essere valorizzato (il Decreto lo analizza bene Alessandro Toppi sulla sua pagina Facebook, qui, e sul numero 3 de “La Falena. Rivista di critica e cultura teatrale”, n. 2 del 2021).
L’istituzione teatrale non è il futuro, nonostante qualche tentativo lodevole, al Metastasio di Prato, a Ravenna Teatro, da Virgilio Sieni, fino a ieri a Catania con Laura Sicignano, estromessa per un ritorno all’ordine, in molte esperienze indipendenti, da Fanny & Alexander a Teatro Sotterraneo al Teatro delle Ariette ad Anagoor a Frosini-Timpano, per fare solo qualche nome, e in molti festival. Isolati emergono pochi giganti, come Romeo Castellucci, Mimmo Cuticchio, Armando Punzo, Deflorian-Tagliarini, Roberto Latini, Lucia Calamaro, Ermanna Montanari, che macerano visioni e incendi nella mente corpo dello spettatore nonostante tutto, con una lucidità e una fedeltà a sé stessi e all’arte mai appannate.
Il teatro è indistruttibile, intitolavo un ebook pubblicato da doppiozero giusto un anno fa. Oggi non lo so più, come non so se ci sarà un futuro, non solo del teatro ma del nostro mondo tutto, perché questi ultimi anni hanno messo in questione l’idea stessa di futuro, e ancora di più dovrebbero discuterla, visto che il passato ci ha portato, ci sta portando, alle soglie di un’apocalisse strisciante, che ogni tanto accelera le sue precipitazioni.
Allora: teatro può essere ancora una parola del futuro, confidando solo nella sua capacità di sopravvivenza, validata da una storia lunga 2500 anni?
Non lo so, oggi non lo so. Forse in cuor mio lo spero. E provo a spiegare come forse questa vecchia arte ha qualche possibilità di sopravvivenza. Non voglio dare indicazioni, né tantomeno fare previsioni. Solo registrare stati d’animo, miei, di una persona che dal 1970 si nutre di teatro in vari modi, che ha creduto, in anni che si vanno allontanando, che il teatro potesse essere una chiave per aprire il mondo e cambiare prima di tutto noi stessi e quindi i rapporti intorno a noi (con poca fiducia, in verità, nel teatro autoproclamatosi politico, che spesso inscenava solo semplificazioni cartellonistiche di superficiale agitazione di moti altrimenti a fondo indagati e vissuti altrove).
Qualche mese fa il festival Epica, diretto da Elena Di Gioia in provincia di Bologna, mi ha invitato a un dibattito, chiedendomi di rispondere alla domanda: “Che cosa può raccontare oggi il teatro?”, che mi sembra molto simile a quella che stiamo considerando: ha un futuro il teatro, può essere una parola per il domani, ha ancora prospettive di intervenire in modo necessario nelle nostre vite, di essere vita nova? (In fondo, molti che si sono appassionati al teatro nei decenni passati lo hanno fatto per queste promesse che sembrava fare, perché lo ritenevano l’arte più semplice e praticabile per attuare un cambiamento interiore e della società, lavorando sulla comunità e sulla psiche profonda).
La questione posta dal festival inizialmente mi aveva infastidito. Poi ho provato a svicolare agli obblighi di un intervento ben strutturato, e mi è sorta questa risposta, che ripropongo qui, con tutti i dubbi, le contraddizioni che il ragionamento può indurre, fidandomi anche del fatto che il teatro deve essere visione, e solo se lo è può davvero riuscire a diventare prospettiva. Ecco dunque la mia risposta, in prosa mista a versi, forse provocatoriamente contro un certo ordine del discorso, o solo per stanchezza dei periodi gabbia del ragionar consueto.
“Che cosa può raccontare oggi il teatro?”
Come posso io, critico, studioso, osservatore, dire, spiegare, consigliare che cosa raccontare? Sarebbe un limitare la libertà degli artisti, che possono e hanno il dovere di sorprendermi e rapirmi con l’imprevisto dei loro racconti, delle loro azioni.
Se spiegassi come deve essere il teatro secondo me compilerei un noioso mortifero manifesto, tutto teorico, che non tiene conto dei voli di Roberto Latini, per esempio, del suo artigianato, del suo mettere in voce il corpo e il corpo in voce e immaginario; non contemplerei le sue necessità in questo periodo in cui si riaprono le danze dopo una lungo, atrofizzante immobilità.
Cerco allora di evitare espressioni tipo “il teatro deve raccontare questo o quello”: può raccontare questo o quello, e quello e questo: ci sono più cose Orazio tra cielo e terra di quante ne immagini la nostra filosofia. Aspetto di essere sorpreso da scelte imprevedibili. Non mi sento che di dire che mi piacerebbe si raccontasse quello che questo anno e mezzo di catastrofe ha scavato dentro di noi, e neppure che si ignorasse; che si esaltasse il bisogno di un teatro civile, aperto al mondo esterno, e neppure che si rivendicasse la necessità del cesello, dalla chiusura, della ricerca interiore, dell’esplorazione radicale anche non condivisa; e non vanterò né le strade della commedia o dell’umorismo, né quelle della tragedia o del dramma più o meno borghese, della tradizione o della ricerca; non privilegerò il linguaggio strizzante gli occhi a quello giovanile, né quello paludato, né quello impastato nella mediasfera o quello scorticante la quotidianità più desolata.
Dirò cosa è il teatro per me, oggi, in un momento in cui, per altro, sono un po’ in crisi nei suoi confronti, forse perché ne ho visto troppo e tanto senza vera forza o necessità, forse perché, a causa della pandemia, non ne vedo da tempo. Ma questo mio percorso, contraddittorio, non vuole affermare che il teatro debba essere in un modo o in un altro, così per tutti, altrimenti per qualcuno, diversamente per nessuno. Aspetto di essere sorpreso, smentito, convertito a altre visioni.
Il teatro (il teatro che mi figuro) è selvaggio
Boschereccio
Incivile
Fugge come peste l’apparenza chiamata realtà
Per lasciarla a mezzi di comunicazione che possono
Descrivere raccontare analizzare, meglio.
È insieme rozzo e sacro, e questo lo sappiamo
È shock e passione
Reale e irreale
Viaggio interiore e di immaginazione
Che crea immagini come realtà fisiche
Ricche di concrezioni geologiche.
Si rifiuta alle (belle) maniere.
Non è teatro di poesia
Ma poesia in atto,
Ritmo, essenza del corpo voce, palpito.
Ora che ha attraversato una pestilenza
Si pone ancora come obiettivo di propagare la peste,
Ricreando paura e desiderio.
Abita le selve
Smettendo di chiudersi negli spazi circoscritti
Applicando l’arte della fuga
Della ricerca dell’aria
Senza devozioni
Bruciando (noi amiamo, noi respiriamo, soltanto se bruciamo se bruciamo).
Il sole questo teatro non lo trova in riunioni assessorili
Ma negli squarci delle radure
Nelle ‘fessurazioni’ che si aprono nel linguaggio,
Nel gesto, nel corpo quotidiano.
È tragedia, è commedia, assemblea, setta segreta
Respiro aperto tormento gioia gioco.
Apre cieli. Mette in movimento.
È sapienza di mestiere e di visione.
Forse è sapienziale, ma non è detto.
Fa disfa corregge e si corregge, continuamente
Sapendo che l’opera non la costruirà
Che questa continuamente svanirà
Ed è bene che diventi cenere, scompaia.
Il mio teatro va avanti a colpi d’ascia,
Per citare il respiro ansimante dell’Austriaco Thomas B*,
Ma con gentilezza e discrezione.
È chiaro e oscuro
È un abbraccio a una persona cara che si perde
Che scompare che muore
E quell’ultimo abbraccio quel sorriso
Vale più di tutta l’arte occidentale.
Il ridere il soffrire
Il fiorire l’appassire
Il vivere e il morire sono le sole realtà
E il resto si fa semplicemente
Per continuare a vivere.
Il mio teatro per essere vero si nega
Non si nasconde dietro il diverso
Perché lo rispetta profondamente.
È respiro, spesso ansimato,
È fiato che nel vuoto si insinua
Voce dalle cavità profonde
Per disegnare immagini
Sfumanti.
È illusione vera,
Realtà altra e uguale
È aperto autoreferenziale
Spietato insondato e insondabile
Inconsolabilmente amoroso.
È tremito, fiorire, terremoto.
Soffio dello spirito di fuoco.
È lode della scrittura, con un’ultima citazione come meditazione finale:
“Di fronte a forme diverse ma convergenti di conformismo uno degli elementi di validità della scrittura teatrale consiste nello spingersi al limite estremo di tollerabilità nei confronti di tutta la situazione esistente, nell’essere il meno tattica possibile, nel ricercare il livello più alto di scontro. Ciò che rende rischiosa e verificante la scrittura è questo trovarsi in continuo stato d’assedio: assediante e assediata.
L’ambiguità metaforica è forse la condizione più feconda per rendere viva e necessaria la scrittura teatrale: perché essa non deve esporre verità già note a tutti (non deve predicare a destra e a sinistra, perché in tal modo fa solo cattivo teatro politico), ma spingersi dal noto verso l’ignoto, per strade ancora da costruire. Il suo fondamentale essere politico consiste nella sua capacità di svelare e svelarsi: svelare e portare alla luce le contraddizioni: svelarsi come la tessitura stessa dell’utopia!”
Il teatro, (il mio teatro in realtà, quello interiore e mentale)
Vorrebbe tornare a regnare tra le fiere in mezzo al bosco.
Vorrebbe incendiarsi e spegnere l’incendio del bosco di montagna
Scivolando sui ricci di castagna.
È rivelazione
È fuoco
È Pentecoste.
(devo confessare, infine, sottovoce, che in quello che scrivo forti sono le influenze di un maestro da poco scomparso, Giuliano Scabia – sua è la citazione da Teatro nello spazio degli scontri. Lui ha sempre creduto nel futuro del teatro, che il teatro avesse un futuro e che il nostro futuro non potesse accadere senza il rito primario del riconoscersi nella poesia e nella relazione teatrale)